L'armata d'Italia/Prologo
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PROLOGO
I.
GIÀ la squadra italiana sta per lasciare le acque di Barcellona, salutata dalle bandiere di Spagna, di Francia, d’Austria e d’Inghilterra. Adios, Barcelona, archivo de la cortesia! Passano oggi sul mare propizio, tra i saluti delle nazioni, la potenza e la fortuna della patria.
Bastano i soli nomi delle navi per accendere negli animi la fiamma dell’entusiasmo. Italia, Lepanto, Dandolo, Duilio, Castelfidardo: sopra ognuna di quelle prore sta per noi la Speranza alata e in cima ad ognuna di quelle antenne brilla per noi il simbolo della Vittoria.
Quale italiano, ne’ momenti suoi generosi, non ha avuto un fremito di orgoglio udendo nomi che portano in sé tanta grandezza di ricordi, tanta solennità di augurii, tanta forza di promesse? Vive in Italia, profondo e immutabile, l’amore del mare e della gloria navale, come ai tempi repubblicani. È una bella e nobile eredità che si perpetua di secolo in secolo nello spirito del popolo d’Italia. Nessun’ altra aspirazione e piú vasta, piú concorde, piú altamente nazionale. E i tre colori non mai appariscono tanto fulgidi e tanto liberi e tanto vittoriosi alli occhi del popolo, quanto allor che son veduti ondeggiare sopra una nave possente, magnetici, secondo il poeta, come gli sguardi d’una donna.
I clamori e le salutazioni e le benedizioni, accompagnanti la discesa felice d’una novella nave in mare, si ripercuotono da un capo all’altro della penisola con un’eco immensa. Non soltanto nelle terre marittime, a Venezia, a Genova, alla Spezia, a Napoli, a Livorno, ovunque la tradizione storica è piú luminosa, ovunque l’attività recente è piú gagliarda; ma nelle province interne, nelle regioni de’ monti sotto le Alpi, lungo l’Appennino, tutti i cuori palpitano di ansia, si sollevano alla gioia, proseguono di ardentissimi voti l’ultima ferrea figliuola che la madre Italia reca al battesimo.
L’eco non è ancor spenta. Nell’arsenale di Venezia, ancora gli operanti coprono di corazze e muniscono d’armi la nave intitolata a Francesco Morosini, già munita della consecrazion popolare. Sotto ogni colpo di martello, scintilla un augurio; i fati della patria si raffermano in ogni piastra d’acciaio.
Con che attenzione ansiosa l’Italia ha seguito il risorgimento della sua Marina, dopo l’abiezion miserevole in cui l’armata era caduta piú specialmente sotto il governo di Guglielmo Acton! Ad una ad una discesero nel mare le grandi navi che sono tra le piú meravigliose macchine ideate dall’ingegno umano e tra i piú terribili stromenti di distruzione e tra i piú veloci. Parve che l’Italia le partorisse da’ suoi fianchi laboriosi e le spingesse nel mare sopra una immensa onda di amore e le guardasse come figliuole predilette, nudrite del miglior sangue, animate de’ piú caldi spiriti.
O navi — parve ella dicesse co’l poeta — o belle navi materiate del piú fulgido acciaio, che raccogliete in voi gran sogni di gloria e speranze ed augurii di milioni d’anime accese dalla religion della patria.
Come le navi de’ templi cristiani raccolgono in sé le preghiere e le estasi di milioni d’anime al conspetto del Signore Uno e Trino;
O mie navi, spiegate tutte le bandiere, spiegate visibili come sempre i varî segnali di bordo; ma specialmente per voi e per l’Anima umana spiegate una bandiera sopra tutte le altre;
Uno spiritual segno intessuto per tutte le Nazioni, simbolo dell’Uomo inalzato sopra la Morte;
Memoria di tutti i miei prodi capitani, di tutti gl’intrepidi marinai, di tutti quelli che si affondarono compiendo il dover loro;
Di tutti in somma i miei Eroi, taciturni, cui il Fato omai non può piú sorprendere né può turbare la Morte;
Presi senza strepito da te, sacro Mare, scelti da te, o Mare, che prendi e vagli nel tempo le razze,
Allattati da te, o gran nutrice, imbevuti di te, indomati, indomabili come te.
Splenda quel segno, o mie navi, su voi sempre, ondeggi sottilmente come una fiamma, si vegga da presso e da lungi, al sereno, e alla fortuna;
Sia per i giovini e per i vecchi capitani, e per gl’intrepidi marinai, e per tutti i miei figli, o navi, il segno della Gloria, e della Vittoria!II.
Ricordo ancora, quasi fosse ieri, lo spettacolo delle acque d’Ancona, nell’agosto del 1877, quando fu in vista la squadra navale italiana che per la prima volta con tante forze, dopo la sconfitta di Lissa, navigava l’Adriatico.
Tutto il popolo d’Ancona era invaso da una cosí fiera agitazione di gioia che quasi pareva un popolo aspettante il ritorno di una flotta vittoriosa. Dalle alture di San Ciriaco, dalla sommità del campanile, dal culmine della cupola, da tutti i luoghi eminenti, nei primi chiarori dell’alba, centinaia e centinaia di cittadini stavano alle vedette. Il mare appariva tutto quanto sereno, d’un verde soave, su cui si movevano, qua e là sparse, larghe macchie violacee, come ombre di nuvole fuggitive su una prateria novella. Il monte Conero, nel suo semplice e grande lineamento, appariva a pena rosato con non so quale interior luccichío di oro, quasi un tesoro nascosto da un velario. I moli si protendevan fuori, nel mare men chiaro presso la riva, come rigide bianchissime braccia.
Aspettava e palpitava, nella felice alba di estate, quello stesso popolo che nel luglio del 1866 aveva veduto tornare in porto le navi del conte di Persano coperte di vergogna, mezzo aperte dagli arrembaggi, mezzo arse dagli incendii, rotte dalle cannonate; e aveva veduto sbarcare dal Washington i poveri feriti che per due giorni erano stati crudelmente sbattuti nel rimorchio con strazio senza nome; e aveva gridato morte, con terribile furore, all’ammiraglio che, lasciando la sua bandiera sul Governolo, corse di notte tempo, come una femmina a nascondersi sul Messaggero per paura della morte.
Ora in vece le navi della patria navigavano l’Adriatico in letizia; e la bandiera ammiragliata sventolava sul Dandolo, sul meraviglioso bastimento le cui torri formidabili davano faville al sole. Ma erano là quattro navi a ricordare coi loro nomi il fatto di Lissa: la Palestro, il Castelfidardo, l’Ancona, l’Affondatore. Io non dimenticherò mai nella vita il fremito che corse la moltitudine quando tonò il primo colpo di cannone.
Per alcuni giorni fu uno spettacolo quasi direi nuziale. Giovini e vecchi, donne e fanciulli, i poveri ed i ricchi tutti movevano alle navi, salivano sui ponti, scendevano sotto coperta, ammiravano minutamente tutti i congegni, ascoltavano religiosamente le parole dei marinai, respiravano con delizia l’aria chiusa delle macchine, toccavano le armi, indugiavano a lungo prima di uscire. I battelli facevano ad ogni ora del dí un corteo mobile in torno. Sul tramonto, la gente veniva su i moli per intendere la salve che salutava le bandiere calanti. La notte erano fuochi di gioia e luminarie e canzoni con compagnia di strumenti. Pareva che il popolo, in un trasporto di tenerezza, volesse inghirlandare di fiori il naviglio rinnovellato.
Né io dimenticherò mai nella vita la navigazione notturna alla volta di Malamocco. Eravamo sul Barbarigo. La squadra era disposta in duplice ordine. Vedevamo innanzi a noi ed a lato brillare i fanali delle navi compagne. Di tratto in tratto un razzo solcava il cielo; e si udiva la voce roca del capitano dare un comando all’ufficiale che governava il vapore. La calma era profonda. Sul mare, che aveva veduto fiammeggiar tragicamente la Palestro del Cappellini e aveva inghiottito il Re d’Italia con Faa di Bruno e co’ suoi quattrocento eroi, raggiavano ora le stelle come occhi amanti, benignamente. A tratti a tratti un’onda metteva un baleno; tutte le onde in torno mettevano un baleno; il tenue sorriso d’una stella moltiplicavasi per un largo tratto di mare: diveniva innumerevole, secondo l’epiteto eschilèo.
Noi, sul casseretto, vegliavamo con l’ufficiale di quarto. Il ragionamento cadde sul fatto di Lissa. Il comandante del Barbarigo era stato presente alla battaglia; egli aveva veduto il Re d’Italia sommergersi con tutte le sue bandiere inalberate. L’episodio mirabile ci risplendeva nell’imaginazione; vedevamo Faa di Bruno sul suo palco di comando uccidersi con un colpo di pistola e il cannoniere Pollio, mentre il naviglio colava a fondo, dar fuoco a un cannone ancora innescato, gridando: “Ancor questo!”
Dal Dandolo partirono alcuni razzi. Il secondo comandante diede un ordine. Udimmo accelerare il moto del vapore; e a poco a poco le parole caddero e si fece ne’ nostri spiriti un gran raccoglimento.
La calma era immutata. L’Orsa tramontando scintillava d’una luce quasi soprannaturale, fra tutte le altre costellazioni. Le acque facevano un romore fievole, il romore “d’un armento che beva,” su’ fianchi del Barbarigo cui scuoteva da poppa a prua un leggero fremito. I marinai dormivano; e forse i loro cuori, nel profondo sonno della stanchezza, non avevano sogni.
Ma noi pur vegliando, sognavamo. Non so qual sogno eroico e grande si levava dal mare, nella notte; non so qual visione di nuove battaglie e di nuovi prodigi sorgeva a illuminare l’infinita ombra per ove navigavano le navi pacifiche in sicurezza. Certo, sopra il nostro capo quella notte ondeggiò il Segno del poeta, “lo spiritual Segno intessuto per tutte le Nazioni, simbolo dell’Uomo inalzato sopra la Morte.”
- Maggio ’88.