L'asino (Guerrazzi, 1858)/Parte III/La Sentenza
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LA SENTENZA
§ XVII.
Usciere a mondo finito di che composto. Re Salomone si ritira per dettare la sentenza. Pericoli della gloria. L’Asino è messo in pezzi. Serenata di Asini alle Murate. L’Autore se la prende per se: è obbligato cederne la metà all’Architetto. Spiegazioni dell’uomo dabbene nelle Murate. La presa di tabacco.
Allora dalla gola di un pezzo di usciere defunto quarantamila anni secoli prima scappò fuori una voce agrodolce composta in fretta con dodici miagoli di Gatto soriano, un brontolio di Cane mastino, lo zufolo di cinquecento Zanzare, ed il ronzio di due Calabroni, la quale disse: la corte si ritira — e re Salomone andò in camera chiamata di consiglio a scanso di equivoci. In cotesto punto ecco un tremendo uracano di nitriti, di ruggiti, di muggiti, di ragli, urli, fischi, animaleschi applausi proruppe dalle mascelle di milioni di Bestie raccolte nella sterminata pianura; le quali Bestie mareggiavano scombuiate come cavalloni del fu Oceano in tempesta; ed una turba di loro si precipitò frenetica per abbracciare l’Asino mentre scendeva dalla bigoncia, e per istringergli la zampa.
O buona gente, che mi avete seguitato fin qui, sentite adesso quale si abbiano sapore le carezze delle Bestie, e quali sieno i pericoli della gloria. La macchina mal cucita, e peggio legata dell’Asino non resse ad impeto così furioso: rotte in bricioli a modo di specchio cascato di mano a rozza fante le membra sparse mandarono un suono quasi di arpa eolia fracassata dalla tramontana, e prima che da capo tacessero perpetuamente con un singulto dissero: — oh! andate via a far del bene alle Bestie.
Quale poi rendesse sentenza re Salomone io non posso referire, conciossiachè in quel punto mi venisse rotto il sonno nella testa da un osanna di ragli di Asini i quali mi visitavano settimanalmente nel carcere delle Murate per certa opera pia, che non importa far sentire ai miei lettori e molto meno alle amabili leggitrici.
Modesto sono o parmi essere, ma io so pur troppo, che la superbia di sua natura troppo sottile, senza che l’uomo se ne accorga, gli si annida in qualche cantuccio del cuore, ond’è che io tolsi come fatta in onore mio la serenata gioconda. Però avevano destinato i cieli, che ogni illusione più cara mi venisse tolta nel diuturno carcere a quel modo, che l’Aquila nella muda perde tutte le penne; di vero certo uomo pratico di questi luoghi mi accertò non credere punto la fosse fatta in mia lode, bensì dell’Architetto, che con ingegno pari alla carità aveva saputo radunare dentro una chiostra umida e angusta tre privati. Della quale notizia rimanendo io sbigottito, l’uomo dabbene per temprarmi alquanto l’amarezza delle sue parole aggiunse:
— E potrebbe essere benissimo, se considero i molti meriti suoi che questi Asini non possono ignorare di certo, e la serenata più. strepitosa del solito, che mezza la ne tocchi a lei, e mezza all’architetto.
— Dio la benedica, risposi consolato porgendogli una presa di tabacco, accetti da me questo conforto del povero uomo, però che quello del galantuomo se lo sieno appropriato i chiarissimi viri, che mi hanno condotto a questo1. Dio la benedica; che se vossignoria lustrissima si fosse trovata nei piedi di Paride avrebbe spartita la mela, e l’assedio di Troia non sarebbe accaduto.
— Di certo, disse l’uomo dabbene tirando su il tabacco, con tale un impeto da impallinarsene il cerebro, ed io lo tirai dopo di lui.
- ↑ TERNE, Viaggio sentimentale.