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Troppo maggiori furono i nostri infortunii di quelli; non dico dei privati, dacchè questi non vale il pregio nemmeno ricordare, bensì i pubblici. Durante la nostra vita con lungo studio e indefesso volere ci affaticammo a voltolare il sasso della necessità in vetta al monte; e quando tratto sul comignolo credevamo traboccarlo giù dalla pendice opposta, ecco ci scappò di mano: noi dall’alto lo vedemmo rotolare nelle nostre terre da capo, funesto per la celerità e pel moto che noi medesimi gli partecipavamo; poi conducendo gli occhi a guardare le braccia affralite dalle fatiche e dagli anni, il cuore ci scoppia dentro come per morte: intanto il sasso prosegue il suo corso fatale schiacciando speranze, vite, desiderii e disegni, nè si fermerà prima che sia giunto a valle. Si rinnova il tormento che gli antichi attribuirono a Sisifo. Noi sopravviviamo a noi stessi; la nostra vita percorsa fu inane, quella che avanza il fulmine l’ha colpita, nè refrigerio alcuno ci conforta, dacchè il popolo non giace seduto sopra i sepolcri de’ suoi, nè col capo declinato su le ginocchia piange; non accarezza egli la sua ferita, e pensando alla vendetta ride del dolore; no, il popolo ha gittato via la corona dal capo quando si è sentito pungere; le corone egli amò, ma di rose e di mirto, quali i nostri padri adoperavano nei gioiosi conviti prima di bere. Il popolo italiano si