L'Argentina vista come è/Andando all'Estancia
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ANDANDO ALL'ESTANCIA.1
San Jacinto de Mercedes (Argentina).
Sono arrivato a Mercedes di notte, dopo tre ore di ferrovia a traverso una campagna ignota, della quale nel buio intuivo l'immensità uniforme, come si sente l'immensità del mare navigando nell'oscurità e nella calma.
Nel compartimento, pieno di ricca gente di campagna che tornava all'estancia dagli affari di Buenos Aires, si fumava e si gridava. Con una vivacità tutta argentina, la discussione s'era fatta generale; la crisi delle lane, la chiusura dei mercati inglesi ai bestiami argentini, la questione cilena, la guerra boera, fornivano argomenti inesauribili. Ogni tanto dai finestrini spalancati entravano dei buoni soffî di vento fresco, ristoratore, impregnato del sano odore del fieno, che dissipavano il fumo azzurro delle sigarette e, come per incanto, sedavano le conversazioni. Pareva che dalla campagna arrivassero delle folate di silenzio. La discussione talvolta nasce dal caldo come una fermentazione di parole.
Di tanto in tanto, in mezzo all'oscurità, avanti a noi, lontano, scorgevamo gruppi di luci verdi e rosse, i quali facevano pensare a piccole e strane costellazioni cadute sulla terra. Il convoglio vi arrivava in mezzo sbuffando. Erano stazioni perdute nella solitudine. Sembravano inglesi, per la costruzione, e talvolta anche per il nome, come Cowland, Open Door.
Durante le fermate si udiva il trillo dei grilli — quel rumore che nulla toglie al grande silenzio dei campi addormentati — sonoro e ritmico come un tintinnìo lontano di sonagliere agitate da cavalli stanchi d'un viaggio senza fine.
Poi, Mercedes. Una stazione più grande delle altre circondata da colossali eucaliptus neri, dalle foglie inquiete perennemente come quelle dei nostri pioppi. All'uscita, delle vetture in fila che ricordano le nostre antiche diligenze, dei ragazzi creoli che si precipitano sulle valigie, dei cocheros che offrono il loro coche anche per l'indomani, per il dopodomani, per qualsiasi tempo e momento, per la città e per il campo. Poi una cittadina dalle vie ampie e sterrate e dalle case minuscole e bianche. Finalmente l'albergo, un antico albergo, con le camere a pianterreno in giro a un patio fresco e delizioso tutto ornato di piante. Quest'antica architettura criolla dà alla casa una dolce aria d'intimità. È una delle cose migliori che la Spagna abbia lasciato quaggiù; ed è una cosa araba!
Alla mattina alle cinque un coche mi portava a gran trotto verso San Jacinto, una delle più belle estancie della Repubblica.
⁂
Un viaggio delizioso. L'aria fresca del mattino mi batteva in faccia nell'impeto della corsa portandosi via tutte le tristezze che la città lascia sempre addosso.
La campagna si svolgeva intorno a me, tutta piana come un mare. Sulla cima delle alte erbe la brezza spingeva verdi ondate, che fuggivano via rincorrendosi con allegro fruscìo. Intorno intorno si levavano isole di eucaliptus, di pioppi americani, di acacie, che ombreggiavano i puestos, le capanne dei pastori. Sul verde mandrie di buoi, mandrie di cavalli, mandrie di pecore, di guanachi, di nandù, tutta una popolazione pascolante, sparsa e immobile da far credere che fosse cresciuta su dalla terra come i cardi giganteschi che costellavano i pascoli.
Da ogni parte recinti di fil di ferro: centinaia di miglia di filo di ferro — d’alambrado, come si dice qui — che sostituiscono la nostra bella siepe. L’alambrado e il primo lavoro umano sui campi vergini, è la presa di possesso. Molte proprietà non consistono ancora che in terra selvaggia e alambrado tutt'intorno.
Questo recinto raddoppia il valore della terra; in alcuni luoghi il recinto costa più della terra a cui serve da limite. Il ministro d'agricoltura diceva giorni sono ad un amico che il filo di ferro dei campi argentini basterebbe a pagare i debiti provinciali, ciò che significa che è un valore fantastico.
L'aria era piena d'un festoso pispiglio d'uccelli che a nuvole si levavano al passaggio della vettura, e in tale quantità da mandare in visibilio un cacciatore. Viudes dal petto rosso come un rosolaccio, canarini che si confondono con le stoppie giallastre, pernici dal volo rumoroso, gabbiani di terra schiamazzanti, e fenicotteri e trampolieri d'ogni razza immobili sull'orlo dei fossati e dei pantani, gru in fila come soldati, ferme sopra una zampa e meditative, grosse cicogne dall'elegante volo dritto e lento, civette che a gruppi di tre o quattro corrono a posarsi in cima ai pali dell’alambrado per inchinarsi grottescamente quasi salutando chi passa, aironi dal ciuffo, neri e bianchi da sembrare in marsina. E tutto un mondo di uccellini che non conoscono ancora la persecuzione e non temono l'uomo, che si allontanano quanto basta per non rimaner schiacciati, che si posano a sciami, come le mosche, sulle pazienti schiene dei buoi e delle pecore per nettare il becco sul pelo lucido o per cercare i semi rimasti fra la lana. Vi è tanta cacciagione che la caccia è quasi sconosciuta. In alcuni luoghi le martinette — specie di pernici — sono uccise dal gaucho a colpi di bastone; il fucile è inutile.
La via correva dritta fra due recinti di filo di ferro, interminabile, grandissima, accidentata, piena di erbe e di sterpi, di viottoli, di fossi, di pozze. Le vie nell'Argentina non sono — quando ci sono — che striscie di campagna, sulle quali è permesso di passare. La vettura al gran trotto dei suoi quattro cavalli tirava dritto su tutte le asperità della via, a urtoni, sobbalzando, inclinandosi dalle parti, dandomi la perfetta illusione di viaggiare sopra un affusto d'artiglieria lanciato alla posizione.
Il vento sollevava la giubba del cochero lasciandomi scorgere il suo grosso coltellaccio gaucho dal manico d'argento cesellato, infilato alla cintura sulle reni, e la rivoltella sul fianco. Ma il mio uomo aveva una faccia bonaria d'indio mansueto che contrastava singolarmente col suo armamento. Si volgeva ogni tanto a darmi delle indicazioni minuziose, pensando forse che più le indicazioni sono minute e più la mancia invece è grossa.
— Este puesto se llama La Bella!
— Perbacco!
— Sí, señor, y aquel humo blanco è un treno della ferrovia del Pacifico.
— Guarda, guarda! E San Jacinto?
— Ci siamo da un'ora sui terreni dell'estancia; San Jacinto è a dodici leghe, señor!
⁂
Dodici leghe, s'intende dodici leghe quadrate. La lega è venticinque chilometri quadrati. Questa forma l'unità di misura delle grandi proprietà. Dodici leghe vuol dire 300 km. q. Ma un’estancia di dodici leghe non è una grande estancia. Il proprietario di San Jacinto, un argentino dei più ricchi, possiede ancora un’estancia di ventotto leghe, un'altra di sessanta leghe, un'altra nel sud, di cento, e infine una piccola e miserabile proprietà di nove leghe. Egli è il sovrano di un regno di cinquemiladuecentoventicinque chilometri quadrati. Non è facile il farsi un'idea esatta di queste proprietà. Si viaggia per giorni sempre sulle terre d'uno stesso padrone, talvolta. Per girare tutta l’estancia di San Jacinto ci vogliono quattro giorni di cavallo, e qui i cavalli non vanno che al galoppo. Pochi proprietarî al mondo possono aver la soddisfazione di constatare, girando l'occhio sull'orizzonte senza confine: È tutto mio!
Un’estancia è un piccolo Stato con governo assoluto. Il mayordomo è il governatore generale; il capataz — colui che trasmette gli ordini — è il primo ministro; i gauchi e i pastori sono i reggenti e i commissarî delle piccole provincie. Il popolo poi, numeroso, buono, pacifico, un popolo ideale che si lascia mungere, vendere e ammazzare senza una protesta, è formato dalle mandrie innumerevoli. San Jacinto ha centodiecimila abitanti: trentamila buoi, sessantamila pecore, ventimila cavalli, senza contare qualche centinaio di cavalli da corsa allevati con tutte le cure, che formano la nobiltà. Vi sono pure delle classi elette anche fra i bovini e gli ovini, discendenti d'illustri famiglie inglesi, che vivono fra le comodità e gli agi; ma di fronte alla vera nobiltà dei cavalli non possono considerarsi che come dei parvenus! formano la grassa borghesia. E non manca neppure l'elemento sovversivo, senza dimora fissa, insofferente dei freni governativi e che dove arriva distrugge. È rappresentato dagli struzzi americani, i nandù, che fuggono rapidamente di fronte alle autorità costituite. Ma ciò non toglie che all'epoca buona per la riscossione dei tributi non vengano tutti regolarmente pelati delle loro belle piume. E tornano poi nudi alla loro vita sovversiva, con l'aria spaventata di grossi tacchini fuggiti dalle mani del cuoco.
Il guanaco, questo curioso campione della fauna americana, grande come un puledro, mezzo pecora e mezzo dromedario, è il filosofo della razza ruminante. Vive sempre solo, osservando freddamente il mondo dall'alto del suo lungo collo flessuoso che par fatto apposta per dominare la pianura, per porre gli occhi in vedetta di fronte all'immensa distesa della Pampa. Nulla lo scuote dalla sua vita pensosa. Se l'uomo l'avvicina, non fugge; lo guarda venire, freddo, immobile, indifferente; poi quando se lo vede da presso, improvvisamente gli lancia uno sputo rumoroso dalle narici, aperte in mira come le bocche d'un fucile da caccia. Non è certo una difesa; è un segno di disprezzo. Il grande filosofo guanaco pensa: Tu, o uomo, mangerai le mie costolette, è indubitabile, ma io ti disprezzo profondamente, ed eccone la prova. E mentre il re della creazione se ne va tutto umiliato, il superbo animale torna a piombarsi negli abissi ignoti delle sue meditazioni di bestia riflessiva.
Così vivono la loro libera vita gli animali della prateria. Essi sarebbero ben fieri se sapessero di formare la più grande risorsa della Repubblica Argentina, e se sapessero di essere quasi ventitre volte più numerosi degli uomini.
Centodiecimila animali in una sola estancia; questo dà un'idea dell'importanza degli allevamenti argentini, e anche della poca divisione della proprietà. La pastorizia è l'unica industria veramente argentina, e forse la più lucrosa perchè richiede il minimum di lavoro, e perchè le crisi e le tariffe non hanno una influenza diretta sul suo sviluppo. Le bestie tranquillamente s'ingrassano e si riproducono sotto qualunque governo, e persino durante le rivoluzioni. I loro nemici sono soltanto la siccità che le affama e l'inondazione che le affoga. Nel '900 nella provincia di Buenos Aires sono morti affogati sopra a mezzo milione di capi di bestiame.
La concorrenza degli allevatori nord-americani ed australiani ha indotto i principali estancieri argentini a modificare i loro antichi sistemi. Gli allevamenti si fanno ora non più sulla terra vergine, ma su quella per molti anni solcata dall'aratro perchè l'erba vi è più molle e più folta. Parte delle estancie perciò sono date in affitto o a mezzadria per la lavorazione. Questa temporaneità del lavoro campestre, sia detto di passaggio, non giova certo all'avvenire dell'agricoltura in varie provincie, al quale avvenire è intimamente legata la sorte di tanti nostri emigranti. Fortunatamente l'allevamento, migliorandosi la terra, ha bisogno di meno spazio. Oggi si comprende poi che la qualità ha maggior valore della quantità. S'introducono a migliaia i riproduttori inglesi e si studia di migliorare le ossute e cotennose razze criolle con l'incrocio dei shorthorns, dei durhams, degli herefords per i bovini, degli hampshires, dei leycesters, dei rambouillets, dei lincolns per gli ovini, e delle migliori razze di cavalli da corsa, da tiro, da sella e da lavoro.
L'esportazione di bestiame ha raggiunto una media di mezzo milione circa d'animali all'anno. Parola d'onore, di fronte a questa cifra ci sarebbe da stupire della crisi argentina e delle profonde miserie di quella Repubblica, se non si conoscesse che razza d' amministrazioni pubbliche vi sono, che governi si succedono al potere, e che giustizia vi regna.
Uno studioso di scienze economiche che conosce profondamente le finanze della Repubblica, mi diceva un giorno: Se si fosse dovuto studiare a bella posta uno speciale sistema di governo e di finanza per rovinare questo paese, non si poteva far di meglio che applicare i sistemi che sono stati applicati!
⁂
San Jacinto è arrivato improvvisamente, tanto più che tali profonde meditazioni politico-finanziarie mi avevano conciliato un sonno non meno profondo. Mi sono svegliato all’ombra di enormi eucaliptus fiancheggianti un bel viale. Da una parte, fra i tronchi, vedevo una distesa di giardino, fra il cui verde appariva una villetta rosa, una di quelle villette americane basse e irregolari, così simpatiche e ospitali con le loro verande, le loro balaustrate fiorite e i loro patios freschi come cortiletti di convento. Come certe fonti pare che invitino a bere, così queste case criolle pare che invitino ad entrare. Fra gli alberi, lontano, gruppi di casette, anch’esse color rosa, scuderie a fascie rosse e bianche, tettoie, una chiesuola dal campanile acuminato. Due gauchi a cavallo hanno traversato galoppando il viale, lontano, fra nembi di polverone.
Un gentiluomo in reding-dress seguìto da due grossi mastini inglesi è comparso sul viale al rumore della vettura, e mi è venuto incontro sorridendo. Era il capo dell’estancia, il governatore generale di San Jacinto e del suo popolo mansueto.
Io lo credevo un estanciero criollo; e immaginino i lettori la mia gioia quando mi sono sentito dare il benvenuto nel più puro idioma bolognese. Ci siamo salutati con effusione.
— Domani — mi ha detto mentre mi conduceva nella casa — visiteremo l’estancia, nelle ore fresche del mattino. Lei cavalca?
— Come un centauro... se il cavallo è molto docile.
— Bene, allora domani all’alba in sella.
E si è allontanato per dare degli ordini. Io mi sono gettato sopra un molle pliant; avevo ancora negli occhi la gran luce, e tutto mi appariva avvolto del seducente velo d’una tenebre misteriosa; il silenzio assoluto e solenne della campagna sotto il sole cocente mi dava il senso d’una sordità dolcissima. Il riposo era così completo, che io l’ho assaporato lungamente, centellinando da buongustaio!
- ↑ Dal Corriere della Sera del 22 giugno 1902.