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capitolo ventesimoquarto. | 157 |
malore anche una lenta febbre mi ha colto. Panni per coprirmi non ho: e debole, vecchio, assiderato, come poss’io viaggiar tanto in mezzo a neve sì alta? Ma se così pur deve essere....”
Mi rivolsi poscia alla famiglia, ed a quella diedi ordine di ragunare le poche suppellettili che ci restavano, onde immediatamente quel luogo sgombrare. Pregai di far presto, e che mio figliuolo assistesse la Livia, la quale per la conoscenza d’essere ella cagione d’ogni nostra calamità, tutta misvenuta nè d’angoscia più nè di vita dava segno. Poi rincorai mia moglie che smorta e tremante stringeva gli sbigottiti bambini nelle braccia; e quelli muti muti nascondevano gli occhi nel seno della madre, nè ardivano innalzarli al volto degli stranieri. Intanto la più giovane delle fanciulle, da me affrettata, allestì ogni cosa per la partenza; e in men di un’ora tutto fu in punto.
CAPITOLO VENTESIMOQUINTO.
Non v’è stato, per quanto miserissimo sembri, a cui non sia pur compagna qualche sorta di consolazioni.
Abbandonammo finalmente quel pacifico vicinato, prendendo la nostra via a passi lentissimi. Però la maggiore delle figliuole, illanguidita da una continua febbretta che già da alcuni giorni a poco a poco distruggevale la complessione, fu dall’uno de’ bargelli cortesemente presa in groppa d’un suo cavallo; perchè tal razza di gente non sempre è di ogni senso d’umanità svestita. Il mio figliuolo traeva per mano uno de’ piccini, e l’altro tapinello se lo strascinava dietro la madre: ed io camminava appoggiato alla fanciulla minore che piangeva non de’ suoi, ma dei miei mali.
Come ci fummo dilungati dall’umile nostro casile un