L'Asino (Machiavelli)/Capitolo quarto
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CAPITOLO QUARTO.
POi che la donna di parlare stette,
Levaimi in piè, rimanendo confuso
3Per le parole, ch’ella aveva dette.
Pur dissi: Il Ciel nè altri i’ non accuso;
Nè mi vo’ lamentar di sì ria sorte;
6Perchè nel mal, più che nel ben sono uso.
Ma s’io dovessi per l’infernal porte
Gire al ben che dett’hai, mi piacerebbe,
9Non che per quelle vie, che tu m’hai porte.
Fortuna, dunque, tutto quel che debbe,
E che le par, della mia vita faccia;
12Ch’io so, che ben di me mai non le ’ncrebbe.
Allora la mia donna aprì le braccia,
E con un bel sembiante tutta lieta
15Mi baciò dieci volte, e più la faccia;
Poi disse festeggiando: Alma discreta,
Questo viaggio tuo, questo tuo stento,
18Cantato fia da Istorico, o Poeta.
Ma perchè via passar la notte sento,
Vo’ che pigliam qualche consolazione,
21E che mutiam questo ragionamento.
E prima troverem da collazione,
Che so bisogno n’hai forse non poco,
24Se di ferro non è tua condizione;
E goderemo insieme in questo loco.
E detto questo, una sua tovaglietta
27Apparecchiò su un certo desco al fuoco.
Poi trasse d’uno armario una cassetta,
Dentrovi pane, bicchieri, e coltella,
30Un pollo, un’insalata acconcia, e netta;
Ed altre cose appartenenti a quella.
Poscia a me volta, disse: questa cena
33Ogni sera m’arreca una donzella.
Ancor questa guastada porta piena
Di vin, che ti parrà, se tu l’assaggi,
36Di quel, che Val di Greve, e Poppi mena.
Godiamo, adunque, e come fanno i Saggi,
Pensa, che ben possa venire ancora,
39E chi è dritto, alfin convien che caggi.
E quando viene il mal, che viene ognora,
Mandalo giù come una medicina,
42Che pazzo è chi la gusta, e l’assapora.
Viviamo or lieti infin, che domattina
Con la mia greggia sia tempo uscir fuori,
45Per ubbidire all’alta mia Regina.
Così lasciando gli affanni, e i dolori,
Lieti insieme cenammo, e ragionossi
48Di mille canzonette, e mille amori.
Poi, come avemmo cenato, spogliossi,
E dentro a letto me fe’ seco entrare,
51Come suo amante, o suo marito fossi.
quì bisogna alle Muse il peso dare,
Per dir la sua beltà; chè senza loro
54Sarebbe vano il nostro ragionare.
Erano i suoi capei biondi, com’oro,
Ricciuti, e crespi; talchè d’una Stella
57Pareano i raggi, o del superno Coro.
Ciascun occhio pareva una fiammella
Tanto lucente, sì chiara, e sì viva,
60Ch’ogni acuto veder si spegne in quella.
Avea la testa una grazia attrattiva,
Tal ch’io non so a chi me la somigli;
63Perchè l’occhio al guardarla si smarriva.
Sottili, arcati, e neri erano i cigli;
Perchè a plasmargli fur tutti gli Dei,
66Tutti i celesti, e superni consigli.
Di quel, che da quei pende, dir vorrei
Cosa, che al vero alquanto rispondesse:
69Ma tacciol, perchè dir non lo saprei.
Io non so già chi quella bocca fesse;
Se Giove con sua man non la fece egli,
72Non credo, ch’altra man far la potesse.
I denti più che d’avorio eran begli;
E una lingua vibrar si vedeva,
75Come una serpe infra le labbra, e quegli:
D’onde uscì un parlare, il qual poteva
Fermare i venti, e fare andar le piante,
78Sì soave concento, e dolce aveva!
Il collo, e il mento ancor vedeasi, e tante
Altre bellezze, che farian felice
81Ogni meschino, ed infelice amante.
Io non so, se a narrarlo si disdice
Quel che seguì da poi; perocchè ’l vero
84Suole spesso far guerra a chi lo dice;
Pur lo dirò, lasciandone il pensiero
A chi vuol biasimar; perchè tacendo
87Un gran piacer non è piacer intero.
Io venni ben con l’occhio discorrendo
Tutte le parti sue infino al petto,
90Allo splendor del qual ancor m’accendo.
Ma più oltre veder mi fu disdetto
Da una ricca, e candida coperta,
93Con la qual copert’era il picciol letto.
Era la mente mia stupida, e incerta,
Frigida, mesta, timida, e dubbiosa,
96Non sapendo la via quant’era aperta.
E come giace stanca, e vergognosa,
E involta nel lenzuol la prima sera,
99Presso al Marito la novella Sposa;
Così d’intorno pauroso m’era
La coperta del letto inviluppata,
102Come quel ch’in virtù sua non ispera.
Ma poichè fu la donna un pezzo stata
A riguardarmi, sogghignando disse:
105Sare’ io d’ortica, o pruni armata?
Tu puo’ aver quel, che sospirando misse
Alcun già, per averlo più d’un grido,
108E fe’ mille quistioni, e mille risse.
Bene entreresti in qualche loco infido,
Per ritrovarti meco, o nuoteresti
111Come Leandro infra Sesto, ed Abido;
Poichè virtute hai sì poca, che questi
Panni che son fra noi, ti fanno guerra,
114E da me sì discosto ti ponesti .
E come quando nel carcer si serra
Dubbioso della vita, un peccatore,
117Che sta con gli occhi guardando la terra;
Poi s’egli avvien, che grazia dal Signore
Impetri, e’ lascia ogni pensiero strano,
120E prende assai d’ardire, e di valore;
Tal er’io, e tal divenni per l’umano
Suo ragionare, e a lei mi accostai,
123Stendendo fra’ lenzuol la fredda mano.
E come poi le sue membra toccai,
Un dolce sì soave al cor mi venne,
126Qual io non credo più gustar giammai.
Non in un loco la man si ritenne,
Ma discorrendo per le membra sue,
129La smarrita virtù tosto rivenne.
E non essendo già timido piue,
Dopo un dolce sospir parlando dissi:
132Sian benedette le bellezze tue;
Sia benedetta l’ora, quando io missi
Il piè nella foresta, e se mai cose,
135Che ti fossero a cuor, feci, nè scrissi.
E pien di gesti, e parole amorose,
Rinvolto in quelle angeliche bellezze,
138Che scordar mi facean le umane cose,
Intorno al cor sentii tante allegrezze
Con tanto dolce, ch’io mi venni meno,
141Gustando il fin di tutte le dolcezze,
Tutto prostrato sopra il dolce seno.