Il tulipano nero/Parte seconda/IV
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IV
Ciò che era accaduto negli otto giorni.
Difatti la sera del giorno appresso all’ora solita Van Baerle intese picchiettare alla sua graticola, come era solito fare la bella Rosa ne’ bei giorni della loro amicizia.
S’intende che Cornelio non fosse molto lontano dalla porta, attraverso alla cui ferriatella rivedeva finalmente la graziosa figura da troppo lungo tempo scomparsa.
Rosa che l’aspettava col lume in mano, non potè trattenere un movimento quando ella vide il prigioniero così pallido e così tristo.
— Voi siete malato, signor Cornelio, ella dimandò?
— Sì madamigella, rispose Cornelio, malato di spirito e di corpo.
— Ho visto, o signore, che non mangiavate più disse Rosa; mio padre mi ha detto, che non vi alzavate più; e allora vi ho scritto per tranquillizzarvi sulla sorte del prezioso oggetto delle vostre inquietudini.
— Ed io, disse Cornelio, vi ho risposto. Io credeva, vedendovi ritornare, mia cara Rosa, che voi aveste ricevuto la mia lettera.
— Difatti l’ho ricevuta.
— Non addurrete la scusa questa volta che non sapete leggere. Non solo leggete speditamente, ma avete ancora incredibilmente profittato rapporto allo scritto.
— Difatti ho non pur ricevuto ma letto il vostro biglietto. È ben per questo che sono venuta per vedere se fossevi qualche rimedio atto a rendervi la salute.
— A rendermi la salute! esclamò Cornelio; ma che avete dunque qualche buona nuova a darmi?
E così dicendo, il giovine ficcò su Rosa due occhi brillanti di speranza.
Ossia ch’ella non comprendesse quello sguardo ossia che non lo volesse comprendere, la giovanetta rispose con gravità:
— Ho solamente a parlarvi del vostro tulipano, che è, lo so bene, la più grave vostra preoccupazione; Rosa pronunziò queste poche parole con un accento ghiacciato che fece rabbrividire Cornelio.
Lo zelante tulipaniere non comprendeva mica ciò che nascondesse sotto il velo della indifferenza la povera ragazza sempre alle prese con la sua rivale, il tulipano nero.
— Ah! mormorò Cornelio, e batti e batti! Ma mio Dio! non vi ho detto, o Rosa, che io non penso che a voi, che eravate voi sola che io rimpiangeva, voi sola, di cui sento la privazione, voi sola che pel vostro allontanamento mi toglievate l’aria, il giorno, il calore, la luce, la vita insomma?
Rosa sorrise melanconicamente, e disse:
— Eh! il vostro tulipano ha corso un grave pericolo!
Cornelio si scosse suo malgrado, e lasciossi prendere al laccio, seppure egli era.
— Un grave rischio! esclamò tutto tremante; mio Dio! e quale?
Rosa riguardollo con dolce compatimento; sentiva che quello, che ella vorrebbe, era al di sopra delle forze di costui, e che bisognava prenderselo con quella sua debolezza.
— Sì, diss’ella; voi deste proprio nel segno; il pretendente, l’amoroso, quel Giacobbe non veniva mica per me.
— E per chi dunque? dimandò Cornelio con ansietà.
— Pel tulipano.
— Oh! fece Cornelio impallidendo a tal nuova più assai che non impallidì, quando Rosa ingannatasi aveagli giorni fa annunziato che Giacobbe venisse per lei.
Rosa vide quello spavento, e Cornelio si accorse alla espressione del di lei viso che ella pensava ciò che andiamo a dire.
— Oh! perdonatemi, o Rosa diss’egli; vi conosco e so la bontà e l’onestà del cuor vostro. Dio avvi donato il pensiero, il giudizio, la forza e il movimento per difendervi, ma al mio povero tulipano minacciato, Dio niuna di tali cose ha concesso.
Rosa non degnò di risposta questa scusa del prigioniero, e continuò:
— Dacchè quell’uomo, che mi aveva seguito in giardino, e che io aveva riconosciuto per Giacobbe, v’inquietava, e inquetava me più ancora, fissai dunque far ciò che mi diceste, il giorno appresso in cui vi vidi per l’ultima volta, e in cui mi diceste.....
Cornelio la inerruppe:
— Perdono, ancora una volta, o Rosa! esclamò. Ciò che vi dissi ebbi torto a dirvelo; vi ho chiesto già perdono di quella parola fatale, e ve lo ridomando ancora. Non mi esaudirete mai?
— Il giorno appresso, riprese Rosa, richiamandomi alla mente tutto quello che mi avevate detto.... dell’astuzia da mettersi in opera per assicurarmi, se me o il tulipano seguisse quell’odiosa creatura....
— Sì, odiosa... Mi pare, soggiunse, che l’odiate a dovere?
— Sì, l’odio, rispose Rosa, perchè gli è cagione di quanto ho sofferto in questi otto giorni!
— Ah! voi pure avete sofferto? Grazie, o Rosa, di questa buona parola.
— Il giorno appresso di quel giorno sfortunato, continuò Rosa, scesi dunque in giardino, e mi avanzai verso la casella, dove io dovea piantare il tulipano, guardandomi dietro con la coda dell’occhio, se questa come l’altra volta egli mi seguisse.
— Ebbene? domandò Cornelio.
— Ebbene! la medesima ombra strisciossi tra la porta e il muro, e disparve ancora dietro i sambuchi.
— Figuraste di non vederlo, ci s’intende? dimandò Cornelio, rammentandosi in tutti i suoi dettagli il consiglio che avea dato a Rosa.
— Già, e mi piegai sulla casella, che bucai con un cavicchio, come se io vi piantassi il tallo.
— E lui..... lui..... in quel frattempo?
— Vedevagli brillare gli occhi ardenti come quelli di un tigre attraverso le frasche.
— Vedete voi? vedete voi? disse Cornelio.
— Poi facendo finta d’aver finito, mi ritirai.
— Ma solo dietro la porta del giardino, eh? Dimodochè dalle fessure o dal buco della chiave voi poteste vedere, una volta partita, ciò ch’egli facesse.
— Aspettò un momento senza dubbio per assicurarsi che io non ritornassi; poi escì fuori a passo di lupo, si avvicinò alla casella con un lungo giro: poi giunse alfine alla sua meta, cioè di faccia al punto dove la terra era di fresco smossa, si arrestò con aria indifferente, girò il guardo attorno, interrogò ciascun angolo del giardino, interrogò ciascuna finestra delle case vicine, interrogò la terra, il cielo, l’aria, credendo di essere affatto solo, affatto isolato, affatto fuori di vista a chicchessia, precipitossi sulla casella, cacciò le sue due mani nella terra molle, levonne una porzione, che sbriciolò delicatamente tra le sue mani per vedere se vi si trovasse il tallo, ricominciò per tre volte la stessa faccenda, ed ogni volta con una azione più ardente fino a che, cominciando a comprendere di essere uccellato, si ricompose, benchè roso dalla stizza, prese la zappa, spianò il terreno per lasciarlo nel medesimo stato in cui trovavasi, prima che lo rimescolasse, e tutto arrabbiato, tutto sbuffante, riprese il cammino verso la porta, affettando l’aria innocua di un ordinario passeggiatore.
— Oh! disgraziato! mormorò Cornelio asciugandosi le gocce di sudore che gli sgorgavano dalla fronte. Oh! disgraziato! io l’avevo indovinato. Ma del tallo, o Rosa che ne avete fatto? Ahimè! è già un pochetto tardi per piantarlo.
— Il tallo è da sei giorni che gli è in terra.
— Dove? come? esclamò Cornelio. Oh! mio Dio! che imprudenza! Dove? in qual terra? A buona o cattiva esposizione? Non c’è pericolo che ce lo rubi quell’assassino di Giacobbe?
— Non e’ è pericolo che sia rubato, a meno che Giacobbe forzi l’uscio di camera mia.
— Ah! è presso voi, è in camera vostra, o Rosa, disse Cornelio un poco tranquillizzato. Ma in qual terreno? in qual recipiente? Non lo fate germogliare nell’acqua, come le buone donne di Harlem e di Dordrecht, che s’incapano a credere che l’acqua sia un succedaneo della terra, come se l’acqua, che è composta di 33 centesimi di ossigeno e di 66 di idrogeno, potesse rimpiazzare..... Ma cosa vi dico mai?
— A vero dire, l’è troppa scienza per me, rispose sorridendo la giovanetta. Mi contenterò dunque di rispondervi per tranquillizzarvi, che il vostro tallo non è nell’acqua.
— Ah! respiro.
— È in un vaso di terra cotta, della larghezza giusta della brocca, dove voi avevi interrato il vostro; gli è in un terreno composto di tre quarti di terra ordinaria presa nel miglior punto del giardino e d’un quarto di terra di belletta di via. Oh! l’ho inteso dire così spesso da voi e da quell’infame di Giacobbe, come voi lo chiamate, in qual terra deve spuntare il tulipano, che lo so come il primo gardiniere di Harlem!
— Ora ah! ci resta l’esposizione. A quale è, Rosa.
— Ora tutta la giornata è al sole, quando c’è; ma quando il tulipano sarà spuntato dalla terra e quando il sole sarà più caldo, farò, caro signore Cornelio, come facevi qui voi. L’esporrò sulla mia finestra di ponente dalle tre pomeridiane alle cinque.
— Oh! così, così! esclamò Cornelio; voi siete un perfetto giardiniere, mia bella Rosa. Ma or che ci penso, la cultura del mio tulipano occuperà tutto il vostro tempo.
— Sì, gli è vero, disse Rosa; ma che importa? II vostro tulipano è mio figlio; gli consacro tutto il tempo che spenderei per un mio bambino, se io fossi madre. Solo col divenire sua madre, soggiunse Rosa sorridendo, posso cessare di essergli rivale.
— Buona e cara Rosa! mormorò Cornelio, gettando sulla giovanetta uno sguardo, dov’era più dell’amante che dell’orticultore, e che consolò un poco Rosa.
Poi dopo un momento di silenzio, intantochè Cornelio aveva cercato per le aperture della graticola la mano fuggitiva di Rosa, riprese:
— Cosicchè son già sei giorni che il tallo è in terra?
— Sì, sei giorni, signor Cornelio, rispose la giovinetta.
— E ancora non si mostra?
— No, ma credo che domani spunterà.
— Dimani sera mi darete le sue nuove con le vostre, non è vero, Rosa?.... M’inquieto bene del figlio come ancora dicevate; ma m’inquieto ben più della madre.
— Dimani, disse Rosa, guardando Cornelio con la coda dell’occhio, dimani non so se potrò.
— Eh! mio Dio! esclamò Cornelio, perchè mai non potrete dimani?
— Signor Cornelio, ho mille cose a fare.
— Mentre che io non ho che una, mormorò Cornelio.
— Già, rispose Rosa; amare il vostro tulipano.
— Voi, o Rosa.
Rosa scosse la testa: e si rifece silenzio.
— Finalmente, continuò Cornelio, rompendo il silenzio, tutto si cangia nella natura; ai fiori di primavera succedono altri fiori, e vedonsi le api che carezzano teneramente le mammolette e le garofanate, posarsi col medesimo amore sul caprifoglio, le rose, i gelsomini, i crisantemi e il giranio.
— Che vuol dir ciò? dimandò Rosa.
— Ciò vuol dire, mia signorina, che voi avete dapprima amato sentire il racconto delle mie gioie e delle mie angoscie; avete carezzato il fiore della nostra reciproca giovinezza: ma la mia si è appassita all’ombra. Il giardino delle speranze e dei piaceri di un prigioniero non ha che una stagione; che non è come i bei giardini all’aria aperta ed al sole. Una volta la messe fatta, una volta la preda presa, le api come voi, o Rosa, le api dal corpo delicato, dai pennoncelli d’oro, dalle ali trasparenti, attraversano i cancellati, fuggono il freddo, la solitudine e la tristezza per andare a trovare altrove i profumi e le tepide esalazioni.... la contentezza, infine!
Rosa guardava Cornelio con un sorriso, che egli non vedeva; perchè avea gli occhi verso il cielo.
Egli continuò con un sospiro.
— Mi avete abbandonato, o Rosa, per avere le vostre quattro stagioni di piacere. Avete fatto bene non me ne lagno; qual diritto aveva io di esigere la mostra fedeltà?
— La mia fedeltà? esclamò Rosa tutta piangente e senza la pena più a lungo di nascondere a Cornelio la rugiarda di perle che le scorrevano sulle guance: la mia fedeltà! che non vi sono stata fedele, io?
— Ahimè! si chiama essermi fedele, esclamò Cornelio, e poi abbandonarmi e lasciarmi qui morire?
— Ma, signor Cornelio, disse Rosa, non faccio tutto quello che possa farvi piacere? Non mi occupo io del vostro tulipano?
— La sola gioia ch’io mi abbia provata al mondo senza che sia stata intorbidita dall’amarezza, voi me la rimproverate, o Rosa!
— Non vi rimprovero nient’altro, signor Cornelio, se non l’affanno profondo che io provo dal giorno che mi si venne a dire al Buitenhof, che voi andavate ad essere giustiziato.
— Vi dispiace, o Rosa, mia cara Rosa, vi dispiace dunque che io ami i fiori.
— Non mi dispiace che voi li amiate, signor Cornelio, ma mi attrista bensì che li amiate a preferenza di me.
— Ah! cara, carissima creatura, esclamò Cornelio; guardale come tremano le mie mani, come la mia fronte è pallida; ascoltate, ascoltate come batte forte il mio cuore. Ebbene non è mica perchè mi sorrida e mi appelli il mio tulipano nero: è perchè voi mi sorridete, è perchè voi piegate verso di me la vostra fronte, è perchè, — e io so se l’è vero, — perchè, quantunque le fuggano, le vostre mani aspirano alle mie, è perchè io sento il calore delle vostre guancie dietro la fredda graticola di ferro. Rosa, mio amore, spezzate il tallo del tulipano nero, distruggete la speranza di questo fiore, spengete la dolce luce del casto e delizioso sogno che ogni giorno abitualmente io faceva; sia pure! i fiori dalle ricche spoglie, dalle grazie eleganti, dai capricci divini, sì toglietemeli tutti, o fiore geloso degli altri fiori, sì toglietemeli tutti, ma non mi togliete la vostra voce, il vostro gesto, lo strepito de’ passi vostri su per la trista scala; deh! non mi togliete il fuoco degli occhi vostri per lo scuro corridoio, la certezza del vostro amore che perpetuamente carezzerà questo mio cuore. Amatemi, o Rosa, perchè io non posso amare che voi.
— Dopo il tulipano nero! sospirò la giovanetta, le cui mani calduccie e carezzevoli passate alla fine a traverso alle sbarrette di ferro erano sotto le labbra di Cornelio.
— Prima di tutto, o Rosa....
— Che vi debbo credere?
— Come credete in Dio.
— Sia, ma ciò non vi obbliga ad amarmi molto?
— Troppo poco, pel volere, mia cara Rosa, ma obbliga pur voi.
— Me? dimandò Rosa; e mi obbliga a che?
— A non potervi maritare prima di tutto.
Ella sorrise dicendo:
— Ah! ecco come siete tiranni voialtri. Voi adorate una bella: non pensate che a lei, non sognate che lei; siete condannato a morte: andando al patibolo le consacrate il vostro estremo sospiro, ed esigete da me povera meschina il sacrifizio de’ miei sogni, della mia ambizione.
— Ma di qual bella mi parlate voi, o Rosa? disse Cornelio cercando, ma inutilmente, nelle sue rimembranze una donna alla quale Rosa potesse fare allusione.
— Della bella nera, signore, della bella nera dalla forma svelta, dal piè sottile, dalla testa dignitosa. Parlo del vostro fiore, non mi capite?
Cornelio sorrise.
— Bella immaginaria, mia buona Rosa, mentre voi, senza contare il vostro amoroso Giacobbe, o per dir meglio, il mio, voi siete attorniata di patiti, che vi fanno la corte. Rammentatevi, o Rosa, ciò che mi avete detto degli studenti, degli officiali, dei commessi dell’Aya? Ebbene! a Loevestein non sonvi commessi, officiali, studenti?
— Oh! ve ne sono, e come! disse Rosa.
— Che scrivono?
— Sicuro.
— E ora che sapete leggere....
E mandò un sospiro, pensando, che Rosa doveva a lui, povero prigioniero, il privilegio di saper leggere i bigliettini amorosi, che ella riceverebbe.
— Ma, signor Cornelio, mi pare, disse Rosa, che leggendo i bigliettini, che mi sono scritti, e adocchiando li zerbini, che mi fanno la ronda, io non faccia che seguire le vostre istruzioni.
— Come le mie istruzioni?
— Già, le vostre istruzioni! Fate lo scordato, continuò Rosa, sospirando la sua volta, fate voi a scordato del testamento scritto da voi sulla Bibbia del signor Cornelio de Witt? Non me ne scordo mica io; perchè ora che so leggere, lo rileggo tutti i giorni, e non una, ma spesso due volte. Ebbene! In quel testamento voi mi ordinate di amare e di sposare un bel giovine da ventisei ai ventotto anni. Io lo cerco questo giovine; e siccome tutta la giornata la consacro al vostro tulipano, bisogna bene che mi lasciate la sera per trovarlo.
— Ah! Rosa, il testamento è fatto nella previsione della mia morte, e grazie al cielo io sono vivo.
— Ebbene! dunque non cercherò più il ben giovine dai ventisei ai ventotto anni, e verrò a veder voi.
— Brava, Rosa? sì, sì; venite!
— Ma a una condizione.
— L’ho già accettata!
— Che per tre giorni non si parli del tulipano nero.
— Non se ne parli più, se così vi piace.
— Oh! disse la giovanetta, non bisogna mai chieder l’impossibile.
E come per sbadataggine ella appressò la sua fresca guancia così presso alla graticola, che Cornelio la potè sfiorare con le labbra.
Rosa diè uno strillo sommesso mandato dal cuore, e ratto disparve.