L'anno 3000/Capitolo Quarto
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Capitolo Quarto.
Partenza da Dinamo e arrivo ad Andropoli. — Aspetto generale della città. — Le case, la loro costruzione e la loro architettura. — Le piazze di Andropoli. — L’officina dinamica. — Il mercato. — L’arresto di un ladruncolo e la giustizia.
I nostri viaggiatori, lasciata l’isola di Dinamo, salirono nel loro aerotaco, impazienti di giungere nella grande capitale del mondo, e si diressero all’India. In poche ore videro dall’alto il Gange, l’antico fiume sacro degli Indù, e dove dall’altezza in cui erano si scorgeva appena nel basso una grande città, che, dal luogo in cui dominava un tempo Calcutta, scendeva lungo le sponde fino al mare.
Di là drizzarono la loro navicella al nord, dove si distendeva ampia e maestosa la smisurata catena dell’Imalaia.
Mano mano si andavano avvicinando a quella catena di monti, le cui cime sembrano inargentate dall’eterna neve che le ricopre, spesseggiavano per l’aria gli aerotachi. Sembravano grandi uccelli bruni: ve n’erano di tutte le grandezze e di tutte le forme e da tutti i punti dell’orizzonte si dirigevano verso lo stesso punto; come i vasi sanguigni, che da tutta la periferia del nostro corpo si dirigono al cuore.
E Andropoli era infatti il cuore del nostro globo, il centro della civiltà planetaria.
Andropoli fu fondata nell’anno 2500 da Cosmete, cittadino inglese, il più grande fra i legislatori del mondo, che in una grande assemblea tenuta a Londra nel 2490, gettò le basi degli Stati Uniti della Terra.
A quell’assemblea presero parte inviati di tutti i paesi, e dopo una discussione, che durò per più di un mese, si stabilì che la capitale planetaria si fondasse a Darjeeling, giudicato il paese più bello e più salubre del mondo.
La discussione fu lunga, ardente e talvolta anche impetuosa, perchè molti Europei volevano che la Città dell’Uomo si fondasse a Roma, che era stata molti secoli prima la capitale del mondo, la culla di tre civiltà.
Gli Americani volevano invece che la capitale planetaria si innalzasse a Quito, dove i vulcani si erano spenti e non si avevano più terremoti e dove rideva un’eterna primavera.
Gli Asiatici dell’estremo Oriente la desideravano nel Giappone, gli Australiani l’avrebbero voluta nella Nuova Zelanda; gli Africani insistevano per l’altipiano centrale del loro continente; ma alla fine trionfarono coloro, che volevano Andropoli ai piedi dell’Imalaia.
Quando Paolo e Maria vi andarono, quella città non aveva che cinque secoli di vita e contava già dieci milioni di abitanti.
Più che una città però poteva dirsi un’immensa agglomerazione di cento città, che dai monti e dalle colline scendevano nelle valli, tutte congiunte poi da strade terrestri e da strade aeree.
I nostri viaggiatori scesero ad Andropoli e presero alloggio in un ottimo albergo indicato loro dalla Guida, che avevano seco; albergo posto proprio nel centro della città.
Era quella l’unica parte di Andropoli costruita con una perfetta simmetria.
Da una gran piazza circolare partivano sette strade a guisa dei raggi di una stella, e nelle piazze si innalzavano superbi il Palazzo del Governo, l’Accademia delle scienze e delle lettere, l’Accademia delle arti belle e il Tempio della speranza. Nelle vie, che sboccavano nella piazza, eran posti gli alberghi, i grandi magazzini, gli Archivii, le Biblioteche; tutti gli edifizii pubblici necessarii alla vita di un gran popolo.
Si potrebbe dire che questa parte di Andropoli era la Città del pubblico; mentre tutta l’altra immensa distesa di case accoglieva gli abitanti, che venuti da tutti i paesi del mondo vi si erano agglomerati, per quell’istinto irresistibile che l’uomo ha comune colle formiche, colle api e con tutti gli animali socievoli.
La Città del pubblico non aveva alcuna simmetria, ma seguiva gli accidenti del suolo, ora arrampicandosi sulle colline, ora scendendo nelle valli e distendendosi sugli altipiani.
La legge degli Edili non imponeva altri vincoli, che quello di lasciare aperta la via fra la schiera delle case, in modo che vi potessero muoversi liberamente pedoni, velocipedi, carrozze e tutti quanti gli svariati mezzi di trasporto, che secondo il gusto e la ricchezza di ciascheduno erano usati nell’anno 3000.
Le vie non erano tutte diritte, nè si tagliavano ad angolo retto, come nelle monotone scacchiere dell’America; ma ora eran serpentine, ora oblique ed ora diritte, secondo gli accidenti del suolo e il capriccio dei costruttori. Di obbligatorio non c’era che la larghezza, che era per tutte le vie di almeno venti metri.
Le case eran tutte di un sol piano, più spesso di due, comprendendo, ben inteso, fra quei due anche il pian terreno. Quelle di un sol piano (il terreno) erano dei poveri o dei celibi; le più alte dei ricchi e degli ammogliati; perchè ogni celibe e ogni famiglia avevano una casa per sè soli e ogni casa aveva il proprio giardinetto. Luce, calore, forza motrice ed acqua eran distribuiti in ogni casa dal gran centro dinamico della città.
Quanto all’architettura, che aveva guidato la costruzione delle case, essa era bizzarra e svariatissima. Tutti gli antichi stili vi erano rappresentati insieme ai nuovi e ai nuovissimi; che ogni giorno immaginava la fantasia dei proprietarii e degli architetti. Ognuno poteva farsi a suo talento la propria casa, per cui vedevate accanto ad un edifizio gotico una casa pompeiana, un châlet vicino ad una palazzina greca, e i minareti vicini a case barocche, a case di stile lombardo o del rinascimento.
Per un uomo del nostro tempo, che avesse visitato quella città, la cosa più originale però non era la straordinaria varietà degli stili architettonici; ma bensì la novità e la diversità del materiale, con cui erano costruite le case.
Nel secolo XIX tutte le case eran fatte di legno, di mattoni, di pietra; ben rare volte di ferro. Esigevano tutte un gran tempo e una spesa non indifferente, per cui la massa del popolo non poteva mai godersi la gioia sana e grande di abitare in una casa propria. Nell’anno 3000 l’uomo più povero di questo mondo ha sempre una casetta tutta sua, che è stata costruita da lui o da altri in un solo giorno e che gli costa poche lire.
Per costruire una casa si fa a un dipresso ciò che si pratica per gettare in gesso o in bronzo una statua. Si hanno modelli di case di vario prezzo, fatti di una lega metallica duttile e resistente all’ossidazione. Si pianta il modello nel luogo in cui si deve innalzare la casa e poi si cola per un foro entro il modello la sostanza liquida, che, solidificandosi poco dopo, forma le pareti e i muri maestri dell’edifizio.
La materia liquida è delle più diverse nature e da poche lire può salire al valore di migliaia di scudi.
Per le case povere è una miscela di gesso e di terra alluminosa, che si indurisce come la pietra e può aver tinte diverse, secondo il gusto estetico del proprietario.
Vi sono miscele liquide, che consolidandosi rifanno un vero marmo, che colla politura ne acquista tutto lo splendore; e ve n’ha che imitano il diaspro, le agate, il lapislazzolo, la giada; tutte le pietre più belle e più costose.
Altre miscele imitano i metalli più lucenti e più preziosi, senza averne la pericolosa conducibilità, e si vedono ad Andropoli case che paiono tutte d’oro o d’argento, d’avventurina o di bronzo e che invece sono costruite in un materiale cattivo conduttore del calorico; per cui colla bellezza va sempre d’accordo la salubrità dell’edifizio.
Agli uomini del secolo XXXI pare molto strano che i loro padri per tanti secoli abbiano affaticato tanto per saldare insieme colla calce mattoni e pietre, mentre si possono fare le case per colatura, come si fa per una statuetta di gesso.
Le vie hanno tutte un nome e le case un numero e la città è divisa in tante regioni, contraddistinte dalla loro posizione astronomica.
Nel centro di Andropoli non si può negare che il rumore non sia alquanto molesto, benchè assai minore che nelle vie dell’antica Parigi e dell’antica Londra.
Soppresse le locomotive e i carri trascinati dai cavalli o da altri animali s’è già tolta una grande molestia di rumori assordanti e di fumo; ma i veicoli elettrici terrestri e aerei non sono muti, e l’andare e il venire e il parlare di migliaia di persone, che si affollano nella città centrale, producono un brusìo molto forte. E lo sanno i letterati e la gente tranquilla, che abita sempre lontana dal centro, nelle vie più solitarie, e dove d’altronde, come in tutto il resto della città, il pavimento, essendo fatto di una materia simile al sughero e al caucciù, spegne in gran parte i rumori delle ruote e dei passi dei viandanti.
Tutto questo videro i nostri viaggiatori, facendo a piedi lunghe corse nelle vie e nelle piazze di Andropoli.
Si riserbavano poi di visitare tutti i grandi edifizi pubblici della città onde studiare la vita di questa grande metropoli del mondo. Intanto vollero visitare la grande officina dinamica e il mercato, cioè i due grandi centri, dai quali partono la forza e l’alimento.
In questo loro viaggio di scoperta non si saziavano di ammirare le molte e grandi piazze aperte là dove confluivano molte vie.
Ve n’erano di quadrate, di rettangolari, di ottagone, di esagone; ma per lo più erano rotonde, tutte molto ampie e rallegrate da alberi, da aiuole fiorite e da fontane pittoresche, delle quali non si potevano vedere due che fossero eguali. Sotto gli alberi si vedevano comodi sedili, dove chiunque poteva mettersi a riposare o ad ammirare le statue, i fiori, le fontane.
Le fontane non potevano essere nè più belle, nè più fantastiche. In una delle piazze maggiori si innalzava un monte artificiale, fatto di rupi accatastate pittorescamente le une sulle altre. Fra i sassi eran piantati arbusti e piante alpine, che scapigliate pendevano dai dirupi e dalle frane; e licheni e felci e morbide borracine davano alle pietre una vita fresca e gaia, che copiava quella della natura montana. L’acqua zampillava dall’alto, ora precipitandosi rumorosa in piccoli precipizii, ora si raccoglieva in un ruscelletto argentino, ora si spargeva sopra una roccia nera come l’antracite e scintillante di cristallini di mica, quasi fosse la ricca chioma di una ninfa, che avesse sparsi i suoi capelli per l’aria. E tutte quelle acque si riunivano in basso nel seno tranquillo di un laghetto, dove guizzavano pesci e pesciolini d’ogni colore e nuotavano tranquilli e maestosi cigni, anatre, uccelli acquatici delle più lontane regioni del globo.
Altre fontane erano di stile classico antico, altre barocche con draghi e delfini, che vomitavano l’acqua dalle loro faccie.
Anche il Geiser dell’Islanda era raffigurato in un’altra fontana, dove da massi tondeggianti di agata bionda salivano al cielo cento zampilli d’acqua, che nella notte, illuminati dalla luce policroma dell’elettricità, davano all’occhio una festa di colori, che non si sarebbe saziato mai di ammirare.
Le piante, i fiori, le fontane non erano però l’unico ornamento delle piazze, dove si innalzavano statue di grandi uomini di tutti i paesi del mondo.
Nè le statue erano innalzate a caso; ma ogni piazza era destinata ad illustrare le glorie di un’epoca storica o di un paese. L’elemento storico però predominava sul geografico, perchè gli uomini civili del secolo XXXI si erano facilmente convinti, che i genii di un’epoca si rassomigliano fra di loro assai più che non gli uomini grandi di uno stesso paese; essendo il tempo un complesso di elementi infiniti, che si sommano; mentre l’elemento geografico è uno solo e spesso riunisce in una sola famiglia e per caso uomini troppo diversi e spesso contradditorii.
In una piazza ad esempio si vedevano le statue dei più grandi uomini dell’antica Grecia; in un’altra quelli di Roma imperiale; in una terza erano raccolti i genii del rinascimento toscano e che da soli bastavano a popolare una delle maggiori piazze d’Andropoli. Altrove si ammiravano le statue dei politici inglesi, quelle dei filosofi tedeschi e così all’infinito. Ai piedi delle statue null’altro che il nome e la data della nascita e della morte.
Paolo e Maria dovettero prendere in affitto per un paio d’ore un tandem elettrico per visitare l’Officina dinamica, che era molto lontana dal loro albergo.
Quell’officina emergeva da tutte le altre case, tutte basse, a guisa di un colosso posto fra pigmei. Era un vero palazzo, semplice e severo nella sua architettura e dove il bello era sagrificato all’utile e all’indispensabile.
Il direttore, a cui erano raccomandati, servì loro da cicerone, ma essi dopo aver visto l’Isola di Dinamo, avevano poco di nuovo da ammirare e poco da scoprire.
Quest’officina riceveva da quell’isola direttamente tutta quanta la energia motrice necessaria all’immensa metropoli e non faceva che distribuirla.
Ciò che era ammirabile era un quadrante posto nel centro dell’edifizio e dove erano segnate tutte le forze diverse, che ogni giorno dovevano essere distribuite ai privati e agli edifizi pubblici. Un solo operaio sopraintendeva a questa distribuzione regolare e quotidiana; mentre in una camera vicina parecchi operai stavano attendendo le richieste di forze straordinarie, che ora chiedevano maggior luce, maggior calore e un più grande tributo di acqua.
Si fermarono per una mezz’ora in quel riparto ad ammirare l’ordine ammirabile, con cui giungevano le richieste e la prontezza con cui erano soddisfatte.
Vi era un impiegato addetto all’acqua, un altro alla luce, un terzo al calorico, un quarto alla forza meccanica, un altro per l’elettricità; fosse poi dell’antica o della nuova.
Le richieste giungevano non coll’antico telefono, che però si era molto perfezionato, ma per dispacci telegrafici, che si scrivevano da sè in caratteri luminosi in una cassetta nera e tenuta nell’oscurità.
Il Direttore mostrò a Paolo e Maria parecchie di queste richieste.
Nel banco della distribuzione della forza meccanica si lesse, dopo uno squillo di campanello che metteva l’operaio sull’attenti:
Fabbrica di macchine agricole. Società Edison. — Regione Sud-ovest. — Via Volta, N. 37.
Domani gli operai saranno cresciuti di un terzo. — Occorre un terzo di più di forza meccanica.
Poco dopo uno squillo avvertiva l’operaio del banco della luce, che si richiedeva la sua attenzione.
E infatti sul quadro oscuro si potevano leggere queste parole:
Regione Nord-est. — Via Omero, N. 59. Questa sera festa di ballo in famiglia. — Occorre per tutta la notte luce triplicata.
In una sezione speciale stava scritto: Accidenti.
E il campanello chiamava l’operaio sull’Attenti.
Infatti la camera oscura diceva:
Regione centrale. — Palazzo dell’Accademia di belle arti. Sviluppato un piccolo incendio nella sala della stampa.
Qui anche il Direttore si appressò con certa inquietudine al banco e prese il posto dell’operaio, rispondendo per telegrafo:
Aprite subito il rubinetto dell’acido carbonico e dirigete il tubo conduttore del gas nel luogo in cui si è sviluppato l’incendio. Se il fuoco non si spegne subito, avvertite.
Pochi momenti dopo si leggeva nella camera oscura:
Fuoco spento. — Mille grazie.
Il Direttore si mise a sedere e volgendosi ai suoi visitatori:
— Vedete, a questi membri dell’Accademia di belle arti, insieme al mio consiglio avrei mandato ben volentieri e telegraficamente uno schiaffo.
Dovete sapere, che ogni edifizio pubblico ha un serbatoio di acido carbonico liquido, a cui si possono adattare in pochi minuti tubi elastici, che si possono guidare dove si vuole, dirigendo sulla fiamma o sugli oggetti che bruciano una forte corrente di gas, che in pochi istanti spegne la fiamma e l’incendio.
Ma questi benedetti artisti disdegnano la scienza, che mettono spesso e volentieri in canzonatura, e ignorano quasi sempre fin gli elementi della fisica e della chimica; ciò che non toglie che quando succede loro il più piccolo accidente, si mettono le mani nei capelli invocando la scienza, che essi avevano disprezzato. Voi avete assistito ad una di queste scene. Perdoniamo però a questi ignoranti volontarii i loro capricci, perchè sono essi, che colle loro opere mirabili ci fanno benedire la vita.
Un altro giorno i nostri due pellegrini vollero visitare il mercato, o dirò meglio i mercati, che occupano un’intera collinetta di Andropoli. Essendo piuttosto ripida la salita, vi si sale e si scende per vie funicolari. Alcune sono per il trasporto delle derrate, altre per le persone.
Tutto quel movimento di treni, che salgono e scendono senza posa, tutti quei carri di fiori, di frutta, di selvaggiume, di pesci, di carni, formano uno spettacolo curioso, bizzarro, interessantissimo. Nessun carro alimentare però era scoperto, ma ciò che vi era dentro si vedeva benissimo, essendo i veicoli chiusi da vetri trasparentissimi.
Sull’alto del colle si distende un largo altipiano, dove in distinti edificii si vendono qua i pesci, là le carni: più in là le verdure, i legumi, le frutta, i fiori. E dovunque un entrare, un uscire di gente, che carica sui vagoni la merce comprata con un indirizzo. Nessuno la porta da sè, perchè una società si incarica con appositi impiegati di far ricapitare nelle singole case le cose comperate.
Il cuoco, il cameriere, il signore non fanno che scegliere ciò che vogliono acquistare e lo consegnano poi agli agenti distributori.
Paolo e Maria si fermarono più a lungo nel mercato dei fiori e in quello delle frutta.
Nel primo era tale una festa per gli occhi da inebbriare, tale un profumo da ricordare le delizie dell’amore.
Nel secolo XIX i giardini erano già una meraviglia, perchè riunivano in piccolo spazio fiori venuti da tutte le parti del globo e le serre calde e le fredde permettevano di coltivare anche nei paesi temperati e nelle zone fredde le piante del tropico. Figurati che fin d’allora in Russia alcuni ricchi signori raccoglievano l’uva nelle loro immense serre e ne facevano vino, e in Norvegia si coltivavan le orchidee dell’America centrale.
Oggi però l’arte di coltivare i fiori ha fatto passi da gigante, perchè non soltanto il giardiniere può in un mazzo solo mettere insieme i fiori delle sei parti del mondo, ma produce fiori nuovi con artifizi complicatissimi di fecondazione artificiale e di concimi chimici. Si è riuscito perfino a far fiorire le piante e a far maturare i frutti in tutte le stagioni dell’anno.
Una volta la luce del sole non poteva esser sostituita da alcuna altra luce, e anche i frutti, che artificialmente si ottenevano fuori della loro stagione naturale, erano insipidi; così come i fiori non avevano il loro profumo e le loro bellezze. Oggi invece un frutto o un fiore raccolto nell’inverno nelle serre calde non può per nulla distinguersi da quello che dà nell’estate la natura sotto l’azione potente del sole.
Il numero dei fiori coltivati è oggi almeno mille volte maggiore che non fosse nei secoli XIX e XX, non solo perchè non v’ha più un cantuccio del nostro pianeta, nè la più lontana delle foreste, che non ci abbia dato il tributo delle sue piante e dei suoi fiori; ma anche perchè l’arte ha saputo creare specie nuove, che non sembrano al primo aspetto avere parentela alcuna colle specie, che nascono spontanee nel prato e nel bosco.
Nel mercato dei fiori si vendevano anche piante vive e fiori imbalsamati, che sembravano freschi e che ingannavano l’occhio di tutti.
Dal mercato dei fiori Paolo e Maria passarono in quello delle frutta.
Anche qui un incanto per gli occhi, un profumo per il naso. La bellezza dei fiori sta a quella dei frutti, come fra loro stanno i loro profumi.
Nei fiori la bellezza è il fascino primo, che li rende le più care creature della terra. Si direbbe che in essi il sommo fra i coloristi della Scuola Veneta si è alleato col principe del disegno della Scuola Greca; per cui la profusione, la varietà e l’intreccio dei colori non sono vinti che dall’eleganza, dalla purezza o dalla bizzarria del disegno. Là dove il colorista innamorato, nell’esaltazione del suo amore per il colore, lo getta a piene mani, in eccesso, col pericolo di cadere nel barocco e nella pletora del troppo, si fa innanzi il pittore del disegno, che nell’originalità e l’eleganza delle linee fa tale una cornice all’orgia dei colori, da far dire a tutti:
Oh che santi e cari alleati! Oh come stanno bene insieme nella feconda creazione del bello!
E quando il disegno sarebbe troppo severo, troppo semplice o rigido, viene subito il colorista colla sua inesauribile tavolozza a dar vita e gioventù al calice troppo gretto, alla coppa troppo classica; e il fiore par che risponda ai suoi due genitori:
Grazie, grazie!
Se i fiori son tanto belli da bastare essi soli per dettare un trattato d’estetica a chiunque (purchè egli non sia un filosofo); anche i loro odori sono la poesia del profumo, che ha in essi forse un numero maggiore di note, che non abbia la musica.
E non hanno dessi la delicatezza e la fugacità di un sogno, che fra le palpebre socchiuse, compare e sparisce e s’indovina più che non si senta?
E non hanno forse anche la nota dell’aroma più ardente e più caldo, e la voluttà profonda, che sembra un contatto di carni innamorate e il piccante e il frizzante e l’etereo e il vaporoso e il solleticante e tante e tante altre delizie, a cui il nostro linguaggio tanto imperfetto nega lo stampo di una parola?
E così nei frutti forme e colori e profumi stanno tra di loro nello stesso rapporto come bellezza di forme e soavità di odori stanno nei loro padri e fratelli, i fiori.
Il profumo delle frutta non ha la poesia di quello dei fiori; e se nell’ammirazione di questi, il primo grido dell’anima è:
Oh belli!
nell’ammirazione dei frutti, il grido invece è quest’altro:
Oh buoni!
Così le forme dei frutti sono molto più semplici e poche, così i loro profumi hanno poche note. Possono essere piacevoli, di raro inebbrianti, possono essere forti, di raro o mai voluttuosi. Son profumi che son quasi sapori, e che stanno a quelli dei fiori, come l’amicizia sta all’amore.
E non son forse i fiori gli amori delle piante?
E non son forse i frutti le amicizie generate dall’amore?
A tutto questo pensavano e tutto questo sentivano i nostri viaggiatori, passando dal mercato dei fiori a quello dei frutti.
Anche qui vedono e ammirano raccolti in una stessa bottega le fragole, i lamponi, i manghi, i mangostani, le banane di cento varietà, i cocchi, gli ananassi, le cirimoie e le pere e le mele e tanti e tanti altri frutti, che il secolo XIX non conosceva ancora. Fra essi la pata, che un argentino ha saputo strappare alle foreste vergini della sua patria e coltivare in Europa, facendone un frutto, per profumo e per sapore rivale della pesca. Eppure un certo Mantegazza l’aveva fin dal secolo XIX additata come un frutto silvestre del tutto sconosciuto agli Europei.
Paolo e Maria, passando dinanzi a un banco, dove erano esposte montagnole di arancie e di mandarine, videro un monello, che ghermiva una delle più belle e delle più grosse e se la svignava; non però tanto svelto da non esser veduto dalla venditrice, che gridava:
Al ladro, al ladro!
Appena fu udito questo grido, da tutte le parti del mercato si sentì esclamare ad alta voce, da uomini, da donne, da fanciulli:
Giustizia, giustizia, giustizia!
E in men che nol dico, il ladroncello fu ghermito da un signore, che alla sua volta gridava:
Giustizia, giustizia!
Nell’anno 3000 non vi sono carabinieri, nè poliziotti, nè guardie di pubblica sicurezza; ma ogni cittadino onesto è carabiniere, poliziotto e per di più anche giudice.
In pochi minuti intorno al monello si raccolsero sei cittadini, che col signore, che l’aveva afferrato, bastavano ad improvvisare il tribunale, che si chiama la Giustizia dei sette.
Il pubblico, dopo aver riconosciuto che il tribunale era costituito, si ritirò, facendo circolo intorno a quelli otto uomini; sette giudici, ed un colpevole.
— Perchè hai rubato quest’arancia? — disse colui che aveva per il primo arrestato il piccolo delinquente.
— Perchè avevo sete.
— Ma quell’arancia non era tua.
— No, ma la fruttivendola ne aveva cento e mille.
— Non importa. Quelle arancie eran tutte sue. Dovevi chiederla o comperarla. Tu hai rubato e te n’andrai alla Casa di giustizia.
Allora uno dei sette disse:
— Io scendo appunto nella città e abito in quei pressi. Lo condurrò io stesso colà. Datemi la sentenza.
Uno dei sette staccò un foglietto da un portafoglio che aveva in tasca e scrisse:
Fanciullo ladro di un’arancia.
Tutti i sette firmarono il foglio e l’accompagnatore lo prese e se n’andò col monello, che senza opporre resistenza, ma piagnucolando lo seguì.
E tutto rientrò nell’ordine di prima.
— Vedi, Maria, — disse Paolo, — tu hai assistito ad un giudizio e ad una sentenza, come si suol fare per tutti i delitti, anche pei maggiori.
In questo caso si trattava del semplice furto di un’arancia, ma se quel ragazzaccio avesse rubato un diamante o un portafogli pieno di denaro o avesse dato una coltellata ad un suo compagno, si sarebbe gridato egualmente:
Giustizia, giustizia!
E nello stesso modo si sarebbero riuniti sette galantuomini, avrebbero fatto un giudizio sommario e avrebbero condotto il colpevole alla Casa di giustizia.
E questa Casa non è già un carcere, come quelli che si usavano anticamente, ma una specie di scuola, dove si correggono i colpevoli; dove si studiano con amore le cause, che possono aver condotto a delinquere. —
Maria interruppe Paolo:
— Ma tu mi hai detto, che alcuni specialisti esaminano il cervello dei bambini appena nati e quando scoprono in essi una tendenza irresistibile al delitto, li sopprimono.
— E questo è vero, — rispose Paolo, — ma non si distruggono che i delinquenti nati, cioè coloro, che per la speciale e fatale organizzazione delle loro cellule cerebrali sono necessariamente consacrati al delitto. Essi ucciderebbero e ruberebbero anche se nascessero ricchi, anche se la fortuna li mettesse nelle condizioni più felici. Queste però sono rarissime eccezioni. Tutti gli altri uomini nascono onesti, ma sono figli di lontanissimi padri, che vivevano nella vita selvaggia, che rendeva necessaria la violenza, e conservano nel loro cervello un germe celato del delitto, che in circostanze favorevoli può svilupparsi e condurli a uccidere o a rubare. Non vi ha uomo su questa terra, che in un impeto subitaneo di passione non possa per odio o per vendetta rendersi colpevole di un omicidio o di un furto.
La nostra civiltà cerca da secoli di educare l’uomo in modo di sopprimere, di soffocare quei germi atavici; mentre d’altra parte si cerca di organizzare la vita sociale in modo che il delitto sia inutile e dannoso a chi lo commette. Un tempo la giustizia umana non si occupava che di punire: oggi invece cerchiamo di prevenire la colpa, rendendola difficile o impossibile. E che questo lavoro della civiltà non sia inutile, lo prova la statistica del delitto, che lo dimostra sempre più raro. Ciò non toglie che abbiamo sempre dei ladri e degli assassini. Il progresso morale è assai più lento del progresso intellettuale, ma non dobbiamo disperare che un giorno l’uno si metta a livello dell’altro.
— Dunque oggi non si puniscono più i delitti?
— Sì, ma la pena è ridotta alla perdita temporanea della libertà. Non ti pare forse una punizione sufficiente quella di essere segregato dal consorzio umano?
Nella Casa di giustizia, il ladro, l’assassino son tenuti chiusi, mentre si cerca di dimostrar loro l’enormità della colpa commessa persuadendoli che il delitto non è soltanto una colpa, ma è un errore e una cattiva speculazione.
La chiusura non dura che pochi giorni o poche settimane ed è caso molto raro che si prolunghi ad alcuni mesi. E la punizione non finisce lì, perchè quando il colpevole è rimesso in libertà porta per qualche tempo all’occhiello dell’abito un nastrino giallo, che segna in lui un marchio di infamia, per cui tutti lo guardano con diffidenza e sospetto. I ladri lo portano di color giallo, gli assassini o tutti quelli che hanno commesso atti di grande violenza, lo portano rosso. E quel segno non si toglie che dopo che il colpevole ha mostrato colla sua condotta di esser ritornato nel grembo dei galantuomini.
— E quando il delinquente è recidivo?
— Oh allora, la pena della prigionia è raddoppiata o triplicata secondo i casi, e il colpevole, uscendo dalla Casa di giustizia, porta due nastri invece di uno. Ciò avviene però rarissime volte e per lo più in delinquenti nati, che per errore dell’esame cerebrale, son sfuggiti alla soppressione.
Pochi momenti dopo Paolo e Maria scendevano dal mercato, dopo aver comprato molti fiori e molte frutta e ritornavano al loro albergo.