Istoria delle guerre gottiche/Libro quarto/Capo XXXII

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CAPO XXXII.

Totila coll’esercito ripara negli steccati. — Provvedimenti di Narsete. Ritorno de’ Gotti in campo. Battaglie. — Vittoria dei Romani. Strage delle regali truppe.

I. In questo mezzo i due mila guerrieri aggiunsero il gottico campo, e non appena Totila ebbene l’annunzio riparò, avvicinandosi l’ora del pasto, nel suo padiglione; le truppe del pari, sciolta l’ordinanza, si fecero indietro. Il re di ritorno alla tenda rassegna i due mila pervenuti, e ordina che tutto l’esercito si rifocilli. Quindi fattolo nuovamente armare con grandissima diligenza, perchè lo fosse giusta le discipline di guerra, muove con esso contro il nemico sperando sorprenderlo ed opprimerlo quando e’ meno vi pensava, ma pronti si teneano i Romani alla difesa. Imperciocchè Narsete, presago di quanto in realtà avvenne, per non esservi colto all’impensata, fe’ comando che nessuno desinasse, nè si ponesse a dormire, nè tampoco spogliasse l’usbergo o sbrigliasse il cavallo; ed affinchè non si stessero digiuni impose loro di ristorarsi belli e armati ed in piedi, conservando [p. 564 modifica]l’ordinanza, e sempre intenti cogli animi e cogli occhi alla venuta de’ Gotti; fe’ parimente ai corni delle romane truppe, ov’erano quattro mila fanti arcadori, torcere la fronte.

II. I reali pedoni senza eccezione procederono attelati strettissimamente dietro i cavalieri per essere pronti ad aiutarli, rinculando, e con essi riprendere l’offensiva; doveano altresì tutti valersi nel combattimento delle sole aste, non già di frecce o dardi comunque. Egli è poi certo che Totila per imprudenza cadesse in errore cimentandosi ora alla pugna, ed altri dicane il motivo, con truppe disugualissime nelle armi e nel resto, mentre gli imperiali nella tenzone sapevano a tempo e luogo trar profitto d’ognuna delle prime, dando mo’ di piglio alle faretre, mo’ alle aste, mo’ alle spade, o a checchè estimavano di miglior uso. Li vedevi di più quando in sella, quando pedoni giusta la bisogna del momento. Tal fiata circondavano il nemico, tal altra assaliti ripignevanlo rendendone collo scudo vani li colpi. Ma i cavalieri de’ Gotti per lo contrario, lasciati dagli omeri i pedoni, messa ogni speranza nelle sole aste ed invasati da cieco furore, non appena cominciata la zuffa ebbero il giusto premio dell’audacia loro. Imperciocchè, investito il centro degli imperiali, non prima s’avvidero degli otto mila fanti da tergo che furonne prontamente accerchiati, ed oppressi all’ingiro da folto nembo di saette, allora conobbero che i Romani dall’arco, come testè dicea, saltato aveano i corni della propria ordinanza. In quest’assalto i reali toccata grave perdita d’uomini e di cavalli, prima che venissero a regolare [p. 565 modifica]battaglia, ebbero agio appena di ricondursi ai pedoni. Ora io non saprei chi più ammirare se le genti romane, o vero sia i loro barbari aiuti; conciossiachè in tutti fece bella mostra di sè la gagliardia dell’animo ed il gareggiante valore. Di già il sole era in sul tramonto quando ambe le fazioni ad una mossersi di luogo rinculando i Gotti, e procedendo i Romani per incalzarli da tergo: essendo che i primi ad assalire veggendosi malparati inetti ad una prolungata resistenza e sopraffatti dall’impeto nemico ritrassersi tosto indietro, e poscia a briglia sciolta diedero le spalle tutti maravigliati dell’immenso numero e della ottima ordinanza degli avversarj. Nè più volean sapere di nuovi cimenti, quasi paventassero aver che fare con ispettri, od essere dall’alto dei cieli combattuti. Raggiunta di più la schiera pedestre a molti doppj accrebbero lor mala sorte; imperciocchè non arrivativi ordinatamente, per quindi cogli animi rimessi dalla paura e tutti di conserto rinnovare la battaglia, o francarsi dai persecutori, o imprendere qual’altra si fosse guisa di pugna, ma con sì grande scompigliamento che parecchi vi caddero spenti dalla foga dei romani cavalieri, quella in luogo di accoglierli, aprendo sue file, e procurarne la salvezza, tennesi per poco rinserrata ed immobile nella ordinanza, pigliando poi tutti insiemiemente precipitosa fuga coll’adoprare in questa le armi, quasi schermatori al buio, contro sè stessi. Le romane truppe in cambio, colta l’opportunità dell’arrecato trambusto, facevano dispietati mordere il suolo a chiunque avvenivansi, mentre i barbari paventando volgere, non pur le armi, gli occhi stessi verso gli [p. 566 modifica]oppressori, abbandonavansi affatto, padroneggiati del continuo che più dallo spavento, al nemico furore. In cotal zuffa perirono sei mila Gotti, e molti si diedero prigionieri, ma in vano, poichè sebbene ottenuta pel momento la vita, furono quindi senza eccezione spenti; nè dall’orribile strage andò libera grandissima parte dei militi descritti in prima ne’ romani ruoli e poscia, come riferiva ne’ precedenti libri, disertati al nemico. I pochi sottrattisi da morte e prigionia ebbero agio ad ascondersi e fuggire come meglio la celerità del cavallo o dei piedi, unitamente ad una propizia stella, vi consentì quando l’opportunità del tempo e del luogo appresentossi loro.

III. Il combattimento era già pervenuto al suo termine, come narrava, e le tenebre coprivano la terra mentre alcuni Romani ostinavansi tuttavia d’inseguire tale de’ fuggitivi, ignorando ch’egli si fosse Totila, il quale cercava in quella oscurità modo alla propria salvezza, accompagnato da soli cinque guerrieri compresovi Scipuar; altri de’ persecutori era il gepida Asbado. Ora questi fittosi nella mente di lanciottare dagli omeri lo sconosciuto, essendo lì per arrivarlo, s’udì riprendere ad alta voce da un giovinetto nemico, ai servigi del re e seco lui nell’attentato scampo, lamentandone la sciagura con simiglianti parole: Che ti vuoi, o cane, mettendo a repentaglio la vita del signor mio? Asbado per tutta risposta con potentissimo colpo di lancia trapassò cui posto avea la mira, vedendosi contemporaneamente egli stesso in un piede ferito da Sciupar, e costretto a fermare il passo; nè andò [p. 567 modifica]esente da offesa il feritore di lui, sì forte da nemica mano piagato che non ebbe più lena da procedere oltre. Da allora i quattro seguaci d’Asbado nel correr dietro a fuggenti rivolto ogni loro pensiero ad aiutare il compagno, pigliatolo seco, diedero la volta. Intanto i Gotti con Totila e col nemico a breve distanza non allentano per nulla il passo quantunque carichi del regal corpo mortalmente impiagato e quasi agli estremi della vita, la necessità dando vigoria alle piante loro. Corsi ottanta quattro stadj pervennero a Capri, nome del luogo dove fatta posa medicarono il monarca, ed al trapasso di lui, poco dopo avvenuto, quivi stesso lo seppellirono, proseguendo poscia il cammino. Totila regnò sopra i Gotti undici anni, e non altrimenti ebbene fine il regno e la vita; fine per verità immeritevole di quanto egli avea in addietro operato, conciossiachè le bene avventurate prime sue imprese non procacciarongli condegna morte. Diremo quindi pur ora che la fortuna dandosi a favoreggiare o conculcare le umane cose fa pompa mai sempre a capriccio di sua potenza. Ella fuor di proposito mostrossi da principio largheggiare di lunga prosperitade col re per sentenziarlo poscia, in forza del poter suo, a cotanto miserando termine senza un’apparente cagione di sì rigida condanna; cose di vero, a parer mio, cui le umane menti non hanno potuto infin qui, nè potranno giammai arrivare. Di simiglianti faccende in ogni tempo decantate sogliamo noi tutti pensare e parlare a nostro buon grado, confortando la propria ignoranza colle dicerie che appresentanci miglior faccia di vero; e qui torniamo a bomba. [p. 568 modifica]

IV. I Romani seppero la funesta morte di Totila sol quando n’ebbero da gottica femmina tutte le circostanze ed il sepolcro; ma i primi ad udirne rifiutandosi a prestarvi fede si fanno sul luogo, e di netto rimossa la terra traggon fuora il reale cadavere per venirne, come dicono, alla ricognizione, e dopo accuratissimo esame ripostolo nella fossa riferiscono prestamente il tutto a Narsete. Altri narrando in contraria guisa la battaglia e la morte del re, io non opino uscir di sentiero coll’aggiugnere quanto e’ si vorrebbero in allora avvenuto. Non senza motivo nè sconsigliatamente e’ dicono essersi le gottiche truppe abbandonate alla fuga; ma proseguendo tuttavia parte de’ Romani ad avventar quadrella, uno di questi all’improvviso, nè con premeditato consiglio dell’arcadore, aver piagato la real persona, il quale dimorava nell’ordinanza insieme co’soldieri ed armato di tutto punto dell’egual foggia per non appalesarsi e sentire di bersaglio ai nemici, se non che la fortuna, signora delle umane cose, ne volle il corpo alla prima trafitto; ond’egli vinto dall’acerbissimo dolore appiedi e con pochi altri si ritrasse di là. Giunto poscia sopra un destriero a Capri, aggravatosi il male, cominciò a venir meno, e quando fu medicata la piaga in brev’ora si partiva di questo mondo. Il suo esercito, per le fatte perdite addivenuto inetto a durare nella pugna, vedutosi privo del condottiero stupiva in prima sentendolo da mortal colpo offeso, avvegnacchè ai Romani fosse mancato il mezzo di farlo segno degli archi loro, e quindi costernatissimo ed oltre ogni credere soprappreso dello spavento fornì con assai turpe [p. 569 modifica]fuga il certame: in siffatta guisa precede la costoro narrazione, e noi lasciamo che ognuno a voler suo ne pensi.