Istoria del Concilio tridentino/Libro sesto/Capitolo I
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CAPITOLO I
(gennaio-24 febbraio 1562).
[Congregazione preliminare alla riapertura del concilio. — Questione di precedenza suscitata dagli spagnoli, i quali insistono pure perché si dichiari la «continuazione» del concilio. — Sessione decimasettima: lettura della bolla e del decreto: opposizione spagnola alla clausola proponentibus legatis. — Progressi degli ugonotti in Francia: editto a loro favorevole del 24 gennaio. — In congregazione si propone di formare un indice dei libri proibiti. — Excursus dell’autore sui precedenti storici di detta proibizione. — Varie opinioni dei padri sulla questione. — Si riparla di salvocondotto ai protestanti, perchè possano difendere i loro scritti. — Arrivo degl’inviati dell’imperatore e del re di Portogallo. — Richieste degl'imperiali e risposta conciliativa dei legati. — Congregazione generale per fissare il decreto sull’indice: allocuzione del cardinale legato Gonzaga.]
Li legati, conforme a quello che il pontefice ultimamente comandato aveva, a’ 15 di gennaro fecero una congregazion generale, nella quale il Cardinal di Mantova, come primo legato, ebbe un conveniente ragionamento della necessitá e opportunitá d’aprire il concilio, esortò tutti li prelati ad aiutare cosí santa e pia opera con digiuni, limosine e frequenti celebrazioni di messe. Dopo fu letta la bolla della legazione data sotto il dí 10 marzo precedente, la qual era in termini generali con le solite clausole: che li mandava come angeli di pace per presedere al concilio convocato, e che doveva aver principio alle feste di Resurrezione. A questa fu aggiorna la lettura di tre altri brevi. Il primo, delli 5 marzo, ed era facultá alli legati di dar licenza alli prelati e teologi che durante il concilio potessero legger libri proibiti; il secondo, delli 23 maggio, che li legati avessero facoltá di assolvere quelli che secretamente abiurassero per causa di eresia; il terzo era dell’ultimo decembre, dove il pontefice, per levar ogni materia di controversia nata o che potesse nascere tra li prelati congregati in concilio sopra la precedenza, comanda che li patriarchi prima, poi gli arcivescovi, in terzo luoco li vescovi precedino, non atteso alcun ordine della degnitá della sede, ma secondo la promozione, né tenendo conto delle dignitá primaziali, o vere o pretese che siano.
Questo letto, reclamò acremente fra’ Bortolomeo dei Martiri, arcivescovo di Braga in Portogallo, che si dovesse principiar il concilio da pregiudici contra le chiese principali di cristianitá; che la sede sua, avendo il primato di tutta Spagna, ricevesse una sentenzia di dover esser sottoposta non solo alle altre arcivescovali sue suddite, ma anco ad un arcivescovo di Rossano, che è senza suffraganeo alcuno, e a quelli di Nissia e Antivari, che sono senza residenzia e quasi senza populo cristiano; esser cosa di poca equitá voler una legge per sé e una per gli altri, pretender di conservare l’autoritá propria e privar gli altri della loro legittima. Parlò con tanta efficacia che li legati si viddero assai ben impediti, e con difficoltá lo quietarono, con far scrivere una dechiarazione, dicendo la mente del papa e loro esser che per il decreto letto non s’acquisti ius, né si faccia pregiudicio ad alcuno, nè sia offesa la ragione di qualsivoglia, né in proprietá né in possessione; ma ogni primate o vero o preteso dopo il concilio debbi restar nello stato che era per inanzi.
Con questo modo quietato a pena l’arcivescovo, li altri spagnoli fecero instanza che l’apertura del concilio si facesse come continuazione del giá principiato sotto Paulo e proseguito sotto Giulio, e se ne facesse espressa dechiarazione, sí che nessuno potesse cavillar che fosse un novo. A questo il vescovo del Zante, che era stato noncio in Germania e sapeva quanto una tal azione sarebbe stata calunniata e quanta displicenzia ne averebbe ricevuto l’imperator, replicò che sí come non si doveva metter dubbio alcuno sopra le cose decise giá, ma tenerle per determinate, cosí il farne adesso dechiarazione era senza necessitá, e averebbe tagliata tutta la speranza che l’imperator e il re di Francia avevano di poter far nascer congiontura che li protestanti si sottomettessero al concilio e alcun di loro vi intervenisse. Li legati, massime Mantova e varmiense, favorirono con molti discorsi il parer del vescovo, e molte cose furono dette dall’una parte e l’altra con parole assai acerbe, dicendo li spagnoli di voler protestare e tornar in Spagna. Ma finalmente, dopo molte consultazioni, questi convennero di desistere dalla loro instanzia, per non opporsi all’imperatore, al re di Francia, a’ tedeschi e francesi, e per non dar fomento alle querele de’ protestanti, purché non fossero dette parole che significassero novo concilio o portassero pregiudicio alla continuazione; promettendo li cardinali a nome del papa che la Santitá sua confirmerebbe tutto quello che era stato fatto in Trento nelli dui precedenti concili, eziandio in caso che il presente si dissolvesse e non si potesse finire. Con che si contentarono; e dopo longhi discorsi fu concluso che si dovesse usar forma di parole significanti che si dava principio a celebrar il concilio, levata qualunque sospensione; le quali, se ben ambigue e che potevano esser tirate a contrari sensi, nondimeno bastando per concordar la presente differenza, furono ricevute, e concluso di aprir il concilio la dominica seguente, delli 18. Propose in fine il cardinale che, principiato il concilio, sará condecente frequentare le pubbliche cappelle ogni festa, con intervento delli prelati alla messa e col sermone latino, quale dovendo essere recitato alle volte da persone che non sanno intieramente quello che convenga al tempo e luoco, e al decoro degli audienti, sará ben deputar un prelato che, sí come il maestro del sacro Palazzo in Roma, riveda quello che doverá esser detto, e secondo la sua censura s’abbia da recitare. Piacque a tutti la proposta, e fu deputato Egidio Foscararo vescovo di Modena, con carico di veder ogni sermone, predica e altra cosa che doverá esser in pubblico prononciata.
Licenziata la congregazione, li legati con li confidenti loro si diedero a formar il decreto, e lo concepirono nella forma concordata. E attendendo molte trattazioni passate tra li prelati, in tanto tempo che erano stati oziosi in Trento, di proponer chi questa e chi quell’altra provvisione, tutte inviate ad ampliar l’autoritá episcopale e restringere la romana, pensarono di rimediar al tutto nel principio, inanzi che il male si mettesse in moto, con decretare che nissun potesse propor materia in deliberazione, se non li legati. Vedevano l’arduitá della proposta e prevedevano la contradizione; e però il bisogno di usar molta arte per farlo ricever dolcemente e inavvedutamente. Quella negativa che nessun proponga pareva dura e aspra; piacque piú l’affirmativa che li legati proponessero, non dando l’esclusiva chiara agli altri, ma solo virtuale, tutto coprendo con pretesto di servar ordine e dare la deliberazione alla sinodo. Fu formato il decreto con tanta arte, che sino al presente anco convien esser molto attento per scoprir il senso, non che intenderlo alla prima udita; e lo riferirò in italiano con chiare parole: leggal in latino chi vorrá veder l’arteficio.
Adunque conforme alla presa deliberazione, venuto il giorno 18, si fece processione di tutto il clero della cittá, delli teologi e prelati, che oltre li cardinali erano cento e dodici mitrati, accompagnati dalle fameglie loro e guardati da molti paesani armati, camminando dalla chiesa di San Pietro alla cattedrale, dove il Cardinal di Mantova cantò la messa dello Spirito Santo, e Gasparo dal Fosso arcivescovo di Reggio fece l’orazione. Ebbe per soggetto trattare dell’autoritá della Chiesa, del primato del papa e della potestá delli concili. Disse l’autoritá della Chiesa non esser minore di quella della parola di Dio; che la Chiesa ha mutato il sabato, da Dio giá ordinato, nella dominica, e levata la circoncisione, giá strettamente dalla Maestá divina comandata; che questi precetti non per la predicazione di Cristo, ma per autoritá della Chiesa sono mutati. Rivoltosi anco alli padri, li confortò ad adoperarsi constantemente contra li protestanti, con certezza che sí come lo Spirito Santo non può errare, cosí eglino non possono ingannarsi. Si cantò il Veni creator Spiritus. Il secretarlo, che era il vescovo di Telesi, lesse la bolla della convocazione di sopra portata, e l’arcivescovo sopraddetto interrogò il decreto dell’aprir il concilio, dicendo: «Padri, vi piace che dal giorno d’oggi si celebri il concilio generale di Trento, levata qualsivoglia suspensione, per trattar col debito ordine, proponendo li legati e presidenti, quello che parerá alla sinodo a proposito per levar le controversie della religione, corregger li costumi e conciliar la pace cristiana della Chiesa?» Fu risposto: Placet: ma contradissero quattro prelati a quelle parole proponentibus legatis, le quali io scrivo cosí in latino, dovendone piú volte parlare per le gran controversie e dispute che seguirono dopo. Li contradittori furono Pietro Guerrero arcivescovo di Granata, Francesco Bianco vescovo di Orense, Andrea dalla Cuesta vescovo di Leon, Antonio Corrionero vescovo di Almeria. Dissero che non potevano acconsentire, per esser parole nove non usate in altri concili e che restringevano la libertá del proporre, e dimandarono che li loro voti fossero registrati negli atti del concilio. Furono lasciati senza alcuna risposta, e fu intimata la sessione per il 26 di febbraro. Il promotore del concilio richiese tutti li notari e protonotari a far delle cose sopradette uno o piú instrumenti. E con questo finiva la sessione.
Li legati avvisarono il pontefice del successo nella congregazione e nella sessione, ed egli ne diede parte al consistoro. Molti ebbero opinione, considerate le difficoltá del principio, che il concilio dovesse far poco buon progresso, attesa l’ostinata contradizione che si vidde nelli vescovi spagnoli, poco propria per componer difficoltá di religione; se ben dall’altro canto li legati e li vescovi italiani si mostrarono molto destri e uniti a temporeggiarle e vincerle. Il papa lodò la prudenza delli legati, che avessero prevenuto (cosí diceva) la temeritá degli innovatori; non sentí dispiacere che quattro si fossero opposti, perché temeva d’aver maggior numero de contrari; esortò li cardinali a riformarsi, poiché si vedeva necessitá di trattar con persone irrespettive; diede ordine che fossero sollecitati gli altri vescovi italiani a partire, e scrisse a Trento che tenessero il decreto fermo e lo eseguissero senza rallentar un punto.
Ma in Francia, avendo per piú mesi la regina di Navarra, il prencipe di Condé e l’ammiraglio e la duchessa di Ferrara fatto instanza che si concedessero a quelli della nova religione luochi da congregarsi alle prediche e cerimonie loro, e tutti questi e altri ancora delii grandi facendo professione, eziandio nella corte istessa, di quella dottrina, gli altri riformati di minor grado, preso perciò ardire, separatamente si congregavano. Il che non potendo sopportar il populo cattolico, in molti luochi del regno furono eccitati moti popolari pericolosissimi, con uccisioni ancora dall’una e l’altra parte, quali anco erano fomentati dalli grandi cattolici, che per interesse di ambizione non potevano sopportare che li principi e capi ugonotti, acquistando seguito popolare, fossero per avanzarli; e davano fomento alle sedizioni. Furono due i tumulti causati dalle prediche, uno in Digion e l’altro in Parigi, notabilissimi non solo per l’uccisione de molti, ma anco per la rebellione a’ magistrati, che fece risolvere il conseglio regio di pigliarci rimedio. Il quale acciò fosse appropriato a tutto il regno, furono chiamati da tutti li parlamenti li presidenti e un numero de conseglieri eletti per deliberare con maturitá quello che si potesse fare. E a’ 17 gennaro fu redotto in San Germano, dove congregati tutti, espose il cancellier per nome regio che erano chiamati per consultar delli remedi alli moti eccitati nel regno. Fece una recapitulazione di tutte le cose occorse, soggiungendo che quanto alle controversie della religione si doveva lasciarne la cognizione alli prelati, ma dove si tratta della tranquillitá del regno e di contener li sudditi nell’ossequio del re, ciò non poter pertenere agli ecclesiastici, ma alli regi consultori; che aveva sempre lodato Cicerone, solito di biasmar Catone che, vivendo in un secolo corrottissimo, nelle deliberazioni era cosí severo e rigido come un senatore della repubblica di Platone; che le leggi si doveva cercar d’accomodarle al tempo e alle persone, sí come la calza al piede; che si metteva in deliberazione allora questo particolare, se era servizio del re permetter o proibire le congregazioni de protestanti: nel che non si aveva da disputar qual religione fosse migliore, non trattandosi di formar una religione, ma di ordinar una repubblica: non esser cosa assurda che molti siano buoni cittadini e non buoni cristiani, e che si possi vivere in pace anco tra quelli che non hanno le cose sacre comuni.
Andando attorno la consulta, furono vari li pareri; ma superò quello che giudicava doversi-relasciar in parte l’editto di luglio e conceder ai protestanti libertá di predicare. Fu formato un editto, al che intervennero anco li cardinali di Borbon, di Tornon e di Sciatiglion, e li vescovi d’Orliens e Valenza, con molti capi: che li protestanti restituissero le chiese, possessioni e altri beni ecclesiastici occupati; che s’astenessero dall’abbatter croci, immagini e chiese, sotto pena della vita; che non possino congregarsi a prediche o preghiere, o amministrar sacramenti in pubblico o in secreto, di dí o di notte, nelle cittá; che si soprassedi, e restino suspese le proibizioni e pene dell’editto di luglio e qualunque altre precedenti; che al far le prediche fuori delle cittá non siano molestati, né li magistrati possino inquietarli o impedirli, ma debbiano in questo defenderli da ogni ingiuria, castigando i sediziosi dell’una e l’altra religione; che nessuno provochi l’altro per causa di religione o usi le contumeliose parole di fazione; che li magistrati e ufficiali possino esser presenti alle prediche e congregazioni; che non possino far sinodi o colloqui o consistoro, se non con licenza o presente il magistrato; osservino le leggi civili delle ferie e delli gradi proibiti nelli matrimoni; li ministri siano tenuti giurar nelle mani degli ufficiali pubblici di non contravvenir a quell’editto, né predicar dottrina contra il simbolo niceno e li libri del novo e vecchio Testamento.
Il parlamento di Parigi fece molte repugnanze nell’accettar l’editto; per il che il re di novo comandò che fosse pubblicato, aggiongendoci una condizione: che s’intendesse esser per maniera di provvisione, aspettando la determinazione del concilio generale, o vero sin che altramente dal re fosse ordinato, non intendendo d’approvar due religioni nel suo regno, ma quella sola della santa madre Chiesa, nella quale esso e li suoi precessori sono vissuti. Sopra che non restando il parlamento ben d’accordo, il re comandò che, tralasciate tutte le longhezze e difficoltá, l’ordinazione fosse pubblicata; onde a’ 6 di marzo cosí fu esequito, con questa clausola, che il parlamento verificava le lettere regie per obedir al re, considerato lo stato dei tempi, senza però approvar la nova religione, e per modo di provvisione, sin che dal re fosse altramente ordinato.
Ma ritornando a Trento, il dí 27 gennaro si fece congregazione, dove dalli legati furono fatte tre proposizioni: la prima, di esaminar i libri scritti da diversi autori dopo nate le eresie, insieme con le censure delli cattolici contra di quelli, a fine di determinare quello che la sinodo debbia decretare sopra di essi; la seconda, che fossero citati per decreto della sinodo tutti gl’interessati in quella materia, acciò non possino dolersi di non esser stati uditi; la terza, se si dovevano invitar a penitenza con salvocondotto e ampia concessione e promessa di grande e singolar clemenzia li caduti in eresia, pur che voglino pentirsi e riconoscere la potestá della Chiesa cattolica: con ordine che li padri, considerate le proposte, nella congregazione seguente dicessero il loro parere, cosí sopra il modo di espedirsi facilmente nell’esamine de libri e censure, come sopra il rimanente. E si deputò prelati a ricever ed esaminar li mandati ed escusazioni di quelli che pretendevano impedimenti per non andar al concilio.
Questo loco ricerca che dell’origine del proibir libri si ragioni, e con che progresso sia gionto allo stato in che si trovava in questo tempo, e che novo ordine fosse allora preso. Nella Chiesa de’ martiri non fu proibizione alcuna ecclesiastica; ben alcune persone pie si facevano conscienzia del legger libri cattivi, per non contravvenire ad uno de’ tre capi della legge divina: di fuggire la contagione del male, di non esporsi alli tentativi senza necessitá e utilitá, e di non occupar il tempo in cosa vana. Queste leggi, come naturali, restano sempre, e obbligherebbono noi a guardarsi dal legger libri non buoni, quantunque nessuna legge ecclesiastica vi fosse. Ma cessando questi rispetti, successe l’esempio di Dionisio vescovo alessandrino, celebre dottore, quale, circa l’anno del Signore 240, per queste cause essendo dalli preti suoi ripreso, e per li stessi rispetti titubando, ebbe visione che leggesse ogni libro, perché era capace di discernerli. Maggior pericolo nondimeno stimavano esser nelli libri de gentili che de eretici; quali piú erano aborriti, e tanto piú ripresa la lezione loro, quanto era frequentata da molti dottori cristiani per vanitá d’imparare l’eloquenza. Per questa causa san Girolamo o in visione o in sogno fu battuto dal diavolo; onde in quei medesimi tempi di circa il 400, un concilio in Cartagine vietò alli vescovi di poter legger libri de’ gentili, ma li concesse legger quelli degli eretici; il decreto del quale è posto tra li canoni raccolti da Graziano. E questa è la prima proibizione per forma di canone; ché per conseglio altre ve ne sono nei Padri, da regolare secondo la legge divina di sopra citata. Li libri degli eretici, di dottrina dalli concili dannata, erano spesso per causa di buon governo dalli imperatori proibiti. Cosi Constantino proibí li libri di Ario, Arcadio quelli di eunomiani e de manichei, Teodosio quei di Nestorio, e Marciano gli scritti degli eutichiani; e in Spagna il re Ricaredo quei degli ariani. Alli concili e vescovi bastava mostrar quali libri erano di dannata o di apocrifa dottrina: cosí fece Gelasio del 494; e non piú oltre passavano, lasciando alla conscienzia di ciascuno il schifarli o leggerli per bene. Dopo l’anno 800 li romani pontefici, sí come assonsero molta parte del governo politico, cosí anco fecero abbruggiare e proibirono il legger libri, li autori de’ quali dannavano; con tutto ciò sino a questo secolo si trovará pochissimo numero de libri cosí fattamente proibiti. Il divieto universale in pena di scomunica e senza altra sentenzia, a chi leggesse libri continenti la dottrina degli eretici o per suspizione d’eresia, non si costumava. Martino V nella sua bolla scomunica tutte le sètte de eretici (viglefisti, massime, e ussiti), né fa altra menzione di quelli che leggessero li libri loro, se ben molti ne andavano attorno. Leone X, condannando Lutero, insieme proibí, sotto pena di scomunica, tutti li libri suoi. Gli altri pontefici seguenti nella bolla chiamata In coena Domini, dannati ed escomunicati tutti gli eretici, insieme escomunicarono anco quelli che leggessero li libri loro; e in altre bolle contra eretici in generale fulminarono le stesse censure contra li lettori de’ libri. Questo partoriva piú tosto confusione; perché, non essendo gli eretici dannati nominatamente, conveniva conoscere li libri piú tosto dalla qualitá della dottrina che dal nome degli autori: e parendo a’ diversi diversamente, nascevano scrupoli di conscienzia innumerabili. Li inquisitori piú diligenti si facevano cataloghi di quelli che a loro notizia pervenivano, li quali non confrontando, non bastavano a levar la difficoltá. il re Filippo di Spagna fu primo a dar forma piú conveniente, facendo del 1558 una legge che il catalogo delli libri proibiti dall’inquisizione di Spagna si stampasse.
Al qual esempio anco Paulo IV in Roma ordinò che da quell’ufficio fosse composto e stampato un Indice, come fu eseguito del 1559. Nel quale furono fatti molti passi piú inanzi che per lo passato, e gettati fondamenti per mantener e aggrandir l’autoritá della corte romana molto maggiormente, col privar gli uomini di quella cognizione che è necessaria per difendergli dalle usurpazioni. Sino a quel tempo si stava tra li termini delli libri de eretici; né era vietato libro, se non di autor dannato. Questo indice fu diviso in tre parti. La prima contiene li nomi di quelli, l’opere de’ quali tutte, di qualunque argomento siano (eziandio profano) sono vietate; e in questo numero sono reposti non solo quelli che hanno professato dottrina contraria alla romana, ma quelli ancora sempre vissuti e morti nella comunione di quella. Nella seconda parte si contiene nomi dei libri che particolarmente sono dannati, non proibiti gli altri degli stessi autori. Nella terza alcuni scritti senza nome; oltra che con una generale regola sono vietati tutti quelli che non portano il nome dell’autore, scritti dopo il 1519; e sono dannati molti autori e libri che per trecento, duecento e cento anni erano stati per mano di tutti li letterati della romana Chiesa, sapendo e non contradicendo li pontefici romani per tanto tempo; e delli moderni ancora furono proibiti di quelli che erano stampati in Italia, eziandio in Roma con approbazione dell’inquisizione, e anco approbati dal papa medesimo per suoi brevi, come le annotazioni di Erasmo sopra il Novo Testamento, che da Leon X, dopo averle lette, furono approbate per un suo breve sotto il dato di Roma 1518, io settembre. Sopra tutto cosa considerabile è che sotto colore di fede e religione sono vietati con la medesima severitá e dannati gli autori de libri, da’ quali l’autoritá del principe e magistrati temporali è difesa dalle usurpazioni ecclesiastiche, dove l’autoritá delli concili e delli vescovi è difesa dalle usurpazioni della corte romana, dove le ipocrisie o tirannidi con quali, sotto pretesto di religione, il populo è ingannato o violentato, sono manifestate. In somma non fu mai trovato il piú bell’arcano per adoperare la religione a far gli uomini insensati. Passò anco quell’inquisizione tant’oltra, che fece un catalogo di sessantadue stampatori, e proibí tutti li libri da quelli stampati, di qualunque autore, arte o idioma fossero; con aggionta piú ponderosa, cioè e li stampati da altri simili stampatori che abbiano stampato libri de eretici; in maniera che non restava piú libro da leggere. E per colmo di rigore la proibizione di qualunque libro contenuto in quel catalogo era in pena di scomunica latae sententiae, riservata al papa, privazione e inabilitá ad uffici e benefici, infamia perpetua e altre pene arbitrarie. Di questa severitá fu fatto rechiamo a questo papa Pio che successe, il quale remise l’indice e tutta questa maniera al concilio, come si è detto.
Furono, sopra li proposti articoli, vari pareri. Ludovico Beccatelli arcivescovo di Ragusi e fra’ Agostino Salvago arcivescovo di Genova ebbero opinione che nessun buon effetto puoi nascer dal trattar in concilio materia de libri, anzi che potesse piú tosto nascer impedimento alla conclusione di quello per cui il concilio è congregato principalmente. Poiché avendo Paulo IV, con conseglio de tutti gl’inquisitori e de molti principali, da’ quali ebbe avvisi da tutte le parti, fatto un catalogo compitissimo, non vi può esser altro d’aggiongervi se non qualche libro uscito nelli anni seguenti: cosa che non merita l’opera della sinodo. Ma chi volesse conceder delli proibiti in quella raccolta, sarebbe un dechiarar che in Roma sia stato imprudentemente operato, e cosí levare la reputazione e all’indice giá pubblicato e a quel decreto che si facesse, essendo vulgata massima che le nove leggi levano la stima piú a se stesse che alle vecchie: senzaché (diceva il Beccatelli) nessun bisogno vi è de libri: pur troppo il mondo ne ha, massime dopo trovate le stampe; e meglio è che mille libri siano proibiti senza demerito, che permesso uno meritevole di proibizione. Né anco sarebbe utile che la sinodo s’affaticasse per render le cause delle proibizioni, facendo censure o approbando le giá fatte in diversi luochi da cattolici; perché questo sarebbe un chiamarsi contradizione. È cosa da dottore render ragione del suo detto; il legislatore che lo fa diminuisce l’autoritá sua, perché il suddito s’attacca alla ragione addotta, e quando crede averla risoluta, pensa d’aver anco levato la virtú al precetto. Né meno esser bene correggere ed espurgar alcun libro, per le stesse cause di non eccitar l’umor delle persone a dire che sia tralasciata cosa che meritasse, o mutata quella che non meritasse correzione. Poi la sinodo conciterebbe contra sé la mala disposizione di tutti gli affezionati alli libri che si vietassero, che li indurrebbe a non ricever gli altri decreti necessari che si faranno. Concluse che, bastando l’indice di Paulo, non lodava l’occuparsi vanamente per far di novo cosa fatta, o per disfare cosa ben fatta. Molte altre ragioni furono allegate in confermazione di questo parere da piú vescovi, creature di Paulo IV e ammiratori della sua prudenza nel maneggio della disciplina ecclesiastica, li quali tenevano che fosse necessario conservare, anzi aumentare ii rigore da lui instituito, volendo conservar la puritá della religione.
Gioanni Tomaso Sanfelicio fu di opinione al tutto contraria: che in concilio si dovesse trattar de’ libri tutto di novo, come se non fosse precedente proibizione; perché quella, come fatta dall’inquisizione di Roma, per il nome è odiosa ad oltramontani, e del resto è anco tanto rigida che è inosservabile, e nessuna cosa manda piú facilmente una legge in dissuetudine quanto l’impossibilitá o gran difficoltá in osservarla e il gran rigore nel punir le transgressioni; esser ben necessario conservar la riputazione di quell’ufficio, ma questo potersi far assai appositamente con non farne menzione; del rimanente facendo le sole provvisioni necessarie, e con pene moderate. E per tanto parerli che il tutto stia nel consultar il modo. E disse egli quello che giudicava ottimo, cioè che li libri sin allora non censurati fossero compartiti alli padri e teologi presenti al concilio, e anco ad altri assenti, quali, esaminatili, facessero la censura; e dalla sinodo fosse deputata una congregazione non molta numerosa, che fosse come giudice tra la censura e il libro: il che parimente fosse servato con li giá censurati; e questo fatto, si proponesse in congregazione generale, per decretare in universale quello che paresse beneficio pubblico. Quanto al citare o no gl’interessati, disse che due sorti di autori erano: altri separati dalla Chiesa, e altri incorporati in essa; delle primi non esser da tener conto, poiché con la sola alienazione dalla Chiesa hanno essi medesimi, come san Paulo dice, condannato se stessi e le opere proprie, sí che non è bisogno piú udir altro. Ma delli incorporati con la Chiesa esserne de morti e de vivi: questi esser necessario citare e ascoltare, né, trattandosi della loro fama e onore, potersi contra le opere loro procedere, se non ascoltate le ragioni loro: delli morti, poiché non vi è l’interesse privato, potersi far quello che ricerca il pubblico bene, senza pericolo di offendere alcuno. A questa opinione fu aggiorno da un altro vescovo che l’istessa forma di giustizia si dovesse usare verso li autori cattolici defonti, perché restano li parenti e discepoli, che come posteri partecipano la fama o infamia del morto, e però restano interessati; e quando bene alcun tale non vi fosse, la sola memoria del defonto non può esser giudicata se non è difesa.
Fu anco chi ebbe opinione non esser giusta cosa condannar le opere de’ protestanti senza udirli; perché, quantunque le persone siano da se stesse dannate, non si può per le leggi far la declaratoria senza citazione, quantunque in fatto notorio; adunque né meno si può far contra il libro, se ben notoriamente contenga eresia. Fra’ Cristoforo, generale degli eremitani, disse non parergli necessario osservare tante sottilitá: la proibizione de’ libri esser precisamente come la proibizione medicinale d’un cibo, che non è una sentenzia contra di esso né contra chi l’ha preparato, che però convenga ascoltarlo, ma un precetto di chi l’ha da usare, fatto da chi ha cura di regger la sanitá di quello; però non trattarsi del pregiudicio del vivandiero, ma del solo beneficio dell’indisposto; e con ottima ragione un cibo, se ben in sé buono, si vieta per non esser utile all’indisposto usarlo: cosí la sinodo, che è il medico, debba guardar quello solo che è utile alli fedeli legger, e che no, e il dannoso e pericoloso vietarlo; che non fará torto ad alcuno, se ben il libro in se stesso fosse buono, quando all’infirmitá delle menti di questo secolo non convenga. Altre varie considerazioni passarono, che si risolverono finalmente in una di queste.
Ma intorno al terzo articolo, dell’invitar a penitenzia con promesse di clemenza e concessione di salvocondotto, varie opinioni erano anco tra li legati medesimi. 11 Mantova sentiva un perdono generale, dicendo che con quello s’averebbe guadagnato gran numero di persone; ed esser rimedio usato da tutti li principi, nelle sedizioni o rebellioni che non hanno forza di opprimere, conceder perdono a chi depone l’armi, ché cosí li meno colpevoli si ritirano e gli altri restano piú deboli; e quando ben vi fosse speranza di acquistarne pochi, doversi far anco per un solo; e se ben non si acquistasse alcuno, però esser gran guadagno l’aver usato e mostrato la clemenzia. Per l’altra parte il legato Simonetta diceva che era un metter in pericolo di rovinar degli altri, perché molti s’inducono a trascorrere, dove veggono il perdono facile; che dall’altro canto il rigore, se ben è duro a chi lo sente, tiene innumerabili in ufficio. Per mostrar la clemenzia, esser assai usarla con chi la richiede: il trarla dietro a chi non la dimanda e a chi la ricusa rallenta la custodia che ciascun tiene di se stesso; sará stimato un leggier delitto l’eresia, quando si vegga d’averne cosí facilmente perdono. In queste due opinioni erano li prelati divisi; e da quelli che non lodavano il salvocondotto era detto che nel primo concilio non fu dato ad alcuno, e sarebbe stato fatto quando fosse necessario o conveniente; che pur quel concilio fu retto da un papa prudentissimo e da legati principali del collegio; nel secondo per ciò fu dato, perché fu richiesto da Maurizio duca di Sassonia e da altri protestanti, e l’imperatore l’addimandò per loro: però con ragione fu concesso. Adesso che nessun l’addimanda, anzi che la Germania ad alta voce dice e protesta che non conosce questo concilio per legittimo, a che darli salvocondotto, se non per dar loro materia di qualche sinistra interpretazione? Li prelati spagnoli non consentivano in modo alcuno ad un salvocondotto generale, per il pregiudicio che si sarebbe fatto all’inquisizione di Spagna; poiché, stante quello, averebbe ciascuno potuto dechiararsi per protestante e mettersi in punto per il viaggio, senza poter esser arrestato dall’inquisizione. L’istesso consideravano li legati che avvenir potrebbe all’inquisizione di Roma e d’Italia. Tutte le cose considerate, pareva quanto all’indice che bastasse al presente far deputati, e con una particola del decreto far intender agl’interessati che sarebbono ascoltati, e invitar al concilio tutti; e quanto al salvocondotto, per le difficoltá che s’attraversano, rimetter a pensarvi meglio.
Mentre queste cose si trattano, a’ 5 di febbraio arrivò in Trento il cardinale Altemps, nepote del papa, quinto legato, e insieme la nova dell’editto di Francia di sopra recitato, che confuse molto ognuno; poiché mentre il concilio è in piedi per condannare le novitá, quelle dai principi siano permesse con pubblico decreto. Il dí seguente fu ricevuto in congregazione generale Antonio Miglicio arcivescovo di Praga, ambasciator dell’imperatore. Fu letto il mandato di Sua Maestá cesarea, l’arcivescovo fece una breve orazione, e reservò il rimanente al signor Sigismondo Thun, secondo ambasciatore di Sua Maestá, che non era ancora gionto. La sinodo rispose che con molta allegrezza vedeva li ambasciatori dell’imperatore, e che ammetteva il mandato imperiale. Tentò l’ambasciator di preceder il Cardinal Madruccio vescovo di Trento, allegando le ragioni e pretensioni di don Diego nel primo concilio, e con la risposta di quello che successe, non di quello che fu preteso, s’acquetò e sedette di sotto.
Alli 9 fu accettato Ferdinando Martinez Mascarenio, ambasciator di Portogallo. Letta la lettera di credenza del re e il mandato, fu fatta un’orazione assai longa da un dottore che con lui era, dove narrò il frutto che la Chiesa cava dalli concili, la necessitá di questo presente, li attraversamenti che ha sostenuto nelli passati tempi, e come la prudenza di Pio pontefice li ha superati in questo tempo. Disse l’autoritá dei concili esser cosí grande che li decreti loro sono ricevuti per oracoli divini. Il re aver speranza che da quel concilio sarebbono decise le differenze nella religione e indrizzati li costumi de’ sacerdoti all’evangelica sinceritá; per il che li prometteva ogni ossequio; di che potevano render testimonio li vescovi giá arrivati e quelli che arrivaranno. Narrò la pietá, religione e impresa delli antichi e prossimi re, e di questi le fatiche per sottopor tante provincie dell’oriente all’imperio della sede apostolica: delle qual eroiche pietá debbono aspettar imitazione in Sebastiano re. Lodò in poche parole la nobiltá e virtú dell’ambasciatore, e in fine pregò li padri ad ascoltarlo, quando sará bisogno per le chiese del suo regno. Il promotore in poche parole rispose la sinodo aver sentito piacer leggendosi il mandato del re e udendo l’orazione con narrativa della sua pietá e religione, cosa non però nova, ma a tutti nota, essendo conspicua la gloria debita a lui e a’ suoi maggiori, per aver conservato in questi tempi turbolenti la religione cattolica nel suo regno e averla portata in luochi lontani; che di ciò la sinodo rende grazia a Dio, e riceve il mandato del re, come debbe.
Ma nella congregazione delli 11 si presentò l’altro ambasciator dell’imperatore, il qual fu senza molta cerimonia recevuto, essendo stato giá letto il mandato; onde vi fu tempo di trattar delle cose conciliari; e detto alquanto nelle medesime materie, fu data libertá alli legati di elegger padri per formar una congregazione sopra l’indice, e altri a formar il decreto per la futura sessione. Furono nominati dalli legati, per attendere al negozio dei libri, censure e indice, l’ambasciator di Ungaria, il patriarca di Venezia, quattro arcivescovi, nove vescovi, un abbate e due generali.
Alli 13 li ambasciatori dell’imperatore comparvero alli legati e fecero un’esposizione con cinque richieste, che lasciarono anco in scritto, acciò potessero deliberar sopra: che si fuggisse il nome di «continuazione» del concilio, perché da ciò li protestanti pigliavano occasione di ricusarlo; che si differisse la futura sessione, o almeno si trattassero cose leggeri; che non si esasperassero quelli della confessione augustana in questo principio dei concilio col condannare i loro libri; che si desse a’ protestanti amplissimo salvocondotto; che quanto si trattasse nelle congregazioni fosse tenuto secreto, perché il tutto si pubblicava sino a’ plebei. Poi, avendo offerto tutti li favori e assistenze per nome dell’imperatore, soggionsero aver ordine dalla Maestá sua, essendo chiamati da Sue Signorie reverendissime, di consegliare le cose del concilio e adoperar l’autoritá imperiale per favorirle.
Alli 17 risposero li legati che, essendo necessario sodisfar tutti, sí come a loro instanza non si nomineria «continuazione», cosí per non irritar li spagnoli era necessario astenersi anco dal contrario; che nella prossima sessione si passerebbe con cose generali e leggere, e all’altra si daria longo tempo; che non si era pensato di dannare per allora la confessione augustana. Quanto ai libri de’ confessionisti non si parlerebbe allora, ma l’indice de’ libri si farebbe nel fine del concilio; che si daria salvocondotto amplissimo alla nazione germanica, quando fosse ben deciso se si dovesse darglielo separatamente o metterlo con le altre; che si provvederebbe alla secretezza con buona maniera, e tutto quello che tratteranno lo comunicheranno con loro, essendo certi della buona volontá dell’imperatore, e che li ambasciatori suoi corrispondono alla pietá e religione del patrone.
Giorgio Drascovizio vescovo di Cinquechiese, terzo ambasciator dell’imperatore, che era gionto in Trento sino il mese passato, il 24 febbraro in congregazione generale presentò il suo mandato; e allora fece un’orazione, nella quale si estese nelle lodi dell’imperatore, dicendo che Dio l’ha donato in questi tempi per sollevamento di tante miserie. Lo comparò a Constantino nel favorir le chiese, narrò li molti uffici fatti per la convocazione del concilio; e avendolo ottenuto, primo di tutti li principi volle mandare ambasciatori, due per l’Imperio, regno di Boemia e Austria, e sé separatamente per il regno di Ongaria: presentò il mandato e ringraziò la sinodo che, anco inanzi di veder il documento della legazione, li dasse il luoco conveniente alla qualitá d’ambasciatore. Fu letto il decreto, formato dalli deputati in termini generali, il che fu fatto cosí per sodisfar alla richiesta degli imperiali, come perché non era ben digesta la materia.
Il che fatto, il legato Mantoa fece una modesta e grave ammonizione alli padri di tenir secrete le cose che nelle congregazioni si trattavano, cosí acciò che pubblicandosi non fosse opposto qualche attraversamento, come anco perché, quando ben non vi fossero simili pericoli, le cose hanno riputazione maggiore e sono in maggior riverenza tenute, quando non sono da tutti sapute; poi ancora perché, non usando molte volte ognuno tutta la circospezione conveniente, o non servando il decoro, è con indignitá di tutto il consesso se si pubblica. Aggionse anco non esservi collegio o conseglio cosí secolare come ecclesiastico, né ristretto né numeroso, che non abbia la sua secretezza, la quale è imposta con legami o di giuramenti o di pene. Ma quella sinodo esser di persone cosí prudenti, che non debbono esser legate, salvo che dal proprio giudicio. Che esso, cosí dicendo, non parlava piú alli padri che alli colleghi, e a se stesso principalmente, essendo ognuno soggetto d’ammonir se stesso ad ogni cosa condecente. Dopo passò a raccordar la difficoltá che s’era scoperta nella materia del salvocondotto, ed esortò ognuno a pensarci con accuratezza, soggiongendo, in caso che inanzi la sessione non si potesse risolver, si aggiongerá al decreto che il salvocondotto si possi conceder in congregazione.
Questo fu risoluto tra li legati; perché avendo scoperto la difficoltá, massime per l’inquisizione di Roma e di Spagna, avevano scritto tutto quello che era stato detto cosí sopra quel punto, come intorno l’indice, e aspettavano risposta da Roma, dove il pontefice stava con sdegno per l’editto di Francia, e con impazienza che il concilio si passasse senza niente fare. Diceva non esser ben che li vescovi stiano molto tempo fuori della residenza, e massime per trattar superfluamente de dogmi decisi in altri concili; aveva in sospetto li prelati spagnoli, e allora maggiormente, riputandoli fatti piú male affetti dopo che aveva concesso al re dell’entrate ecclesiastiche quattrocentomila scudi l’anno per dieci anni fermi, e facoltá di vender trentamila scudi d’entrata de’ vassallatici delle chiese: che pareva una diminuzione molto notabile della grandezza della Chiesa in Spagna.