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392 DELL’ASINO D’ORO.

Ciascun occhio pareva una fiammella
     Tanto lucente, sì chiara, e sì viva,
     60Ch’ogni acuto veder si spegne in quella.
Avea la testa una grazia attrattiva,
     Tal ch’io non so a chi me la somigli;
     63Perchè l’occhio al guardarla si smarriva.
Sottili, arcati, e neri erano i cigli;
     Perchè a plasmargli fur tutti gli Dei,
     66Tutti i celesti, e superni consigli.
Di quel, che da quei pende, dir vorrei
     Cosa, che al vero alquanto rispondesse:
     69Ma tacciol, perchè dir non lo saprei.
Io non so già chi quella bocca fesse;
     Se Giove con sua man non la fece egli,
     72Non credo, ch’altra man far la potesse.
I denti più che d’avorio eran begli;
     E una lingua vibrar si vedeva,
     75Come una serpe infra le labbra, e quegli:
D’onde uscì un parlare, il qual poteva
     Fermare i venti, e fare andar le piante,
     78Sì soave concento, e dolce aveva!
Il collo, e il mento ancor vedeasi, e tante
     Altre bellezze, che farian felice
     81Ogni meschino, ed infelice amante.
Io non so, se a narrarlo si disdice
     Quel che seguì da poi; perocchè ’l vero
     84Suole spesso far guerra a chi lo dice;
Pur lo dirò, lasciandone il pensiero
     A chi vuol biasimar; perchè tacendo
     87Un gran piacer non è piacer intero.
Io venni ben con l’occhio discorrendo
     Tutte le parti sue infino al petto,
     90Allo splendor del qual ancor m’accendo.