Istoria delle guerre gottiche/Libro quarto/Capo XXIII

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CAPO XXIII.

I Gotti assediano da terra e da mare Ancona. Valeriano con lettera esorta Giovanni ad unirsi seco onde soccorrere il presidio. — Ambo, fatto un sol corpo delle genti loro, afferrano a Senogallia. Il nemico procede ad incontrarli. Arringhe dei condottieri ai proprii eserciti. Marittimo combattimento; strage e fuga de’ Gotti.

I. Totila buona pezza fa mandato avea l’esercito nel Piceno per occuparvi Ancona, fidandone il [p. 528 modifica]reggimento a’ valorosissimi duci Scipuar, Gibia e Gundulf (o come altri nomavanlo Indulf) stato da prima lancia di Belisario. Aveali similmente afforzati dirizzando a quella volta quarantasette navi, acciocchè e’ potessero con assedio marittimo e terrestre più di leggieri e speditamente averne il castello. Eran poi già da qualche tempo sotto quelle mura, quando la guernigione cominciò a patire di vittuaglia; il perchè Vitaliano allora di stanza in Ravenna, sapevole delle occorrenze dei suoi e bramoso di ripararvi, ma d’altronde persuaso di non avere mezzi sufficienti all’uopo, scrisse in Salona a Giovanni, nipote di Vitaliano, del tenore seguente: «Ben sai tu stesso che di qua dal seno Ionio tutto perdemmo, salvo Ancona, se pur questa oggi ne rimane, essendo le cose de’ Romani quivi strettissimamente rinchiusi venute a tali estremi che temo ogni soccorso intempestivo, e per lo soverchio indugio vano il nostro buon desiderio. Così termino vietandomi di scrivere più a lungo urgente bisogno degli assediati, cui addiverrebbe funesto il differire d’un attimo ad assisterli essendo il pericolo maggiore di qual tu vuoi descrizione.» Giovanni ricevuto il foglio, di proprio arbitrio e contro gli ordini imperiali dapprima avuti, si pose tosto in cammino, estimando vie più meritevole di considerazione l’imminente rovina cui volgevano, opera del fato, quelle bisogne, che non i bizantini comandamenti. Fatta quindi cerna tra’ suoi militi de’ più valorosi collocolli sopra trentotto lunghe navi, prestissime al corso, ed assai adatte ai certami di mare; compiutone di poi con fodero il carico e postosi alla vela afferrò [p. 529 modifica]a Scardone, ove poco stante giunse Valeriano con altre dodici navi.

II. Riunite quivi lor forze e conferito insieme statuirono ciocchè bisognava fare. Laonde spiegate le vele apportano ad una città sull’opposto lido chiamata dai Romani Senogallia, nè molto da Ancona distante. I duci de’ Gotti, uditone, di colta empiono anch’essi quarantasette lunghe navi, lì pronte, del fiore di lor militi, e commesso alle genti comandate da Scipuar il proseguimento dell’assedio, partonsi ad incontrare il nemico. Avvicinatesi le due armate di mare, fermato il corso e raccolti i vascelli si passò da ambe le parti ad arringare le truppe, Valeriano e Giovanni essendo i primi ad esortarle dicendo: «Nessuno di voi, o commilitoni, opini scopo della imminente pugna non più che la salvezza d’Ancona e de’ Romani là entro. Abbia per fermo in cambio, a dir tutto con brevità, dipendere con essa l’intero esito della presente guerra, poichè delle due fazioni a quella che ne uscirà vittoriosa non potrà fallire la più felice meta, e tale un pensiero forte imprimete negli animi vostri. Egli è pretta verità che la copia degli apprestamenti faccia preponderare nelle armi, e che per manco d’annona sia uopo cedere al nemico, non potendo strignere lega fame e guerresco valore; nè consente natura che uomo indebolito da inedia rendasi tra le armi glorioso. Ora così va la bisogna: noi da Idrunte a Ravenna difettiamo in oggi d’altri luoghi muniti ove mettere in serbo l’annona a sostentamento nostro e de’ cavalli, poichè il Gotto padroneggiane di maniera i lidi che indarno vi [p. 530 modifica]cercheremmo un’amica borgata da cui ottenere qualche conforto di vittuaglia. Ogni nostra speranza riposa in Ancona, quando, traversato il mare, ne sia concesso apportarvi e riparare in fide mura. Adunque griderem vittoria nell’odierno conflitto, raffermata la città, come vuol giustizia, sotto l’imperio d’Augusto, prenderemo non vana fiducia di condurre a buon fine la guerra. Vinti al contrario, non voglia il Nume che (per tacere di più gravi cose) i Romani vadano eternamente privi dell’italiana signoria. Inoltre mostrandovi ora codardi non avreste più scampo, essendo che il continente, occupato dai nemici, non potrebbe darvi salvezza, nè il mare, di lor forza riboccante, presterebbesi alla vostra navigazione. Ogni nostra speranza adunque pende nel prospero successo di questo combattimento, e nelle sue buone sequele. Fate quindi pruova di coraggio e valore in esso pensando che una sconfitta sarebbe l’ultima per voi, ed una vittoria colmerebbevi d’incomparabile felicità e splendore.» Giovanni e Valeriano così parlarono; i duci poi de’ Gotti alla lor volta diressero alle truppe la seguente arringa: «Da che questi malvagi, espulsi da tutta Italia ed acquartatisi entro terrestri e marittimi luoghi a noi ignoti, ora ne sfidano a battaglia, c’è forza reprimere del nostro meglio lo consigliato ardimento, acciocchè non abbiano per gottica dabbenaggine a vie più imbaldanzire. E di vero una sconsiderata arroganza non doma nel suo nascere piglia tosto il carattere di strabocchevole audacia, e sol termina quando abbia profondato in calamità gravissime [p. 531 modifica]coloro che mira di esterminare. Laonde sia nostra prima cura il farsi accorti come si rimangano tuttavia non più che grecuzzi, di effeminata natura, e pinzi d’orgoglio sebbene vinti; nè vi patisca il cuore di permettere più lunga durata a sì turpi conati, aprendosi la infingardaggine, ove siamo di lei noncuranti, il varco a più gravi arbitrii, ed instancabile addivenendo una insolita presunzione favoreggiata dal tempo. Non crediate poi di vederli resistere gran pezza a fronte di prodi guerrieri, conciossiachè l’ardire ben poco da virtù raffermato va borioso prima d’incontrare il cimento, e si fa bello rendendo qualche sembianza di fortezza, ma venutovi di leggieri lo volgerete in fuga, e che tal sia ne avrete pruova rammentandovi come dopo chiarissime azioni accommiataste danneggiati i vostri nemici. Ritenete in fine che non già per essere subito addiventati più animosi e potenti eglino vi chiaman ora a battaglia, e quindi la tracotanza loro, al tutto somigliante quella per lo innanzi mostrata, ne riporterà anche adesso l’egual pena.»

III. I Gotti condottieri, esortato l’esercito, e fattisi ad incontrare il nemico tosto lo assalgono. Ostinatissima fu la pugna navale, nè dalle terrestri discrepante; imperciocchè le due fazioni, voltate le prode, si travagliavano colle faretre a vicenda, e per gli spiragli delle navi i prodissimi tenzonavano intra loro colle aste e spade, come è il caso in campo. Tal ebbe principio lo sfidamento, ma poscia i barbari, per nulla sapevoli di naumachia, disordinatissimi combatterono, appartandosi gli uni cotanto da venire assaliti [p. 532 modifica]alla spicciolata, e gli altri raccogliendo lor navi in così angusto spazio che riuscissero di reciproco impedimento; avresti detto gli alberi di que’ vascelli stretti insieme ed intessuti a foggia di stuoie. Con molta fatica e lentezza inoltre potevano avventare saette contro al nemico, o giuntigli da presso molestarlo d’asta e di spada; con alte grida in cambio procedevano urtando e ributtandosi colle armi; ora serravan lor fronte, ora, nè poco era il danno, allungavanla di soverchio. Ognuno schiamazzando esortava i prossimani certamente meno a far pruova di coraggio che ad esser cauti nel governare i vascelli serbando intra essi la necessaria distanza; in fine la generale imperizia loro addusseli a toccare una grave sconfitta. I Romani al contrario valenti nel trattare le armi e d’assai in naumachia sapienti, volte le prode verso il nemico, nè più intra loro alla larga o stretti di quanto era il caso, ora opportunamente raccoglievano il navilio, ora distaccavanne parte onde combattere qualche gottico legno dilungato dagli altri ed affondarlo. Vedendo poi il grande trambusto degli avversarj molestavanli con assiduo nembo di frecce, ed anche vie più appropinquati morivanli in quell’universale conturbamento e scompiglio a colpi di asta e spada. I Gotti caduti d’animo, colpa la mala fortuna e gli errori commessi, e privi di consiglio navigavano in balia delle onde, nè più comparivano ai fianchi de’ vascelli per tenzonare a corpo a corpo, ma deposte le armi giaceansi scioperati in tanto pericolo, fidando lor sorte all’inesorabile fato. Da ultimo tutti confusione e trambusto, nè curanti affatto la gloria d’una ritirata [p. 533 modifica]onorevole e d’ogni altra virtù, inoltre vanno in traccia d’obbrobriosa fuga sono accerchiati dagli avversarj e costretti ad un vile arrendimento, ben poche delle sue navi, undici di numero, campandone furtivamente. Gli imperiali ne spensero molti col ferro ed a copia anche maggiore procacciarono morte affondandoli insiem coi vascelli entro l’acqua; l’uno dei duci fu pigliato vivo, ma Indulf ebbe salvezza riparando sopra le fuggite navi, che i piloti non appena messo piede a terra incendiarono, per recarsi quindi tutti pedoni appo gli assediatori di Ancona, dove narrate la sofferta strage si convenne di abbandonare affatto quegli accampamenti, e di aggiugnere con veloce cargo le mura d’Aussimo. I Romani arrivati prontamente ad Ancona, occupanvi le diserte trincee, e rinfrescato di vittuaglla il forte ne riparton di netto, Valeriano tornando a Ravenna e Giovanni a Salona. Questo combattimento rintuzzò fuori misura l’ardire ed il coraggio dei Gotti.