Istoria del Concilio tridentino/Libro quarto/Capitolo I
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CAPITOLO I
(mAggio-1° settembre 1551).
[Ritorno del concilio a Trento: sessione undecima. — Nuovo invito papale agli svizzeri d’intervenire. — Aspro dissidio tra il papa ed Enrico II per la questione di Parma. — Minaccia francese d’un concilio nazionale. — Trattative e intransigenza delle due parti. — In concistoro l’ambasciatore francese protesta contro la convocazione del concilio a Trento. — I principi protestanti, disposti a recarsi a Trento, chiedono un salvocondotto non solo imperiale, ma conciliare. — Carlo V invia tre suoi rappresentanti: sua azione per l’intervento degli elettori tedeschi. — Sessione duodecima: cerimonia, esortazione letta dal segretario, fissazione della materia da trattarsi per la sessione d’ottobre. — Giacomo Amyot, a nome di Enrico II, rinnova la protesta contro il conventus tridentino. — Opposizione degli spagnoli a quella lettura. — Contenuto del documento e giudizi su di esso. — Misure di Enrico II ostili a Roma e contemporaneo editto contro i protestanti di Francia. — Carlo V cerca, brigando per la creazione di nuovi cardinali, di prevalere nel collegio cardinalizio.]
Gionti a Trento il legato e nonci, con compagnia d’alcuni prelati che da Roma li seguirono, e arrivati altri prelati che poco doppoi gionsero sollecitati dal pontefice, nel giorno su detto ridottisi al solito tavolato nella chiesa cattedrale, che restava ancora in piedi, con le solite ceremonie fu cantata la messa dalL’Arcivescovo di Torre: e letta dal secretano la bolla del papa della convocazione e il mandato nelle persone delli presidenti, il celebrante lesse il decreto in forma interrogativa: «Padri, vi piace che, seconda la forma delle lettere ponteficie, il concilio di Trento si debbia reassumere e proseguire?» E dati li voti da tutti, interrogò di nuovo: «Piacevi che la sessione seguente si tenga al primo settembre prossimo?» Al che da tutti fu consentito; e il cardinale primo presidente concluse, coll’assenso e per nome di tutta la sinodo, che adunque il concilio è incominciato e si proseguirá. Né altra cosa si fece in quel giorno, né meno li seguenti; e se ben spesse volte si ridussero li prelati in casa del legato, le congregazioni però non avevano forma, non vi essendo teologi. Si leggeva solamente le cose disputate in Bologna, per maturar la deliberazione di quel che si doveva trattare, e massime in materia di riforma, che era stimata la parte piú importante.
In fine del mese il pontefice mandò in svizzeri Geronimo Franco, stato altre volte noncio di papa Paulo a quella nazione, principalmente per impedir che il re di Francia non avesse soldati da loro, e per ottener levata per le cose di Parma; e in quell’occasione scrisse loro sotto li 27 maggio che, sí come aveva preso il nome di Giulio II, tanto affezionato a loro, cosí voleva seguir l’esempio suo in amarli e servirsi dell’opera loro; al che aveva dato principio pigliando una guardia della sua nazione per la custodia della persona propria e un’altra per Bologna. Ora essendo stato intimato e cominciato il concilio in Trento al primo di maggio, li pregava operare che li suoi prelati dovessero ritrovarvisi per il primo di settembre, quando sará la seconda sessione.
Il re di Francia cercò di persuader al pontefice, per mezzo di Termes suo oratore, che con buone ragioni aveva pigliato la difesa di Parma, pregandolo di contentarsene, e mostrandoli che, altrimente facendo e anteponendo la guerra alla pace, non solo sarebbe con danno d’Italia, ma impedirá anco la prosecuzione del concilio, o vero lo farebbe dissolvere; e se pur ciò non succedesse, non potendovi andar alcun vescovo francese, non sará ragionevole che si chiamasse concilio generale. Il papa s’offeriva far per il re tutte le cose, eccetto quello che egli desiderava. Ed essendo tra lui e l’ambasciatore passati molti ragionamenti, e rappresentatoli che il re non poteva per alcuna cosa ritirarsi, e che quando Sua Santitá non avesse voluto restar neutrale, ma esser ministro delle voglie dell’imperatore (dal quale il re era certo che si lasciava guidare) la Maestá sua sarebbe stata sforzata ad usar quei rimedi di ragione e di fatto che li suoi maggiori avevano usato contra li pontefici dimostratisi parziali, si mise il papa in collera, o pur finse d’esservi entrato, e rispose che se il re li togliesse Parma, egli leverebbe a lui la Franza; e se li levasse l’obedienza di Franza, egli leverebbe a lui il commercio di tutta cristianitá; e se trattasse di usar forze, farebbe il peggio che potesse; se editti, proibizioni e altre tal cose, li faceva intendere che la sua penna, carta e inchiostro non sarebbono inferiori. Ma se bene il pontefice parlava cosí alto, aveva però qualche timore; onde per eccitar l’imperatore gli fece significare per il vescovo d’Imola suo noncio, che aveva mandato in luoco del sipontino, tutti li ragionamenti passati col francese, col dirli appresso che in Roma si stava in dubbio d’un altro sacco per tanti rumori de turchi e francesi, e si dubitava di concili nazionali. Per il che era necessaria una buona provvisione di arme per prevenir li tentativi e, quando la necessitá portasse, per potersi defendere.
Il re, veduto che non era possibile persuader il papa, scrisse una lettera pubblica e comune a tutti li vescovi del suo regno, cosí a quelli che erano in Francia come altrove, che dovessero andar alle loro chiese fra sei mesi, e lá mettersi in ordine per un concilio nazionale. E la lettera fu anco presentata a quelli che si ritrovavano in Roma; né il papa ebbe ardire d’impedirli, dubitando di far danno a loro e interessar maggiormente la propria riputazione. Ma prese ispediente di mandar Ascanio dalla Corgna suo nipote in Francia, con instruzione di far ogni opera per dissuader il re dalla protezione di Parma e farlo capace che, essendo Ottavio Farnese suo feudatario, non poteva in alcun modo comportare d’esser sprezzato da lui; che sarebbe stata un’infamia eterna, e un esempio a tutti di non riconoscerlo per papa. Esser grandissima l’inclinazione sua alla Francia e a Sua Maestá, e l’animo suo alienissimo dalli emuli di quello, e questo esser notissimo a tutto il mondo. Nondimeno esser cosí potente il rispetto sopraddetto, che quando Sua Maestá non vi porga rimedio, sará sufficiente di farlo gettar in braccio di chi non vorrebbe. Portava anco l’instruzione che se il re non si lasciasse indur a questo, lo pregasse a ben considerare quanti inconvenienti si tirerebbe appresso un concilio nazionale, e che sarebbe principio di metter li suoi soggetti in una licenzia, della quale si pentirebbe; e al presente causerebbe questo mal effetto, che impedirebbe il concilio generale, il che sarebbe la maggior offesa che si potesse far a Dio, e maggior danno alla fede e alla Chiesa. Lo pregasse di mandar ambasciatore a Trento, certificandolo che dalli presidenti e da tutti li prelati amorevoli di Sua Santitá riceverebbe ogni onore e rispetto. Al che non condescendendo, e perseverando in voler che l’editto resti, li proponesse, per levar ogni scandolo, temperamento di far una dechiarazione che con quell’editto non è stato sua intenzione d’impedir il concilio generale.
Il re, udita l’ambasciata, esso ancora mostrò come l’onor suo lo costringeva a perseverare nella protezione del duca e a mantener l’editto, ma con tal forma di parole, che mostravano sentir dispiacere delli disgusti e desiderio di rimediarvi. E per corrispondere al papa, mandò a lui monsignor di Monluc eletto di Bordeos, non senza qualche speranza di poter indolcire l’animo del pontefice. Ma per ogni officio che si fece, quanto alle cose di Parma restò nella medesima durezza, e rimandò l’istesso Monluc con commissione di dolersi col re che avesse mandato sino in Roma l’editto di un concilio nazionale, e lettere alli prelati sudditi suoi ancora in temporale, intendendo del vescovo di Avignone; la qual cosa tutto il mondo interpretava che non si facesse se non per impedir il concilio generale. E concluse pregando il re che, poiché l’uno e l’altro è risoluto, egli in perseverar nella correzione di Ottavio e la Maestá sua nella protezione, almeno le differenzie non uscissero di Parma, come dal canto di Sua Maestá si è uscito con levar li cardinali e prelati da Roma; i quali egli non ha voluto impedir dal partire, sperando che Sua Maestá, esalato il primo sdegno, sarebbe illuminata da Dio a mutar modo.
Li scambievoli uffici e il rispetto del concilio non potêro appresso alcun di questi principi operare che rimettessero niente del rigore. Il consenso universale era favorevole al re; perché, avendo l’imperatore occupato Piacenza, il lasciarli anco Parma era farlo arbitro d’Italia; e pareva indegna cosa che la posteritá di Paulo, che per la libertá d’Italia tanto aveva travagliato, fosse da tutti abbandonata: e se il papa non si doleva che Piacenza fosse occupata e non faceva alcun’instanza per la restituzione, perché dolersi che il duca s’assicurasse di Parma? E questa ragione poteva tanto in alcuni, che tenevano per fermo esser ben intesa da Giulio, ma per far nascere qualche impedimento al concilio, che da lui non procedesse e potesse ad altri esser ascritto, desiderasse la guerra tra il re e l’imperatore. È ben cosa certa che piú frequenti e piú efficaci erano le instanze con Cesare acciò movesse le armi a Parma o alla Mirandola, che gli uffici col re acciò s’accomodasse il negozio. Il re, tentati tutti gli uffici per quietar l’animo del papa, passò all’estremo; che fu, per mezzo di Termes suo ambasciatore, protestare, e particolarmente contra il concilio che s’adunava, sperando che quel rispetto dovesse rimover il papa: della qual protesta, perché dopo fu reiterata in Trento, con quella occasione si dirá il contenuto.
Ma in Germania piú che mai si parlava del concilio. Perché Maurizio duca di Sassonia, veduto la risoluzione di Cesare, e per darli piú sicuro indizio di voler seguir la sua volontá di mandar a Trento, comandò a Filippo Melantone e alcuni altri teologi suoi di metter insieme li capi della dottrina da proponer in concilio, e congregar tutti li dottori e ministri del suo stato in Lipsia per esaminarla; e Cristoforo duca di Virtemberg, poco fa successo al padre, fece da’ suoi far un’altra composizione, le quali in sostanza erano una cosa stessa; e l’una parte approvò quella dell’altra, avendo eletto di non procedere unitamente, acciò l’imperatore non pigliasse suspizione. Poi scrisse il duca Maurizio a Cesare, dando conto di esser in ordine con li teologi suoi, e della scrittura preparata: ma aggiongendo che non gli pareva il suo salvocondotto esser bastante, imperocché nel concilio di Costanza era stato determinato che si procedesse contra li andati al concilio, ancorché avessero salvocondotto dall’imperatore, e il decreto fu anco comprobato con l’esecuzione della morte di Gioanni Hus, andato in quel concilio sotto la fede pubblica di Sigismondo. Per il che non poteva mandar alcun suo a Trento, se anco quei del concilio non li davano salvocondotto; sí come fu fatto nel concilio basiliense, dove li boemi per l’esempio di Costanza non volsero andare a Basilea se non sotto la fede pubblica di tutto il concilio. Per il che pregava Cesare ad operare che fosse concesso loro dagli ecclesiastici di Trento un salvocondotto nella stessa forma che alli boemi in Basilea, perché li suoi erano appunto nella stessa condizione al presente che li boemi allora. Cesare promise di farlo, e alli suoi ambasciatori, che pur in quel tempo spedí al concilio, diede ordine di procurarlo.
L’ambasciaria era di tre personaggi, per onorar il concilio e per aver molti ministri che operassero; ed il numero si onestava, essendo uno per l’Imperio, l’altro per la Spagna, e il terzo per gli altri stati, e nondimeno tutti in solidum per tutti. Il mandato fu segnato sotto il dí 6 luglio, e conteneva: che avendo il pontefice Giulio, per sedar le controversie della religione in Germania, richiamato in Trento per il primo di maggio passato il concilio convocato da Paulo, principiato e intermesso, egli per l’indisposizione sua non potendo ritrovarvisi personalmente, per non mancar del debito ha voluto mandarvi suoi procuratori. Però, confidato della fede, bontá, esperienza e zelo di Ugo conte di Monfort, don Francesco di Toledo e Guglielmo archidiacono di Campagna, li constituisce oratori e mandatari suoi, per conto della dignitá imperiale e delli regni e stati suoi ereditari, dando a loro e a ciascun di essi facoltá di comparer nel concilio, tener il loco suo, consultar e trattar, consegliare e dar voto e interponer decreto per suo nome, e far ogni altra cosa che egli potesse fare essendo presente; ponendoli in luoco della persona sua, e promettendo d’aver rato quello che da essi tre, o vero da uno sará operato.
I1 pontefice, quantonque avesse molto a cuore che il concilio fosse aperto, con tutto ciò, dopo fattogli principio, non si diede molto pensiero che prelati vi andassero, o perché fosse tutto intento alla guerra che ardeva alla Mirandola, o perché poco ne curasse. Tutta l’opera fu posta dall’imperatore, che vi spinse prima li elettori di Magonza e Treveri, e poi anco Colonia, insieme con cinque altri vescovi principali e li procuratori di molti impediti. Fece anco venir di Spagna alquanti prelati, oltra quelli che s’erano trattenuti in Trento e per Italia sino allora, e d’Italia di quelli dei suoi stati, che pochi altri intervennero: in modo che in tutto il tempo degli otto mesi che quel concilio durò, computati li presidenti e principi, non eccessero mai il numero di sessantaquattro.
Venuto il 1° settembre, giorno deputato alla sessione, con la solita ceremonia s’andò alla chiesa. L’ordine della precedenza fu: prima il cardinale legato, dopo il cardinale Madruccio; seguivano due nonci, e dopo essi li due elettori, non essendo Colonia arrivato; dopo questi, due ambasciatori imperiali, non gionto l’archidiacono; seguiva l’ambasciator del re de’ romani, e poi li arcivescovi e vescovi. Cantata la messa e finite le ceremonie ecclesiastiche, il secretario del concilio lesse un’esortazione per nome delli presidenti ai padri del concilio, in questa sentenza: che della presenzia delli doi principi elettori essendo entrati in speranza che molti vescovi della medesima nazione e d’altre ancora dovessero intervenir al concilio, fra tanto per il luoco sostenuto da loro li pareva necessario far un poco d’ammonizione a se medesimi e a loro, se ben vedevano tutti pronti a far l’ufficio di buoni pastori, per esser di gran momento quello che si aveva da trattare: che era estirpar l’eresie, reformar la disciplina ecclesiastica, la corruzion della quale era stata origine delle eresie, e finalmente quietar le discordie de’ principi. Che il principio dell’esortazione doveva esser preso dalla cognizione della propria insufficienza e dal refugio all’aiuto divino, il qual non è per mancare, e giá se ne vedono molti indici, ma specialmente la venuta delli due principi. Che l’autoritá dei concili generali fu sempre grandissima, presedendo in loro lo Spirito Santo, e li loro decreti sono stimati non umani ma divini; che di ciò è stato lasciato esempio dagli apostoli e dalli Padri sussequenti, poiché per mezzo de concili sono stati dannati tutti li eretici e riformata la vita e costumi dei sacerdoti e del populo, e tranquillata la chiesa descordante. Onde essendo congregati al presente per far altrettanto, convien svegliarsi per ricuperare le pecore uscite dall’ovile del Signore e custodir quelle che per ancora non sono sviate; nel che non si tratta della salute di quelle solamente, ma della propria, dovendone render conto alla Maestá divina. Dalla quale, facendo il debito, s’ha d’aspettar mercede, oltreché sará attribuito a gran laude a quel concilio da tutta la posteritá; se ben a questo non si debbe mirare, ma guardar solamente il proprio debito e la caritá verso la Chiesa, la qual, afflitta e lacerata e privata di tanti carissimi figliuoli, alza le mani a Dio e a loro per ricuperarli. Per tanto voglino trattar con ogni mansuetudine, come è degno d’un tanto consesso, le cose conciliari, senza contenzione, ma con perfetta caritá e consenso de animi, raccordandosi d’aver spettatore e giudice Dio.
Finita l’ortazione, dal vescovo celebrante fu letto il decreto, la sostanza del quale fu: che la santa sinodo, la quale nella passata sessione aveva determinato camminar inanzi, in questa d’oggi, avendo differito farlo sin ora per l’assenza della nazione germanica e per poca frequenza de’ padri, rallegrandosi per la venuta delli due principi elettori, sperando che molti altri della nazione stessa e delle altre al loro esempio siano per affrettar la venuta, differisce la sessione per quaranta giorni, cioè sino alli 11 ottobre: e proseguendo il concilio nello stato in che si ritrova, avendo trattato giá detti sette sacramenti, del battesmo e confirmazione, ordina di trattar dell’eucaristia; e quanto alla riforma, delle cose che facilitano la residenza. Poi dal secretarlo fu letto il procuratorio imperiale, e dal conte di Monfort parlato, con dire che Cesare, dopo impetrata la reduzione del concilio in Trento, non aveva cessato di far opera che li prelati delli stati suoi vi si trasferissero: il che dimostra la presenza delli elettori e la frequenza de’ padri. Ma per maggior testimonio del suo animo aveva mandato don Francesco del regno di Spagna, e un altro delli stati patrimoniali, e di Germania sé, quantunque indegno, pregando d’esser per tale ricevuto. Rispose Gioanni Battista Castelli promotore per nome del concilio: aver sentito il mandato di Cesare con piacere, avendo da quello e dalla qualitá dei procuratori constituiti concepito quanto si può promettere; onde spera aiuto da loro, e ammette quanto può il mandato cesareo. Fu parimente letto il procuratorio del re de’ romani in persona di Paulo Gregorianozi, vescovo di Zagabria, e Federico Nausea vescovo di Vienna; e parlò questo secondo, e li fu resposto come a quelli dell’imperatore.
Dopo di questo comparve Giacomo Amyot abate di Bellozana, per nome del re di Francia, con lettere di quella Maestá, le quali presentò al legato, ricercando che fossero lette, e udita la sua credenza. Il legato, ricevutele, le diede al secretarlo da leggere. La soprascrizione era: Sanctissimis in Christo patribus conventus tridentini. La qual letta, il vescovo d’Orense, e dopo lui gli altri spagnoli dissero ad alta voce quelle lettere non esser inviate a loro, che erano concilio generale legittimo, e non convento; che però non fossero né lette né aperte in pubblica sessione, ma se il messo voleva dir alcuna cosa, andasse a casa. Molto vi fu che dire sopra il significato della parola conventus, persistendo li spagnoli che fosse ad ingiuria; tanto che il magontino fu costretto dirli: se non volevano ricever una lettera del re di Francia, che li chiamava sanctissinms conventus, come averebbero ascoltato li protestanti, che li chiamavano conventus malignantium? Ma seguendo tuttavia li prelati spagnoli, piú di tutti gli altri tumultuando, il legato si ritirò con li nonci e con li ambasciatori dell’imperatore in segrestia, e sopra questo longamente disputarono. Finalmente ritornati al luoco loro, fecero dir al promotore che la santa sinodo risolve di legger le lettere senza pregiudicio, stimando che la dizione conventus non s’intenda in mala parte; che altrimente protesta de nullitá.
Fu adunque aperta e letta la lettera del re, la qual era delli 13 agosto, e diceva in sostanza: esserli parso conveniente all’osservanza de’ suoi maggiori verso la Chiesa significar loro le cause perché è stato costretto a non mandar alcun vescovo al convento da Giulio convocato con nome di pubblico concilio, essendo certo che essi padri sono alieni dal condannar il fatto d’alcuno prima che intenderlo, e che intese le cose da lui operate, le commendariano; che era stato costretto, per servar l’onor suo, perseverar nella deliberazione presa di protegger il duca di Parma, dalla quale deliberazione non ricuserebbe partirsi, quando lo comportasse la giustizia ed equitá; che a loro scrive come árbitri onorari, pregandoli a ricever le lettere, non come da avversario o persona non conosciuta, ma come da primo e principal figlio della Chiesa per ereditá delli maggiori, quali promette sempre imitare; e, mentre propulsa le ingiurie, non depor la caritá della Chiesa, e ricever sempre quello che da lei sará statuito, purché sia servato il debito modo nel far li decreti.
Recitate le lettere, l’abate lesse una protestazione continente la narrazione della protesta fatta da Termes in Roma; dicendo che il re, dopo presa la difesa di Parma, vedendo che le cose lodevoli da lui fatte erano riprese, usò gran cura acciò Paulo Termes suo oratore del tutto dasse conto al pontefice e al collegio de’ cardinali, per levarli ogni sinistra opinione, mostrando che l’aver preso la protezione del duca fu effetto d’animo pio, umano e regio; nel che niente di artificio o di proprio comodo, ma il solo rispetto della Chiesa interveniva; e si mostrava per le proposte d’accordo che ad altro non miravano se non che quella cittá non fosse rubata alla Chiesa, e Italia si conservasse in pace e libertá. E se il papa riputava questo causa da metter tutta Europa in guerra, ne sentiva dispiacere, ma non poteva esser ad esso imputato, avendo non solo accettato, ma offerto anco tutte le condizioni oneste e opportune. Né meno li poteva la dissoluzione del concilio convocato esser ascritta; pregando il papa a considerar li mali che dalla guerra seguirebbono, e con la pace prevenirli. Al che non volendo la Santitá sua attendere, anzi amando piú tosto l’incendio d’Europa e l’impedimento del concilio, con dare anco sospetto che fosse convocato non per utilitá della Chiesa, ma per interessi privati, escludendo da quello un re cristianissimo, Sua Maestá non aveva potuto far di non protestar a lui, e insieme al collegio, che non poteva mandar li suoi vescovi a Trento, dove l’accesso non era libero e sicuro; e che non poteva stimar concilio generale della Chiesa, ma privato, quello dal quale egli era escluso; e che né egli né il populo o prelati di Francia potevano restar ubbligati alli decreti di quello. Anzi protestava appresso di voler venir alli rimedi da’ suoi antecessori usati in simil occorrenze, non per levar l’osservanzia debita alla sede apostolica, ma riservandola a tempi migliori, quando fossero deposte le arme contra lui prese con poca onestá: richiedendo dalla Santitá sua che quella protesta fosse registrata e datagliene copia da poter usare. Le qual cose tutte, giá protestate in Roma, voleva che parimente fossero protestate in Trento con la medesma instanza, e fossero registrate negli atti di quell’adunanza, e fattone pubblico istromento per potersene valer a tempo e luoco.
Letta la protestazione, il promotore, avendo parlato con li presidenti, rispose in sostanza: alla santa sinodo esser grata la modestia usata dal re nella sua lettera; che non accetta la persona dell’abbate se non in quanto sia legittima, ma gl’intima d’esser nel medesimo luoco a’ 11 d’ottobre per ricever la risposta che fará alle lettere regie; e proibisce alli notari di poter far istromento della presente azione, salvo che giontamente col secretario del concilio. Né restando altro che fare, fu finita la sessione. Dimandò poi l’abbate documento dell’azione, ma non lo potè ottenere.
Quando da Termes fu protestato in Roma, quantunque quell’atto non passasse a notizia de molti, fu creduto che il pontefice dovesse differir il concilio, il quale celebrato, repugnando una nazione tanto principale, non poteva se non partorir nove divisioni. Il pontefice in questo ingannò il mondo, non per desiderio di far concilio, ma non volendo nella dissoluzione mettere del suo; risoluto che, se si fosse separato senza di lui, averebbe con bocca aperta risposto, a chi l’avesse di novo richiesto, d’aver fatto la parte sua e non voler saperne altro. Ma la protestazione fatta in Trento in luoco cosí conspicuo si pubblicò immediate per tutto con ogni particolare, e porse materia di ragionamenti. L’imperiali l’avevano per una vanitá, dicendo riputarsi sempre legittimo l’atto della maggior parte dell’universitá, quando la minor, chiamata, non ha voluto o non potuto intervenire; che al concilio tutti sono chiamati, e li francesi averebbono anco potuto andare senza passar per le terre del papa: ma quando no, la sua assenza non derogar al concilio, poiché non sono sprezzati, anzi invitati. Si diceva in contrario che non era invitare il chiamare in parole ed escludere in fatti; e quanto alle terre del papa, potersi andar a Trento di Francia senza di lá passare, ma non potersi senza transitare per quelle dell’imperatore: e la maggior parte allora aver forse l’intiera autoritá, non potendo la minor comparire; quando taccia, presupponendosi consenziente, e, se non vuol, avendosi per contumace; ma se protesta, vuole il luoco suo e, massime quando l’impedimento viene da chi la chiama, non poter esser valida l’azione in assenza sua.
E li conseglieri del parlamento di Parigi dicevano anco qualche cosa di piú: cioè esser vero che si trasferisce l’autoritá di tutta l’universitá nella maggior parte, quando la causa è comune di tutti, e niente è delli particolari; ma quando il tutto è de tutti, e ciascuno ha la sua parte, allora è necessario il consenso di ciascuno, et prohibentis conditio potior, e senza il voto degli assenti, quelli non possono esser obbligati. Di questo genere esser le radunanze ecclesiastiche; e sia quanto si vuol numeroso un concilio, quelle chiese che non sono intervenute, non esser ubbligate, se non li par di riceverlo. Cosí aver sempre servato l’antichitá, che, finiti li concili, si mandassero per le chiese non intervenute ad esser confermati, altrimenti in quelle non avevano vigore. Il che, leggendo Ilario, Atanasio, Teodoreto e Vittorino, che di questo particolare trattano, ognun vederá chiaro. E occorreva alle volte che in qualche chiesa era ricevuto parte delli canoni, tralasciati gli altri, secondo che giudicava ciascuna convenire alle necessitá, costumi ed usi propri. E san Gregorio medesmo cosí testifica, che la chiesa romana non ricevette i canoni del constantinopolitano secondo e dell’efesino primo.
Gli uomini prudenti, senza considerar le suttilitá, dicevano che il re a quel concilio aveva dato una piaga insanabile, poiché non avendo altro fondamento che la caritá cristiana e l’assistenza dello Spirito Santo, in nessun tempo sarebbe stato creduto che questo fosse intervenuto in una reduzione, contra la quale un re cristianissimo e persecutor de tutte le sette, con l’aderenza d’un regno niente macchiato nella religione, avesse protestato in quella forma. E aggiongevano la medesima esperienza per comprobazione: che i presidenti si ritirassero a consultare con gli ambasciatori dell’imperatore (dicevano) mostrare chi guidasse il concilio. E quel che piú importa, che, fatta la consulta tra essi cinque e non comunicata con altri, il promotor dicesse: «La santa sinodo riceve le lettere». E chi era quella santa sinodo? E similmente che, letta l’esposizione dell’abbate, fosse data risposta per il nome medesimo, solamente deliberata dalli presidenti. Né potersi levar la difficoltá dicendo che era cosa di non grand’importanza: prima, perché sará difficile sostentare che non sia importantissima materia dove si tratta pericolo di divisione nella Chiesa; poi che, sia come si voglia, nessun può arrogarsi di dechiarare che importi e che non, salvo colui che è superiore. E quella esser una demostrazione che le cose erano a punto come il papa dice nella bolla e li presidenti nel sermone letto, cioè che essi erano per indrizzar il concilio, e veramente l’indrizzavano.
Diede iterata occasione alli medesmi ragionamenti l’avviso che il re licenziò il noncio del pontefice, e pubblicò un manifesto, quale in quei giorni posto alla stampa fu per tutto divulgato; dove longamente espone le cause perché prese la protezione di Parma, incolpa il papa della guerra intrapresa, l’attribuisce ad artificio, acciò il concilio non si tenesse; concludendo in fine non esser giusta cosa che fossero somministrati li danari, per far guerra contra di lui, dal suo regno, dal quale è cavata somma grande ordinariamente per vacanze, bolle, grazie, dispense ed espedizioni: e per tanto col consegno de’ suoi principi proibiva di ispedir a Roma corrieri e risponder per via di banco denari o altri ori e argenti non coniati, per materie beneficiali o altre grazie e dispense, sotto pena di confiscazione cosí agli ecclesiastici come a’ secolari; e a questi oltre ciò di esser puniti corporalmente, applicando alli denonciatori la terza parte della confiscazione. Il qual manifesto fu verificato in parlamento con proposta del procuratore generale del re, nella quale diceva che non era cosa nova, ma usata da Carlo VI, Luis XI e Luis XII, e conforme alla legge comune che danari non siano portati a’ nimici; e che sarebbe cosa troppo dura che con danari di Francia fosse fatta guerra al re, ed esser meglio per i sudditi del regno conservar li soldi propri e non curarsi di dispense, le quali non sono bastanti a sicurar la conscienzia, né altro sono che un colore agli occhi degli uomini, quale appresso Dio non può occultar la veritá.
Non potevano sopportar né a Roma né in Trento che il re protestasse contra il papa e volesse anco farli guerra, e tuttavia dicesse che conservava la medesima riverenza verso la sede apostolica, non essendo la sede apostolica altro che il papa. Al che francesi rispondevano che l’antichitá non ebbe questa opinione: anzi Vettor III, che fu pur, tra i papi, di quelli che molto si assonser, disse che la sede apostolica era sua signora. L’istesso fu detto inanzi lui da Stefano IV; e dalli piú vecchi Vitaliano e Constantino appar chiaro che per sede apostolica vien intesa la chiesa romana. Altrimenti quando fosse una stessa cosa col papa, anco li errori e difetti del papa sarebbono della sede apostolica.
Il re di Francia, temendo che per la sua dissensione col pontefice li desiderosi di mutazione di religione non facessero qualche novitá che partorisse sedizione, o vero egli non fosse posto in concetto cattivo del populo, comeché avesse animo alieno dalla cattolica, e forse anco per aprir una porta di potersi reconciliar con Roma, fece un severissimo editto contra li luterani, confermando tutti gli altri da lui pubblicati per inanzi, e aggiungendo maggior pene, piú modi di scoprir li colpevoli e premi a’ denonciatori.
L’imperator, considerando che il re di Francia, per il numero de’ cardinali francesi e altri dependenti da quella corona, non era di minor poter di lui nel collegio, ed essendovi gionta la parte de’ Farnesi, lo superava di gran longa, quantunque avesse dalla sua il pontefice, mandò a Roma don Gioanni Manrique a persuader il pontefice di crear novi cardinali, per avvantaggiare o vero pareggiare il numero de’ francesi. Al che il pontefice inclinava, ma vedeva però la difficoltá che vi era in un ponteficato novo ed esausto, e in tempo di sollevamenti, quando è difficile aver il consenso di tutti i cardinali, e il crearli senza consenso esser pericoloso. Stava ambiguo se era meglio farne molti in una volta, o pur a poco a poco. A questo secondo modo li pareva che piú facilmente averebbe ottenuto il consenso, e li confidenti sarebbono restati in speranza; e che ad una promozione numerosa si sarebbono maggiormente opposti li cardinali, e li esclusi sarebbono disperati. Restava anco in ambiguitá se doveva creare alcuno delli prelati del concilio. A questo lo persuadeva che molti ve n’erano benemeriti, e che bisognava tenir conto delli tre elettori, e massime del magontino, che vi pensava. Dall’altro canto il mandar al concilio cappelli rossi li pareva cosa invidiosa. Risolse in se stesso di non aspettar il Natale, quando tutti vengono fuori con la sua pretensione e li banchi sono pieni di scommesse, ma un giorno sprovvistamente venir all’esecuzione: se ben poi non trovò tempo opportuno di crearli se non al Natale.