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capitolo ventesimoquinto. 159


All’entrare ivi, si fece alto ad un’osteria dove, per quanto la fretta lo permise, ordinai che s’apprestasse conveniente rifocillamento: e cenando colla mia famiglia mantenni l’usata piacevolezza ed ilarità. Come ebbi veduto essersi per quella notte provveduta discreta stanza a’ miei, me ne andai col bargello alla carcere. Era un edificio destinato altre volte a servigi di guerra; e consisteva in una vasta sala chiusa con enormi ferriate, lastricata di pietre, e la quale per alcune ore del giorno era comune ad ogni sorta di prigionieri fosse per fellonia o per debiti. Oltre di che, a ciascuno era data una separata cella in cui lo si serrava la notte con chiavistello.

Nel por piede là dentro, stimava io di non dovervi udire che un piangere, un lamentare diverso e miserabilissimo. Ma fu tutt’altro; perocchè i carcerati, come tutti da un solo desiderio animati, parevano seppellire nel far galloria e schiamazzo ogni pensiero. Impaurito io pel modo brusco col quale mi si cercò per loro l’emolumento solito cavarsi dall’ultimo sgraziato che giunga, immediatamente lo pagai, ancorchè avessi quasi dato fondo oramai alla borsellina. Quindi la moneta che mi si smunse fu tosto convertita in acquavite; e tutta la prigione rintronò di sghignazzate, di badalucchi e bestemmie.

Era stupore all’anima mia il vedere come gente cotanto malvagia fosse così gioviale, e tristo io per lo contrario a cui nulla cosa era con essi di comune dalla prigionia in fuori; perchè a me ben più che a loro si addiceva per mille ragioni la contentezza e la pace del cuore. Vinto da così fatti pensieri, io incitava me stesso alla giocondità. Ma per isforzi non si produce mai gioia; chè ogni sforzo è di sua natura medesima penoso. Me ne stava quindi taciturno e seduto in un canto della prigione; quando uno dei miei compagni a me avvicinatosi, si sdraiò al mio lato per conversar meco. Regola costante della mia vita ella era di non fuggire mai la conversazione di co-