Introduzione per l'apertura del Teatro Comico di S. Luca la sera de' 7 Ottobre 1753

Carlo Goldoni

1753 Indice:Goldoni - Opere complete, Venezia 1910, X.djvu Introduzione per l’apertura del Teatro Comico di S. Luca la sera de’ 7 Ottobre 1753 Intestazione 11 aprile 2020 100% Da definire

Nota storica
Questo testo fa parte della raccolta Opere complete di Carlo Goldoni - Volume X
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INTRODUZIONE.

Per l'apertura del Teatro Comico detto di San Luca
la sera de’ 7 Ottobre 1753.

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Flaminia, Clarice, Eleonora, Ottavio, Florindo, Lelio, Argentina, Brighella. Poi il Signor Giammaria dalla Bragola.

La Scena rappresenta una sala, ove i Comici sogliono ragunarsi.

All’alzar della tenda si trovano tutti i Personaggi in scena, e si sente batter le mani per il Teatro, solito accoglimento che suol fare l’udienza ai Comici la prima sera che si riapre il Teatro.

Flaminia. Che cos’è questo strepito?

Ottavio. Io giudico che il popolo batta le mani per l’impazienza di veder la commedia.

Flaminia. L’ora non mi pare tanto avanzata. Le persone nei palchi non saranno ancora venute.

Ottavio. La sollecitudine di chi vien presto, non ha niente che fare col comodo di chi vien tardi. Ciascheduno pensa per sè; e compatisco assaissimo chi s’inquieta.

Argentina. E pure, prima che si dia principio, dovranno aspettare un quarto d’ora almeno.

Florindo. Certamente: mancano ancora il Pantalone, il Dottore ed il Traccagnino.

Brighella. E anca mi bisogna che me vada a vestir da Brighella.

Ottavio. Via, spicciatevi, caro amico. Gli altri, quando verranno, saranno belli e vestiti.

Brighella. Aspetto l’abito, no i me l’ha1 ancora portà. Son vegnù via de casa stordido senza parlar, e senza saver dove che me andassea. [p. 12 modifica]

Florindo. Da che procede lo stordimento? l’aria non vi conferisce?

Brighella. Anzi questa l’è un’aria che fa ben a tutti, e spero che la me farà ben anca a mi. El mio stordimento el nasse da do princìpi: dalla cognizion de mi medesimo, e dalla cognizion del paese dove me trovo. Venezia l’è un paese de gusto fin; e mi son un omo assai grossolan. Venezia l’è avvezza a sentir dei personaggi de merito; e mi non ho merito per farme ascoltar; qua se tamisab el bon, se separa el fior dalla farina, e mi che son tutto semola, no son cibo per el palato de sti signori; ma al più al più, se pol cavar da mi un poco de acqua de semola per la tosse. Siori, ve prego no ve scandolizzar, se vegno a drittura con una allegoria a seccarve. Questo apponto procede dalla mia confusion. So che el gusto moderno no condanna affatto le allegorie, ma nol le voi con tanta frequenza: in questo me regolerò. Voggia el cielo che corrisponda le mie forze alla mia bona intenzion. Za che la sorte m’ha condotto a esercitar sto mistier, per no pentirme d’averlo intrapreso, altra consolazion no desidero che de esser compatido in sta benedetta città. Se arrivo a questo, rinonzio a ogni speranza de meggiorar condizion. Me raccomando a vualtri siori compagni, me raccomanderò ai clementissimi signori Veneziani, dei quali voggio esser e voggio morir servitor da vicin, come son stà fin adesso ammirator da lontan. Vado a metterme la maschera da Brighella. (parte)

Ottavio. Egli è un uomo che il suo mestiero lo sa, ma in un paese nuovo ciascheduno ha della soggezione.

Lelio. E in un paese poi, come questo, dove si vedono in attuale confronto i migliori comici che girino per l’Italia.

Clarice.c Signori miei, se tanta soggezione si prende il signor Brighella, che finalmente è uomo, che cosa dovrò far io, che [p. 13 modifica] sono una povera donna? Oh, io sì mi trovo imbrogliata davvero. Sono pochissimi anni ch’io faccio un tale mestiere, e l’ho sempre fatto il cielo sa come. Questo per me è un mondo nuovo, novissimo affatto, ed è palese la repugnanza ch’io aveva nell’accettare un tal carico. Quando le commedianti che girano la terraferma hanno una scrittura per venire a Venezia, la mostrano a tutto il mondo, e se ne gloriano, e ne fanno pompa. Io all’incontro non la mostrava a nessuno, non già perchè internamente non mi credessi onorata con un tal fregio, ma per paura che mi dicessero: Va pure, che Venezia sentirà in te qualche cosa di buono! la bella figura che tu farai su que’ teatri! a rivederci l’anno venturo a Chiozza. In verità, credetemi, me ne vergognava. Basta, ci sono venuta, e ci sono. Farò quel poco ch’io so, e se di più non farò, sarà segno che di più non so fare. Mi basta essere compatita. Fra un poco di compatimento e un poco di buona volontà, chi sa che non facciamo qualche cosa di meglio? Nella bontà de’ signori Veneziani spero assaissimo; e mi lusingo che quelli che mi aspettano un altro anno a Chiozza, abbiano a loro dispetto a vedermi qui, accasata, stabilita, piantata qui, all’onor di servire un’udienza sì nobile, sì clemente e sì generosa.

Eleonora. Non dubitate, signora Clarice, che vi ritroverete contenta. Sono cinque anni che ho l’onor di servire questo popolo, esempio della bontà e della gentilezza. Anch’io a principio tremai, niente meno di voi, eppure con tutti que’ difetti che aveva e che non ho potuto correggere, sono stata benignamente sofferta; anch’io ho avuto le mie particine che mi hanno acquistato qualche compatimento. Ciascheduno più in un genere che nell’altro può comparire. Confesso non esser buona per certe parti o troppo gravi, o troppo languenti, ma per un caratterino di mezzo m’ingegno anch’iod. Il passar da un teatro [p. 14 modifica] piccolo ad un teatro maggiore certamente può recarmi del disavvantaggio, pure mi lusingo di essere tollerata, in grazia se non altro di quella bontà universale che tutti nel grado suo compatisce, essendo pregio particolare di questa sola città benefica non annoiarsi de’ personaggi per il lungo vederli, ma sempre più compatirli, e renderli sempre più di un tal soggiorno contenti.

Argentina. Io poi posso dire di essere nata qui, e qui spero di dover morire5. Queste tavole mi hanno allevata e su queste tavole ci ho da venire vecchia vecchia col bastoncello. Se mai... che so io? Non si possono sapere le cose di questo mondo. Se mai... vorrei dirla, ma mi vergogno un pochino. Basta, la dirò. Se mai avessi da fare anch’io la pazzia che fanno le altre, ho piacere di farla qui. Oh oh, ridete, ch’ella è da ridere. Ho sentito uno che ha detto: coss’èla, siora, sta pazzia che vorressi far? Maritarmi, signore.

Ottavio. Perchè il maritarvi lo chiamate pazzia?

Il signor Giammaria dalla Bragolae e detti.

Zamaria. Patroni, bona sera, sioria, ben vegnui.

Ottavio. Servitore obbligato.

Argentina. Ecco il signore Giammaria dalla Bragola! (a Lelio)

Zamaria. Son vegnù in teatro; xe un’ora che me macco le tavarnellef su un scagno. No principiè mai? Son vegnù a veder cossa che fè.

Flaminia. Or ora si principierà, signore.

Zamaria. Disème la verità, in confidenza. Ghe seu tutti? [p. 15 modifica]

Flaminia. Come, se ci siamo tutti?

Zamaria. Della vostra compagnia ghe ne xe morto nissun?

Flaminia. Niuno, per grazia del cielo.

Zamaria. E pur giera sta dito che i aveva fatto tre o quattro duellig, che i s’aveva taggià el muso, sbusà la panza, che soggio mi? I ghe n’ha dito de quelle poche.

Flaminia. Oh, signore, chi volesse badare alle ciarle: ogni anno ne inventano delle graziose.

Zamaria. Cossa xe de quel vostro Leandro?h de quello che fa la parte da matto?

Flaminia. Sta benissimo. Questa sera lo vedrà recitare.

Zamaria. Sì? el xe qua? el xe vivo? Gh’ho a caro da galantomo. Poverazzo! ghe voggio ben come sel fusse del mio sangue.

Flaminia. Avevano forse detto anche di lui qualche cosa?

Zamaria. Una bagattella! I ha dito che el poeta l’aveva mazzà.

Flaminia. Non vi è mai stato un menomo che dir fra di loro7.

Zamaria. Xelo qua el vostro poeta? xelo vegnù a Venezia?

Flaminia. È venuto certo. Sarà qui sulla scena ad assistere alla sua commedia.

Zamaria. Oh bella! Se i m’aveva dito de seguro che noi vegniva più a Venezia; che el giera andà via, che el giera andà in Portogallo8.

Flaminia. Egli non è capace di mancare agl’impegni suoi9.

Zamaria. Oh via, donca me ne consolo tanto e po tanto. Prima con vu, la mia cara siora Flaminia, che savè che v’ho sempre volesto beni, e po con tutti sti siori. Vu sè quello che [p. 16 modifica] giera in quell’altro teatroj, cossa ghe diseli? passà Rialto: perchè mi stago alla Bragola, e vegno qua volentiera. (ad Ottavio)

Ottavio. Sì signore, io sono Ottavio, che per tredici anni ho l’onore di servire in questa Serenissima Dominante.

Zamaria. Bravo, bravo dasseno. Seu primo moroso?

Ottavio. Sì signore; benchè senza merito, sostengo come posso un tal carico, però a vicenda coll’amico Fiorindok.

Zamaria. Anca vu, sior, sè primo moroso? (a Fiorindo)

Florindo. Sì signore, per obbedirla. Conosco di non meritarlo, ma pure per ventura lo sono.

Zamaria. Caro vecchiol, compatime; fina per far da Pasqualinm sè a proposito, ma per far da primo moroso, sè troppo piccolo.

Florindo. Caro signore, al mondo gli uomini non sono tutti di una statura.

Zamaria. Eh sì, caro vu, tutto quel che volè. Ma come diavolo voleu far scena co sto boccon de donna?12

Florindo. Non vi sarà bisogno, per intenderci, nè che ella si abbassi, nè che io mi alzi.

Zamaria. Via, sè troppo piccolo, sè un stropolo13, no me piasè.

Florindo. Se non piaccio a lei, sarà per me poco male. Sono stato sofferto per cinque anni continui in un altro teatro14, spero che sarò benignamente ascoltato anche in questo.

Zamaria. Volè metter quel teatro con questo?15 [p. 17 modifica]

Florindo. La vastità del teatro esige buona voce, non altezza di personaggio. (alza la voce)

Zamaria. Gh’avè una ose da toro, ma sè troppo piccolo.

Florindo. È curioso questo signor Bragolano. (ad Eleonora)

Eleonora. Bisogna lasciarlo dire. Ve ne sono tanti di questi, che quando s’hanno cacciata una cosa in testa, non vi è rimedio che se la levino.

Zamaria. E vu, siora, chi seu, che no ve cognosso? (a Clarice)

Clarice. Certo che non mi conoscerà. Questa è la prima volta che ho l’onore di montare su queste tavole.

Zamaria. Anca sì che sè la seconda donna?

Clarice. Per servirla.

Zamaria. Oh giusto, gh’aveva curiosità de véderve. Lassè che ve veda mo.

Clarice. Che cosa crede d’aver da vedere? Sono anch’io una donna come le altre.

Zamaria. Eh! no ghe xe miracoli; ma no ghe xe gnanca mal. (osservandola bene)

Clarice. Chi è questo signore? (a Lelio)

Lelio. È uno di questi caporioni di piazza; di quelli che tengono cattedra per le botteghe sui difetti dei commedianti.

Clarice. (Sto fresca io). (da sè) Signore, mi raccomando alla sua protezione: sono una povera principiante.

Zamaria. Gnente, fia, lassè far a mi. Vegnirò coi mi Bragolani e colle mie Bragolane, e ve sbatteremo le man.

Clarice. Delle battute di mano mi preme poco. Nelle botteghe, nei caffè, nella Piazza non vorrei che si dicesse male di me.

Lelio. Non dubitate, signora Clarice, il signor Giammaria è un uomo di garbo, vi darà coraggio.

Zamaria. Ah? cossa diseu? Xe un pezzo che se cognossemo. Xe un pezzo che vu spassizè su ste tole. (a Lelio)

Lelio. Sì signore, e me ne glorio, perchè in ogni tempo sono stato dai benignissimi signori Veneziani generosamente sofferto16 [p. 18 modifica]

Argentina. Oh via, signori, andiamo, che l’ora è tarda.

Zamaria. Oh, vu sè qua colla vostra furia: bru, bru, bru, bru; no voggio che parlè tanto in pressa.n

Argentina. Quando recito, fo il mio dovere. Ora voglio parlare come mi piace.

Zamaria. Poverazza! sè tutta fogo.

Argentina.o Sì, che farò come voi! tutta flemma. (con caricatura)

Zamaria. Vardè che, se no gh’averè giudizio, ve farò bu bu.p

Argentina. Eh già; sarete anche voi uno di quelli che si dilettano di far queste buone grazie. Una cosa mi consola, che se due o tre fanno bu, ve ne sono cento che a quelli gridano: Zitto, baroni.

Zamaria. Oh siora spuzzetta! vardeve ben... Basta, no digo gnente.

Argentina. Eh già, m’imagino che cosa vorrete dire. Noi faremo il nostro dovere. Chi può s’ingegni, e l’universale farà giustizia.17

Zamaria. No la se scalda el figàq, patrona: che doman de mattina no saremo tanti. Parlerò con vu, che gh’ave più giudizio.

Flaminia. Ha da favorire anche di me qualche critica? Si sfoghi.

Zamaria. No, fia, de vu no posso dir mal anca che volesse. Gh’ho un certo impegno per vu, che no posso dir gnente.r

Flaminia. Per altro, se non fosse quest’impegno?...

Zamaria. Diseme, gh’aveu commedie nove?

Flaminia. Ne dimandi agli uomini. Io non parlo.

Zamaria. Cari fioi, no prencipiè colle vostre antigagie. (ad Ottavio)

Ottavio. Noi principieremo con una commedia nuova di carattere, di quella mano medesima che è stata compatita per cinque anni. Otto ne avremo, e forse più, dell’autore medesimo, ma la stagione è lunga: otto o dieci commedie, ancorchè fossero fortunate, non ponno supplire al corso delle nostre recite. [p. 19 modifica]

Zamaria. Perchè no feu de quelle altre? de quelle che xe stampae, e che s’ha da stampar?s

Ottavio. Oh signore, sappiamo il nostro dovere.

Zamaria. Le fa tutti, le podè far anca vu.

Ottavio. A noi crediamo che non ci convenga di farlet.

Zamaria. Eh! mi so come che la xe. Vualtri studiè mal volontiera. Sè avvezzi a lavorar a brazzo. No volè sfadigar.

Ottavio. Perdoni; quanti qui siamo, abbiamo fatto conoscere se lo studiare ci pesa.

Zamaria. Figureve se Pantalon18 e Traccagnin19 vol studiar!

Ottavio. Anche questo è un inganno. Abbiamo fatto a Livorno molte di quelle commedie delle quali vossignoria parla, e l’assicuro che le nostre maschere si sono valorosamente portate.

Zamaria. Co l’è cussì, me ne rallegro. Se pol saver i titoli delle vostre commedie?

Florindo. Oh, i titoli poi non si dicono.

Zamaria. Tasè là, a vu no v’abbado. (a Florindo)

Florindo. Perchè, signore?

Zamaria. Perchè sè piccolo.

Argentina. Presto, presto, a principiare, signori, che sono due ore e mezza20.

Zamaria. Me despiase che averò perso el scagno. Me feu el servizio de lassarme star in scena un pochetto?

Argentina. Già l’ho detto: è uno di quelli che scroccano la porta, danno incomodo sulla scena, e poi dicono male della commedia. (parte) [p. 20 modifica]

Zamaria. Pettegola! Se vegno in scena, pretendo de farve onor.

Florindo. Ma se stasse a me, non ce lo vorrei.

Zamaria. Perchè, patron?

Florindo. Perchè son piccolo. (parte)

Zamaria. Se la rana gh’avesse i denti...

Lelio. Oh via, signore, giacchè non è in maschera, resti se vuole, che è padrone. Ma intendiamoci, se non ha pagato la porta, dia il biglietto al portinaro di scena. (parte)

Zamaria. Oh che caro sior Lelio: xe quarant’anni che vago per tutto senza pagar; el vorria che stassera pagasse.

Ottavio. Se non paga, pazienza; almeno dica bene di noi. (parte)

Zamaria. Se me piaserè, dirò ben.

Eleonora. Dica, signore, sarebbe uno di quelli che sono mandati a vedere che cosa da noi si fa, e che a mezza commedia corrono a portar le nuove?

Zamaria. Mi no son mandà, patrona, mando.

Eleonora. La sua ciera è di essere stramandato. (parte)

Zamaria. Sentì come che i parla, e po i vorrà che se diga ben de lori! Vu, fia mia, me par che siè de bona pasta. Fazzo conto de taccarme a vu. (a Clarice)

Clarice. Signore, ho bisogno io d’attaccarmi, ma a qualche cosa però di forte, non a uno scheletro, come siete voi.u (parte)

Zamaria. Tolè su: nissuna me vol; zira, zira, bisognerà po che casca qua. Ve contenteu che vaga in tel vostro camerin? (a Flaminia)

Flaminia. Padrone, s’accomodi.

Zamaria. Porteve ben. Fe pulito. Stassera xela commedia de carattere?

Flaminia. Sì signore.

Zamaria. Ho gusto da galantomo. No vederemo sempre el Moretto, la Statua e el Spazzacaminv. (parte)

Flaminia. Manco male che mi hanno lasciata sola. Voglio ora [p. 21 modifica] ripassare quei quattro versi che devo dire al pubblico prima d’incominciar la commedia.

Giunto è pure quel dì, che fu sei lune

Sospirato da noi. V’è chi rammenti
Con quai parole sulle scene istesse
L’ultima notte a congedarmi io venni?w
Senza frutto non fur le mie lusinghe.
Eccoci a voi: non di soverchio ardire
Ricolmi il sen, ma di speranza umile.
Quei nuovi studi e quelle foggie nuove
Che sotto scaltra allegoria proposi,
Di vesti al dosso lavorate e tese,
Le abbiam con noi. Ma di piacer con queste
Chi assicurar ci può? Basta una sola
Sicurezza per noi, che ragunati
Siate qui per gradir, non per formare
Confronti odiosi, e giudicar con pena.
Non parlo, no, con chi solea per genio
Colmar di grazie queste scene. I’ parlo
A chi da novità spinto sen venne.
Figli d’Adria felice, illustri, eccelse
Anime generose: in due si fanno
L’opre famose: dagli attori insieme
E dagli amici spettator cortesi.
Noi nell’oprar, voi nel gradir concordi,
Renderassi immortal la gloria nostra.
Attendete da noi l’opera prima;
Noi speriamo da voi grazia e perdono.

Note dell'autore
  1. Questo personaggio era nuovo; non aveva più recitato in Venezia2.
  2. Tamisar, stacciare.
  3. Questa pure si esponeva per la prima volta in Venezia3.
  4. Dopo essere stata per cinque anni a recitare in Venezia, nel teatro detto di Sant’Angiolo, passò ora in questo, unitamente a Fiorindo, marito suo4.
  5. Un comico della truppa medesima, nominato in scena Leandro, eccellente in varie caricature. Parla veneziano, fingendosi esser egli uno della città, abitante nel sestiero detto di San Giovanni in Bragola6.
  6. Il sedere.
  7. Questa ed altre favole eransi sparse per Venezia, nell’estate passata.
  8. Parla di se medesimo.
  9. Questa era la di lui moglie, che faceva la prima donna10.
  10. Parla con Ottavio, che negli anni passati aveva recitato nel teatro di San Giovanni Grisostomo11.
  11. Parte da lui egregiamente fatta nella Putta onorata e nella Buona moglie, tomo IX Commedie del Goldoni, edizione di Firenze e di Pesaro.
  12. Statura grande della prima donna.
  13. Turacciolo.
  14. Leggierissimo difetto di questa brava Servetta.
  15. Lo carica nel suo difetto.
  16. Maniera con cui il parterre insulta i personaggi che sono in odio.
  17. Il fegato.
  18. È sua moglie, come si è detto.
  19. Parla di quelle fatte dall’Autore medesimo negli anni avanti per il teatro detto di Sant’Angiolo.
  20. Convenienza desiderata dall’Autore, ed approvata dai Comici.
  21. Si burla della sua corporatura secchissima.
  22. Solite commedie che diconsi del mestiere.
  23. L’ultima sera del Carnovale passato, l’Autore che dovea intraprendere di scrivere per questa Compagnia, fece dire alla prima donna alcuni versi, nei quali toccavasi il disegno concepito di trapiantare anche in questo teatro il novello gusto delle commedie di carattere, come fu fatto.
Note dell'editore
  1. Nel testo: l’han.
  2. Giuseppe Angeleri, n. a Milano d’onesta famiglia, appena quarantenne, morì all’improvviso in patria nel Luglio seguente, mentre recitava in una commedia di Goldoni, vestito del suo abito di brighella. V. Mémoires di C. G., P. II, c. 22; Fr. Bartoli, Notizie istoriche de’ comici italiani ecc., Padova, 1782; e L. Rasi, I comici italiani, Firenze, vol. I, 1897. A lui succedette sul teatro di S. Luca il bolognese Antonio Martelli.
  3. Caterina Bresciani, fiorentina, che fu seconda donna fino alla partenza della Gandini (autunno 1755), nella presente stagione s’acquistò il nome di famosa Ircana, come vedremo.
  4. Vittoria Falchi, a noi già nota (v. vol. IV, pagg. 86 e 611), conservò il nome di Eleonora passando nel 1753 terza donna nel teatro di S. Luca, com’era a Sant’Angelo.
  5. Tra le varie servette che recitarono a S. Luca, sembra di dover qui riconoscere Felice Bonomi, già vedova forse di Fausto Bonomi, detta Argentina (v. Bartoli cit.).
  6. Pietro Gandini di Verona, abile attore e trasformista (conosciuto dal Goldoni fin dal 1734 nella compagnia Imer del teatro S. Samuele: v. vol. I, p. 101) che nel 1755, come vedremo, passò a recitare con la moglie a Dresda, e quindi a Parigi nel Teatro italiano (cfr. Bartoli) e Rasi).
  7. Che l’accordo tra il Goldoni e il Gandini non fosse perfetto, per causa della prima donna Teresa, si rileva dal cap. 17, P. II, dei Mémoires.
  8. Per il Portogallo era partita in quell’estate la compagnia Casali-Sacchi-Vitalba del teatro di S. Samuele.
  9. Il Gandini mancò poi a’ suoi impegni nel 1735, come vedremo.
  10. Teresa Gandini, ormai cinquantenne, passò nell’autunno del 1755 a Dresda, col marito.
  11. È costui Majani Francesco, di Bologna (padre di Giuseppe, detto Majanino), che il Goldoni aveva conosciuto primo innamorato sul teatro di S. Samuele, nel 1740: v. vol. I, pp. 132 e 134. - I due teatri di S. Samuele e di S. Gio. Grisostomo appartenevano entrambi alla famiglia Grimani e avevano la stessa compagnia comica.
  12. In quello detto di Sant’Angiolo.
  13. Rispetto alla ristrettezza del primo e alla vastità del secondo.
  14. O sia Francesco Falchi, marito di Eleonora, che abbandonò la compagnia Medebach, dove serviva quale secondo innamorato, per seguire il Goldoni a S. Luca. (V. vol. IV, pag. 86).
  15. Maniera di dire affettuosa: vol. III, p. 456, n. a.
  16. Chi sia questo Lelio è difficile poter riconoscere.
  17. Intende ch’egli voglia suscitare partito.
  18. Pantalone era Francesco Rubini, di Mantova, succeduto fin dal 1735 non senza onore sul teatro di S. Luca al celebre Garelli. Morì nella primavera seguente a Genova, dove aveva seguito la compagnia, come vedremo. Fu poi scelto in suo luogo Pietro Rosa, veneziano.
  19. Francesco Cattoli, di Parma, figlio del bolognese Giacinto, che fu pure traccagnino famoso.
  20. Intendasi dopo l’avemaria, che ai 10 di ottobre suona a ore 6 e minuti 7.