L'Uomo di fuoco/16. Una sorpresa dei selvaggi

16. Una sorpresa dei selvaggi

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16. Una sorpresa dei selvaggi
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CAPITOLO XVI.

Una sorpresa dei selvaggi.

Il tamanduà continuava a salire la riva senza affrettarsi e siccome in quel luogo il margine della foresta scendeva rapidissimo, l’animale si aiutava poderosamente colle zampe posteriori che sono assai più robuste delle anteriori e per di più armate di artigli lunghissimi e duri come l’acciaio.

Seguirlo era cosa facilissima, poichè i tamanduà sono piuttosto lenti nelle loro mosse e non conoscono affatto la corsa nè il passo rapido.

Il marinaio di Solis dopo aver osservata e rilevata la direzione che prendeva l’animale, condusse i suoi compagni attraverso un macchione e ne raggiunse il margine nel momento in cui il tamanduà stava per inoltrarsi nella grande foresta.

— Ditemi, Diaz, — disse Alvaro fermandolo. — Sono pericolosi quegli animali? Quello che ci sta dinanzi se non ha bocca possiede certe unghie da sventrare facilmente anche un uomo.

— Assaliti si difendono coraggiosamente e non è raro il caso [p. 154 modifica]che riescano a porre fuori di combattimento anche i giaguari che sono i loro più mortali nemici e anche i coguari, o che almeno li costringano a rinunciare all’assalto.

Contro un uomo, anche se armato di una semplice mazza, nulla possono. Potete gettarvi in ispalla l’archibugio. Non vi sarà necessario.

— E dove va ora quella bestia?

— In cerca d’un formicaio. Oh! Non andrà molto lontano! Le termiti abbondano nelle foreste brasiliane.

— Ah! Guardate! Il tamanduà rallenta la marcia e fiuta l’aria. Sente la vicinanza del pranzo.

— E noi lo lasceremo pranzare?

— Aspetteremo che demolisca la cittadella delle termiti. Ehi, Garcia! Se tu tornassi al nostro accampamento intanto, a prepararci del pane? Hai veduto come si fabbrica e poi sorveglierai nel frattempo anche il fiume.

— Vado a fare il panettiere, — rispose il mozzo. — La mia presenza qui è inutile.

Mentre il bravo ragazzo si allontanava, il tamanduà continuava ad avanzarsi con una certa precauzione verso un gruppo d’alberi sotto i quali si scorgevano parecchi coni di terra biancastra, alti poco più d’un metro e situati, un po’ a casaccio, gli uni accanto agli altri.

— Il formicaio! — esclamò Diaz che pel primo li aveva scorti.

— Ah! Sono là dentro le formiche? — disse Alvaro. — Non farà troppa fatica a demolirlo, il nostro animale.

— Quei coni sono duri come la pietra, signore, — rispose il castigliano. — Senza un buon piccone non si sventrano.

— Pare impossibile che delle formiche possano costruire simili cittadelle.

— Dei formiconi signori e della specie più terribile. Gli abitatori di quel formicaio devono essere dei tanajura, ne sono certo.

— Assai grossi?

— Sono lunghi un pollice ed un quarto.

— Quasi quattro centimetri! Altro che le nostre formiche d’Europa.

— E come pungono o meglio come mordono e come sono voraci di carne umana! Che sorprendano un uomo addormentato e quel disgraziato se non si alza subito è perduto. [p. 155 modifica]

Miriadi di mandibole lo intaccano da tutte le parti e in dieci minuti ve lo riducono in un bellissimo scheletro.

— Formiche assassine!

— Dite antropofaghe, signore.

— Sfido io! Sono nel paese dei mangiatori di carne umana! — disse Alvaro.

— Ecco il tamanduà che attacca la cittadella.

L’animale si era rizzato sulle zampe deretane e aveva cominciato a sgretolare il primo cono.

Le sue unghie, più affilate di quelle dei giaguari, strappavano pezzi grossi come ciottoli, aprendo abbastanza rapidamente un foro di forma quasi circolare.

Già qualche formicone, inquietato da quel rumore sospetto, cominciava a mostrarsi, quando il tamanduà interruppe bruscamente il suo lavoro, guardandosi intorno e alzando dinanzi a sè la sua magnifica coda, a guisa di scudo.

— Si è accorto della nostra vicinanza, — mormorò Diaz agli orecchi di Alvaro.

— Allora affrettiamoci ad accopparlo prima che ci scappi, — rispose il portoghese.

— Avete veduto che non è lesto e potremo subito raggiungerlo. E poi, non voglio rinunciare alla mia frittura, un manicaretto delizioso, ve lo assicuro. Aspettiamo ancora un po’.

Il tamanduà stette alcuni istanti in ascolto, manifestando la propria inquietudine con un incessante agitare della sua magnifica coda, poi non vedendo comparire alcun nemico e credendo forse di essersi ingannato, riprese la sua opera di demolizione, allargando il foro.

Le termiti, furiose di essere disturbate, si presentavano minacciose, affollandosi dinanzi all’apertura e muovendo rapidamente le loro tenaglie, pronte a mordere.

Il tamanduà punto spaventato, allungava prontamente la sua lingua vischiosa e assorbiva tranquillamente le combattenti le quali scomparivano rapidamente entro quello strano tubo che serviva da bocca.

Quantunque l’animale operasse con una velocità sorprendente, non riusciva però a tener testa alle falangi che accorrevano alla difesa della cittadella.

Un gran numero di tanajura riusciva a fuggire, disperdendosi per la foresta. [p. 156 modifica]

— Ecco il momento buono, — disse il marinaio.

Imboccò la gravatana entro la quale aveva già cacciata una freccia avvelenata col vulrali, mirò per qualche istante, poi soffiò con forza.

Il sottile e terribile cannello partì senza rumore e andò a piantarsi in una delle zampe deretane del tamanduà e così delicatamente che il ghiottone, completamente assorto nel riempirsi il ventre, non si accorse nemmeno di essere stato colpito.

Non erano però trascorsi cinque secondi, tanto è rapida l’azione prodotta da quel potente veleno, quando lo si vide alzare bruscamente la testa e tremare in tutte le parti del corpo.

Spazzò due o tre volte il suolo colla coda, poi cadde fulminato in mezzo ai battaglioni delle termiti.

— Occupatevi del tamanduà e fuggite subito se non volete provare i morsi delle formiche, — disse il marinaio.

Balzò rapidamente innanzi, tenendo in una mano un pezzo di foglia secca di palma che poteva servire da spatola e nell’altra il sacco di pelle e saltò in mezzo alle termiti.

Con pochi colpi ne raccolse parecchie dozzine che rinchiuse subito nel sacco poi fuggì a tutte gambe seguìto da Alvaro che si era gettato in ispalla il tamanduà.

— All’accampamento e presto, — disse il marinaio. — Le tanajura possono prendersela con noi e seguirci. —

Si slanciarono a corsa sfrenata attraverso la foresta e un quarto d’ora più tardi giungevano all’accampamento.

— Le gallette? — chiese Alvaro, vedendo il mozzo affaccendato dinanzi al fuoco.

— Vanno a meraviglia, signore, — rispose Garcia che sudava. — Sono diventato un panettiere di prima forza, ve l’assicuro. Ne ho già preparate una quindicina.

— E gli Eimuri? — chiese Diaz.

— Non ho veduto nessuno apparire sulla riva opposta.

— Allora prepariamoci il pranzo. Ah! E la pentola? Mi ero dimenticato che quella che avevo si è rotta. Bah! La surrogheranno con altra cosa.

Signor Viana, scuoiate il tamanduà finchè vado a cercarne una. Prenderò due piccioni ad una fava.

— Che uomo meraviglioso! — esclamò Alvaro, guardandolo mentre si dirigeva verso il fiume. — Ha fatto una bella scuola [p. 157 modifica]sotto i selvaggi! I selvaggi! Eh! Ne sanno più di noi e possiamo, per ora, chiamarli maestri... degli europei. —

Aveva terminato il scuoiare il tamanduà che era coperto da un vero strato di grasso come un piccolo maiale od un orsacchiotto ben pasciuto, quando vide il marinaio tornare portando fra le braccia una testuggine lunga quasi mezzo metro, col guscio color brunastro, chiazzato di macchie rossastre ed irregolari, composto di tredici lamine poste superiormente.

— Ma dunque non finirete più di arricchire la nostra dispensa? — chiese Alvaro.

— Oh! L’avrei lasciata andare se avessi avuto una pentola che potesse servire per la nostra frittura, — rispose il marinaio. — L’avevo adocchiata quando noi spiavamo, sulle rive del fiume, le mosse del tamanduà.

— E come potrà servirvi da pentola?

— Il guscio surrogherà quella che mi manca. All’opera, cuochi! Nemmeno gli imperatori romani avranno mangiato così bene. Me lo direte poi. —

Mentre Garcia continuava a cuocere gallette di mandioca e Alvaro si occupava dell’arrosto, sorvegliando una superba coscia del tamanduà che arrosolava lentamente, il marinaio aveva spaccata, dopo molti colpi formidabili, la testuggine.

Mise da una parte la carne della povera bestia che doveva offrire più tardi un altro arrosto gustosissimo, pulì il guscio superiore e lo mise sulla cenere calda gettandovi dentro dei grossi pezzi di grasso del tamanduà affinchè si sciogliessero.

Quella coppa che resiste anche alla fiamma per un certo tempo, serviva a meraviglia, senza bruciarsi.

Quando il marinaio vide che l’arrosto era quasi pronto e che il grasso si era già ben liquefatto, disse:

— Preparatevi per la frittura che formerà il primo piatto. Il tamanduà verrà poi. —

Aprì il sacco e lo vuotò nel guscio. Le povere termiti, che erano delle belle e grosse formiche, più lunghe d’un pollice, caddero nel grasso bollente, dibattendosi per qualche istante disperatamente.

Un profumo squisito, come di pesce fritto, si sparse per l’aria.

Quando il marinaio le giudicò ben cotte, le ritirò servendosi d’una spatola di legno che aveva lì per lì fabbricata e le depose su una bella e profumata foglia di palma. [p. 158 modifica]

— Ecco la frittura! — gridò allegramente. — Servitevi, signori! —

Si erano seduti tutti tre intorno alla foglia, ma Garcia ed Alvaro esitavano.

Quel fritto di formiche non li tentava affatto.

— Assaggiate dunque, signor Viana, — disse il marinaio.

Alvaro, quantunque arricciasse il naso, finalmente si decise.

— Corpo d’un elefante! — esclamò quando ne ebbe mangiate alcune. — Sono più delicate e più gustose dei gamberetti di mare!1 Mangia Garcia ed impara ad apprezzare la cucina dei selvaggi brasiliani.

La frittura scomparve in pochi minuti.

— Avanti l’ar..... — stava per gridare il marinaio.

Ma l’ultima parola gli morì fra le labbra.

Una freccia aveva silenziosamente attraversata la piccola radura, piantandosi nel tronco d’un albero che cresceva vicino ad Alvaro.

Carracho! — esclamò il marinaio, che si era alzato precipitosamente. — Gli Eimuri! Gambe! Gambe! —

Sull’opposta riva del fiume erano improvvisamente comparsi alcuni selvaggi che il marinaio aveva subito riconosciuto pei suoi accaniti persecutori.

Quei bricconi che dovevano aver finalmente trovate le tracce dei fuggiaschi, si preparavano a tempestarli di frecce.

Alvaro che non voleva abbandonare tutto, d’un balzo prese l’arrosto e si slanciò dietro al marinaio che filava come un cavallo, seguito a breve distanza da Garcia che si era impadronito della carne della testuggine.

Gli Eimuri, fortunatamente pei naufraghi, si trovavano nell’impossibilità d’inseguirli.

Quel fiume, quantunque guadabile, era per essi un ostacolo enorme ed un ponte non era facile a costruirsi in pochi minuti, specialmente per uomini che non possedevano che delle scuri informi fatte con grosse conchiglie o con pezzi di selce.

— Rallentate un po’, marinaio, — gridò Alvaro, vedendo che gli Eimuri non osavano mettere i piedi in acqua. — Volete farmi [p. 159 modifica]scoppiare? E poi non siamo inermi, ringraziando Iddio e le munizioni non ci mancano.

— Non fermiamoci, signore, — rispose Diaz. — Approfittiamo per frapporre fra noi e quelle canaglie il maggior spazio possibile. Corrono come cervi e quando avranno costruito un ponte, ci daranno una caccia furiosa, senza lasciarci un momento di tregua.

— Il ponte non l’hanno ancora costruito.

— Lo faranno, non dubitate. Si sono cacciati in testa di prendermi e non mi lasceranno, ve lo assicuro.

Gambe, signore e avanti finchè avremo forza.

— Briganti! — esclamò Alvaro che era di assai cattivo umore. — Potevano giungere a pranzo finito! —

Ripresero la corsa, inoltrandosi sempre più nell’interminabile foresta la quale diventava sempre più folta e più selvaggia e la continuarono fino a che si sentirono incapaci di fare un passo più innanzi.

Tutti tre, specialmente il mozzo, erano completamente esausti.

— Prendiamo un po’ di riposo e consigliamoci, — disse Alvaro. — Abbiamo percorso una mezza dozzina di miglia e forse gli Eimuri non sono ancora riusciti a costruirsi il ponte ed a valicare il fiume.

Non devono essere troppo abili in simili costruzioni quei bruti. Che cosa ne dite, Diaz?

— Che pel momento siamo al sicuro, — rispose il marinaio. — Il fiume è largo e un albero di quaranta o cinquanta metri non si abbatte facilmente con delle scuri di pietra o di conchiglia.

Però domani o questa sera saranno qui di certo.

— E siamo ancora lontani dai villaggi dei Tupinambi?

— Almeno sei o sette giorni di marcia, dovendo noi descrivere un lungo giro per evitare l’incontro col grosso degli Eimuri.

— Diavolo! — esclamò Alvaro. — Sette giorni e di fuga continua! Potremo noi resistere?

— Sarà necessario, se non amate meglio farvi divorare, — disse il marinaio.

— Non potete trovare qualche altro rifugio?

— Un rifugio! Hum! Sarà un po’ difficile e poi, sarebbe sicuro? Quei dannati selvaggi, quando si attaccano ad una pista, non la lasciano più.

Sono più abili dei cani. Bisognerebbe trovare un altro fiume o meglio ancora una palude od una savana sommersa. [p. 160 modifica]

Io non conosco il paese che ora percorriamo o meglio la foresta, ma può darsi che da un momento all’altro ci troviamo dinanzi a dell’acqua.

Signor Viana, ripartiamo.

— Mille bombe! Ancora?

— Ho corso per undici giorni e con pochissimi riposi, sempre inseguito. Se le mie gambe avessero ceduto o sarei a quest’ora un pyaie degli Eimuri o già digerito dopo d’essere stato più o meno arrosolato su una graticola.

— Diaz! Mi fate venire i brividi! — esclamò Alvaro.

— Che vi daranno la forza di fuggire, — rispose il marinaio, sorridendo.

— Lasciateci almeno il tempo di assaggiare il nostro arrosto. Mi libererò almeno d’un peso inutile.

— E la mia testuggine? — chiese il mozzo.

— Serbiamola per domani, — rispose Diaz. — Non avremo più il tempo di cacciare.

— Su, sbrighiamoci! La frittura di formiche non è già un piatto forte per degli uomini che sono costretti a far lavorare le gambe. —

Affamati come erano, essendo stati costretti ad interrompere il pranzo in sul principio, non impiegarono molto a far scomparire l’arrosto e le tre o quattro gallette che avevano avuto il tempo di raccogliere.

Ringagliarditi da quel pasto assai sostanzioso e abbondante se non variato, i tre europei ripresero le mosse, spronati dal pensiero che gli Eimuri avessero già trovato il modo di varcare il fiume e che seguissero già le loro orme.

La foresta era sempre foltissima e costituita da poche varietà di piante per la maggior parte senza frutta.

Erano macchioni enormi di isonandra, di alberi da cui si ricava oggidì la guttaperca; di bombonax colle cui foglie si fabbricano degli splendidi cappelli di paglia che poco hanno da invidiare a quelli famosi di Panama; di laranjus i cui fiori profumavano l’aria e di persee piante bellissime queste, alte come i nostri peri e che producono delle frutta grosse come limoni, che intorno al nocciuolo hanno una polpa verdastra, di sapore nauseante, che sembra burro e che si mangia, da taluni, volentieri specialmente se condita con sale, zucchero e vino di Xeres.

Pochi uccelli abitavano quella boscaglia, quasi tenebrosa per la foltezza delle foglie e umidissima: dei tanagra, colle penne [p. 161 modifica]Il vampiro aspirava pian piano, senza cessare di muovere le ali. (Cap. XVII). [p. 163 modifica]azzurre ed il ventre aranciato; qualche cardinale colla testa rossa e qualche grosso pappagallo che cicalava a piena gola, noioso come tutti i suoi simili.

Il marinaio che sapeva dirigersi anche senza bussola e che aveva le gambe solide, camminava velocemente senza mai deviare, nè esitare, mettendo a dura prova le forze dei due naufraghi.

— Avanti sempre, senza fermate, se volete sfuggire agli Eimuri, — diceva sempre. — È così che io sono riuscito a tenerli sempre a distanza.

— Noi non possediamo dei garretti d’acciaio, — brontolava Alvaro. — Non siamo vissuti quindici anni fra i selvaggi.

— È necessario, — ribatteva il marinaio. — Chi rimane indietro è uomo morto.

E sempre spronati da quella paura, continuavano ad avanzarsi nell’immensa foresta, passando da un macchione all’altro, sovente strisciando come rettili, quando non riuscivano a trovare un passaggio fra quell’immenso caos di alberi, di cespugli e di liane.

Alla sera, esausti ed affamati, si arrestavano sulla riva d’un torrentello.

— Basta, — disse il marinaio. — Abbiamo marciato come selvaggi brasiliani, riposiamoci qui. Anche gli Eimuri dormono; possiamo quindi fare anche noi altrettanto.

Cenarono con alcuni banani, poi si lasciarono cadere al suolo, sotto un albero immenso che stendeva i suoi rami in tutte le direzioni.

— Dormite pure, — disse il marinaio che era il meno stanco. — Io monto il primo quarto di guardia. —

Note

  1. Anche oggidì nel Brasile si fa un gran consumo di tali formiche e anche gli europei le trovano squisite, superiori ai gamberetti.