Istoria delle guerre gottiche/Libro secondo/Capo XXIII
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Traduzione dal greco di Giuseppe Rossi (1838)
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CAPO XXIII.
Cipriano e Giustino assediano Fiesole. Martino e Giovanni entro Dertona1. — Belisario sotto le mura di Aussimo. — Saggio consiglio di Procopio, il quale con doppia tromba stabilisca un doppio segno.
I. Belisario propostosi di espugnare Aussimo e Fiesole prima di movere contro Vitige e Ravenna, bramoso di allontanarne il nemico quanto era d’uopo a fine di non incontrare più dalle spalle resistenza ed insidie, mandò a Fiesole Cipriano e Giustino seguiti dalle truppe loro, da una mano d’Isauri, e da cinquecento de’ pedoni aventi a duce Demetrio; costoro giuntivi piantarono il campo intorno al castello assediandovi la guernigione. Spedì parimente Martino e Giovanni colle genti loro, e con altre sotto gli ordini di Giovanni soprannomato Faga al fiume Po acciocchè tenessero d’occhio Uraia, paventando non costui, uscito di Milano co’ suoi militi, andasselo a molestare, ed ove non potessero far petto al nemico, di ascoso calcandone le orme, seguirebbonlo da tergo; costoro pervenuti al fiume ed impossessatisi della città di Dertona1, spoglia di mura, posero il campo. Egli poi con undici mila combattenti pigliò la via d’Aussimo, principale città del Piceno, e solita onorarsi dai Romani col titolo di metropoli della regione. Da essa al seno Ionico v’hanno all’incirca ottanta quattro stadj, ed alla città di Ravenna ottanta, vo’ dire il viaggio di tre giornate.
II. Aussimo posta su d’alto colle non ha via che dal piano vi metta, è pertanto affatto inaccessibile ai nemici. Vitige aveane fidata la custodia ad un’eletta di gottiche truppe ben persuaso che prima dell’espugnazione di lei gl’imperiali non sarebbonsi attardati di procedere coll’esercito a Ravenna. Belisario giunto ad Aussimo colle sue genti comandò che si guernissero di trincee le radici del colle; ma nel mentre che e gli uni e gli altri da quinci e da quindi vanno erigendo alla rinfusa le tende, i Gotti aocchiato ch’e’ teneansi a molta distanza tra loro (essendo lo spazio assai vasto), ne arguiscono la impossibilità d’un vicendevole soccorso, e persuasi di ciò fanno sull’annottare una sortita dalla porta volta ad Oriente, dove il condottiero proseguiva tuttavia colle sue lance e co’ suoi pavesai le opere del campo; or questi armatisi alla meglio nel tramazzo opposero valida resistenza, e pigliato nella tenzone coraggio in poc’ora costrinsero gli assalitori alla fuga, inseguendoli sino alla metà del colle. Qui li barbari, confidando nella forte posizione del luogo, fermato il passo volgon la fronte al nemico e scoccando lor faretre dall’alto in buon dato uccidonne, finchè sopravvenne la sera a mettervi fine; partitesi allora le due fazioni si tennero tutta la notte in guardia. Oltre di che il dì innanzi a questo badalucco parecchi Gotti erano usciti coi primi albori a foraggiare sulle vicine campagne, e nelle susseguenti ore notturne ricalcavano la via della città per nulla sapevoli dell’arrivo de’ nemici; di maniera che veduti all’impensata i fuochi romani ebberne grandissimo stupore e spavento. Con tutto ciò molti di essi bravando coraggiosamente ogni pericolo ed ingannando gli assediatori in occulto ripararono entro le mura; que’ compagni invece che per loro pusillanimità s’eran rifiutati di seguirli rintanaronsi nelle foreste sperando penetrare con miglior agio in Ravenna; ma presto caduti nelle mani de’ nemici vi giuntaron la vita. Belisario considerando Aussimo inespugnabile cogli assalti in causa delle validissime fortificazioni, e che gitterebbesi in vano il tempo tentando superarne le mura, estimava impresa maggiore de’ suoi mezzi l’assoggettarla colle armi, nutriva in cambio speranza di entrarvi riducendone il presidio con uno stretto e rigoroso assedio a patire grandemente di vittuaglia. Non lunge dalla città un suolo molto erboso forniva giornaliere occasioni di avvisaglie tra’ Romani e Gotti; imperciocchè i primi osservata la nemica giornaliera costumanza di recarvisi a pascolare, ascendevano di carriera il colle, e venuti seco loro colle mani davan pruove di grand’animo non permettendo ch’e’ si valessero per punto di quella pastura; nè passava giorno senza ucciderne di molti. I barbari adunque vinti da tanto coraggio ebbersi ricorso ad uno stratagemma. Apprestarono, vo’ dire, alcune ruote tolte dalle carra e sorrette dai soli assi. Cimentatisi quindi a segar l’erba allorchè videro i Romani ascesi alla metà dell’erta ve le spinsero dall’alto contro; ma non so per qual fato elleno arrivarono al piano senza toccar persona. Delusi pertanto dallo stratagemma ripararono di fuga nella città occupandosi di nuovi macchinamenti; fecero in ispecie acquattare di ascoso nelle valli sottoposte alle mura sceltissima schiera delle genti loro, per modo che apparissero in qualche distanza ben pochi foraggiatori. Datosi quindi principio alla zuffa balzando fuori de’ nascondigli quanto vi ritenean celati, ben superiori in numero de’ Romani, con impreveduto urto ne feriscon molti, e costringono gli altri a dare precipitosamente di volta. Gli imperiali poi rimasi negli steccati aveano veduto i barbari uscir fuori delle insidie, e quantunque con voce altissima chiamassero indietro i compagni non erano riusciti a farsi intendere, imperocchè i combattenti non udivan affatto lor grida, essendo lontani per tutta la non breve erta del colle ed assordati dal nemico, il quale faceva a bello studio grandissimo strepito colle armi.
III. Procopio allora, autore di questi libri, si presentò a Belisario, e nulla sapevole de’ costui divisamenti per impedire nuove consimili sciagure gli disse. «Ab antico i trombadori de’ romani eserciti, o capitano, venivano ammaestrati nel trombare in due guise; l’una delle quali non differiva punto da esortazione o provocamento alla pugna; l’altra richiamava nel campo i combattenti quando il duce giudicasselo opportuno. Così in ogni tempo i condottieri divulgavano con agevolezza somma i comandamenti alle truppe, e queste poteanli di colta eseguire. Conciossiachè principiata la mischia un nulla vale lo sforzo della voce ad esprimersi chiaramente, d’ogni intorno ripercotendo il fragor delle armi, e la tema rendendo ottusi i sensi de’ combattenti. Or dunque siccome a dì nostri tal arte è andata fuor d’uso per ignoranza, nè una tromba sola può supplire ambo i suoni, da quinci innanzi fa di quest modo: con trombe equestri anima le tue schiere alla battaglia, e con altre pedestri loro intima la ritirata; così elleno distingueranno, in guisa certa, amendue i suoni, tramandandosi l’uno da sottilissimo cuoio e legno, l’altro da più compatto metallo.» Sin qui Procopio, e Belisario applaudendogli ragunò tutto l’esercito per ammonirlo nel seguente modo: «Giudico opportuno il coraggio e meritevole di gran lode fino a tanto che esso non travalica i limiti della moderazione o, vogliam dire, non è di nocumento a coloro in cui alberga, solendo tutte le virtù spinte all’eccesso degenerare in vizj. Guardatevi adunque nell’avvenire di non rimaner gabbati da un’ambiziosa gara, imperciocchè non dobbiamo arrossire del sottrarci da un maliziato assalimento. Che anzi se taluno va baldanzoso ad incontrare manifestissimi guai, dato pur che sano e salvo ne campi, riporteranne con tutta ragione la taccia di temerario; meritando il nome di valoroso chi sa operare da prode quando necessità lo stringe. I barbari, di molto a voi inferiori in campo, studiansi vincervi cogli agguati; cadrete quindi in colpa maggiore coll’affrontare il pericolo che non coll’evitare le frodi loro, nulla essendo tanto vituperevole quanto il farsi ministri de’ macchinamenti e voleri de’ nostri avversarj. Io rivolgerò ogni mia cura, vel prometto, a guarentirvi delle costoro insidie, a voi si spetterà il sottrarvene appena avuto da me il segno, e la tuba pedestre, o guerrieri, sarà pronta a darlo.» Dopo queste ammonizioni di Belisario le truppe veduti i nemici a foraggiare ne uccisero di tratto con iscorribanda alcuni, ed un Maurusio aocchiato tale di essi spento e a dovizia ornato d’oro, pigliatolo per la chioma, bramoso di spogliarne il cadavere, traevalo a sè. Ma in questa altri de’ Gotti gli avventò un dardo, il quale di guisa trapassonne i muscoli dietro le due tibie, che ambo i piedj, per la intromissione del ferro, rimasongli insiem congiunti; il Maurusio non di meno, tenuta forte quella chioma, compiè l’opera sua. In questa i barbari surgono dagli agguati, e Belisario vedutili dal suo campo ordina prontamente ai trombadori pedestri di dar fiato ai loro stromenti; al segno i Romani a poco a poco indietreggiarono conducendo seco il Maurusio da’ piè trafitti, e i Gotti non osando incalzarli retrocedettero a man vuote.