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loro che davano a divedere desiderio della mia; perchè se onest’uomo colui, le istruzioni sue m’avrebbero giovato; se cattivo, avrebbe egli potuto profittar delle mie.

Mi venne tosto sentito come quegli non fosse persona letterata, ma sì bene fornita di buon senso e d’alcun sapere, pratica di mondo, come si suol dire, o, per meglio parlare, pratica delle umane ribalderie. Domandommi s’io avessi avuta cura di provvedermi di un letto; al che io non avea neppur posto mente.

“Mal per te,” diss’egli; “perchè non ti si appresta qui che poca paglia, e la tua camera per esser vasta è freddissima. Ma mi sembri uomo di nobile condizione, e tale io m’era un tempo ancor io; però lásciati volentieri da me profferire una parte delle mie coperte da letto.”

Io lo ringraziai, manifestandogli quanto strano mi riuscisse quell’atto sì umano tra le miserie d’una prigione. E per dargli a fiutare un pocolino della mia erudizione, gravemente gli dissi che quel savio antico aveva saputo apprezzare da dovero la dolcezza dell’aver compagni nelle afflizioni quando lasciò scritto, Ton kosmon aire, eidos toon etarioon. “E che è mai in fatti,” soggiunsi io, “il mondo, s’ei non presta che solitudine?”

“Tu parli del mondo,” rispose colui; “ma il mondo vaneggia: e la cosmogonia, o vogliam dire il sistema della formazione dell’Universo, ha imbarazzati i filosofi d’ogni secolo. Qual guazzabuglio d’opinioni non hanno eglino disseminate intorno alla creazione del mondo! Sanconiatone, Maneto, Beroso e Ocello Lucano si stillarono su di ciò invanamente il cervello. L’ultimo ha queste parole, anarkon ara kai ateleutaion to pan, le quali significano....”

“Padron mio, perdona,” diss’io, “se t’interrompo tanta dottrina; ma e’ mi pare d’averla già ingozzata un’altra volta. Non ebbi io forse la fortuna d’incontrarti un giorno alla fiera di Welbridge, e non t’appelli tu Efraimo Jenkinson?” Egli mandò un sospiro. “Ti dovre-