Il tulipano nero/Parte seconda/I
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I
Primo Tallo.
Allora cominciò tra il maestro e la scolara una di quelle scene piacevoli che fanno la gioia dei romanzieri quando abbiano la fortuna che si abbattino sotto la loro penna.
La graticola, sola apertura che servisse di comunicazione ai due amanti, l’era troppo alta perchè persone che finallora eransi contentate di leggersi sul viso tutto ciò che aveano a dirsi, potessero comodamente leggere sul libro che Rosa aveva portato.
In conseguenza la giovinetta dovè appoggiarsi alla graticola, con la testa piegata, col libro all’altezza del lume, che ella teneva con la diritta, e che per riposarla un poco Cornelio immaginò di fissare con un fazzoletto a una traversa di ferro. D’allora Rosa potè seguire con un dito sul libro le lettere e le sillabe che facevale rilevare Cornelio, il quale provvisto di un filo di paglia a guisa d’indicatore designava le lettere da un buco della graticola alla sua attenta scolara.
Il chiarore del lume rischiarava i ricchi colori di Rosa, il suo occhio turchino e profondo, le sue bionde trecce sotto la cuffietta d’oro brunito, che, come abbiamo detto, serve di acconciatura alle Frisone; le sue dita tese da cui il sangue scendeva, prendevano un tuono pallido rosa risplendente dicontro al lume e indicante la vita misteriosa, che vedesi circolare sotto le carni.
L’intelligenza di Rosa sviluppavasi rapidamente sotto il contatto vificatore dello spirito di Cornelio; e quando la difficoltà compariva troppo ardua, gli occhi spinti negli occhi, le ciglia a contatto delle ciglia, i capelli congiunti ai capelli, tramandavano tali elettriche scintille capaci di rischiarare le tenebre stesse dell’idiotismo.
E Rosa, scesa nella sua stanza, ripassava sola nella mente sua le lezioni di lettura, e nella sua anima contemporaneamente le non confesse lezioni di amore.
Una sera venne più tardi del solito una mezzora. Gli era un caso troppo grave perchè Cornelio non s’informasse prima di tutto della causa del ritardo.
— Oh! non mi sgridate, disse la giovinetta; non ci ho colpa. Mio padre ha rinnovato la sua conoscenza a Loevestein con un buonomo, che era venuto frequentemente all’Aya a sollecitarlo per vedere la prigione. È un buon diavolo, amicone del fiasco, e narratore di graziose istorielle, e di soprappiù largo di tasca da non mai ricusare lo scotto.
— Non lo conoscete per altro? domandò Cornelio sorpreso.
— No; solo da circa quindici giorni mio padre è affollato dalle assidue visite di questa nuova conoscenza.
— Oh! disse Cornelio scuotendo la testa con inquietudine (avvegnachè ogni nuovo avvenimento gli presagisse una catastrofe) qualche spia del genere di quelli, che si mandano nelle fortezze per sorvegliare insieme prigionieri e custodi.
— Non lo credo affatto, rispose sorridendo Rosa; se questo bravuomo spia qualcheduno, non è certo mio padre.
— E chi allora?
— Me, per esempio.
— Voi?
— Perchè no? disse Rosa sorridendo.
— Ah! gli è vero, riflettè sospirando Cornelio; voi non avrete, Rosa, sempre dei vani pretendenti: costui può divenir vostro marito.
— Non dico di no.
— E su che fondate questa gioia?
— Dite signor Cornelio, questa paura.
— Grazie, Rosa, perchè avete ragione; questa paura.....
— La fondo su questo.....
— Vi ascolto proseguite.
— Costui era già venuto più volte al Buitenhof all’Aya; e guardate, appunto quando vi fosti recluso. Io allontanata, e lui pure; io qui, e lui qui. All’Aya prendeva per pretesto di volervi vedere.
— Vedere, me?
— Oh! certo, pretesto, perchè oggi ancora che potrebbe far valere la medesima ragione, dappoichè siete ridivenuto il prigioniero di mio padre, o piuttosto che mio padre è ridivenuto vostro carceriere, non ricerca più di voi; ma bene al contrario jeri l’intesi dire a mio padre che non vi conosce niente affatto.
— Continuate, o Rosa, ve ne prego, che io mi picco d’indovinare chi sia e che voglia costui.
— Siete sicuro, signor Cornelio, che nessuno dei vostri si possa interessare per voi?
— Non ho amici, o Rosa, fuorchè, la mia balia, che ormai siete di conoscenza. Ahimè! la povera Zug senza finzione verrebbe da sè, e piangendo direbbe a vostro padre o a voi: «Caro signore, o cara signorina, il mio figlio è qui, vedete come io sono disperata, lasciatemelo vedere solamente per un’ora, e per tutta la mia vita pregherò Dio per voi». Oh! no, continuò Cornelio, oh! no, a meno della mia buona Zug, non ho amici al mondo.
— Io torno dunque al mio primo pensiero e tanto più che ieri al tramontare del sole, essendo io a preparare la casella per dove piantare il vostro tallo, vidi un’ombra che per la porta socchiusa strisciavasi dietro i sambuchi e gli albereti. Feci finta di non vedere, ma gli era il nostr’uomo. Si nascose, vedendomi rivoltare la terra; e certo era bene io che egli seguiva, che egli spiava. Io non diedi un colpo di rastro, non toccai un briciolo di terra che egli non guardasse con tanti di occhi.
— Oh! sì, sì, gli è un amoroso, disse Cornelio. È giovine, bello?
E fissò avidamente Rosa aspettando con impazienza la di lei risposta!
— Giovine! bello? esclamò Rosa dando in uno scoppiò di risa. Gli è orrendo di viso, ripiegato di corpo, di cinquant’anni di età, e si vergogna guardarmi e parlare a voce alta.
— E si chiama?
— Giacobbe Gisels.
— Non lo conosco.
— Vedete bene che dunque non viene per voi!
— In ogni caso se v’amasse, o Rosa, il che è ben probabile, perchè vedendovi bisogna amarvi, non l’amereste voi?
— Oh! no, dicerto!
— Voi volete che mi tranquillizzi, non è vero?
— Vi c’impegno.
— Ebbene! Or che cominciate a saper leggere, voi leggerete, o Rosa, tutto, ciò che io vi scriverò, non è così? su i tormenti della gelosia e su quelli della lontananza.
— Se scriverete grosso, leggerò.
Poi siccome il giro che prendeva la conversazione, cominciava ad inquietare Rosa, diss’ella:
— A proposito come va il vostro tulipano?
— Rosa, figuratevi la mia gioia: stamattina guardavalo al sole; dopò aver leggermente scansato lo strato di terra che cuopre il tallo, ho visto spuntare la gemma del primo boccio. Ah! Rosa il mio cuore si è liquefatto per la gioia: quell’impercettibile bottone biancastro, cui un’ala di mosca sfiorando romperebbe, quella dubbiosa esistenza, che rivelasi per insensibile testimonianza, mi ha più commosso della stessa ordinanza di sua Altezza, che con l’arrestare la scure del carnefice rendevami la vita sopra il palco del Buitenhof.
— Sperate dunque? disse Rosa sorridendo.
— Oh! sì, spero!
— Ed io alla mia volta quando pianterò il mio tallo?
— Alla prima giornata favorevole, ve lo dirò io; ma soprattutto non vi fate aiutare da nessuno, soprattutto non confidate il vostro segreto a chicchessia, che un amatore, vedete, sarebbe capace nulla più che alla sola ispezione del tallo, conoscerne il suo valore; soprattutto, o mia Rosa, soprattutto serrate diligentemente la terza cipolletta, che ancora vi resta.
— È ancora, signor Cornelio, nel medesimo foglio, dove voi lo avete messo, e tale e quale me lo avete dato, rincantucciato tutto in fondo della cassetta sotto i miei merletti, che tengonlo all’asciutto senza schiacciarlo. Ma addio povero prigioniero.
— Come! di già?
— Per forza.
— Venire così tardi, e partire così presto!
— Mio padre potrebbe impazientirsi non vedendomi tornare; l’amoroso potrebbe sospettare di avere un rivale.
E intanto ella inquieta stava in ascolto.
— Che cosa avete? domandava Van Baerle.
— Mi par di sentire....
— Che cosa?
— Un che di stropiccio sommesso di piedi per le scale.
— Non può essere Grifo, disse il prigioniero, che si sente da lontano.
— Non può essere mio padre, ne sono certa, ma....
— Ma..... che?
— Potrebb’essere Giacobbe.
Rosa si precipitò verso la scala, e s’intese nel tempo stesso un uscio che si richiuse rapidamente prima che la giovinetta fosse discesa i primi dieci scalini.
Cornelio rimase molto inquieto, ma non era che per lui un preludio.
Quando la fatalità comincia un’opera cattiva, egli è ben raro che non prevenga caritatevole la sua vittima come uno spadaccino fa del suo avversario per dargli l’agio di mettersi in guardia.
Quasi sempre cotali avvisi, i quali emanano dall’istinto dell’uomo o dalla complicità degli oggetti inanimati, spesso meno inanimati di quello che generalmente si creda, quasi sempre, ripetiamolo, cotali avvisi sono negletti. Il colpo ha fischiato per l’aria, e cade sopra una testa che tal romba doveva avvertire, e che avvertita doveva premunirsi.
Il domani passò senza che cosa rimarchevole avvenisse. Grifo fece le sue tre visite, e niente scoperse. Quando egli sentiva venire il suo carceriere (e Grifo nella speranza di sorprendere i segreti del suo prigioniero non veniva mai alla stessa ora) quando sentiva il suo carceriere, con l’aiuto di un macchinismo, che Van Baerle aveva inventato, e che rassomigliava a quelli per mezzo dei quali si salgono e si scendono i sacchi del grano nelle fattorie, Van Baerle aveva immaginato la maniera di calare il suo vaso prima sulla gronda di tegoli e poi su quella di pietra che sporgeva sopra la sua finestra. Quanto alle funicelle per mezzo delle quali operavasi il movimento, il nostro meccanico aveva trovato un mezzo di nasconderle colla borraccina che vegetava sulle tegole e nei fessi delle pietre.
Grifo non poteva scorger nulla.
Questa manuvra riuscì per otto giorni.
Ma una mattina che Cornelio assorto nella contemplazione del suo tallo, da cui lanciavasi già un punto di vegetazione, non aveva sentito salire il vecchio Grifo (giorno che tirava gran vento, e buffava nella torricella), la porta si aperse ad un tratto e Cornelio fu sorpreso col suo vaso tra’ suoi ginocchi.
Grifo vedendo un oggetto sconosciuto e per conseguenza proibito in mano al suo prigioniero, precipitossi su quell’oggetto più rapidamente che non faccia il falcone sulla sua preda.
Il caso o la destrezza, che il cattivo spirito fatalmente sempre accorda agli esseri malefici, fece che la sua callosa manona si cacciasse di botto nel bel mezzo del vaso sulla porzione di terriccio depositario della preziosa cipolletta stringendolo sì forte al polso, che Van Baerle aveagli saggiamente opposto.
— Che cosa avete costì? disse Grifo: vi ci ho preso.
E cacciò la sua mano dentro la terra.
— Io? niente, niente! esclamò Cornelio tutto tremante.
— Ah! vi ci ho preso! Un vaso con della terra! avvi qualche colpevole segreto nascosto qui dentro!
— Caro signor Grifo, disse supplichevole Van Baerle come una pernice cui il mietitore abbia sorpreso il suo nido.
Difatti Grifo cominciava a gettare all’aria la terra con le sue mani birnoccolute.
— Signore, signore! adagio! disse Cornelio impallidendo.
— A che? affè di Dio! a che? urlò il carceriere.
— Adagio! vi dico; voi l’uccidete!
E con un rapido movimento, quasi da disperato, strappò dalle mani del carceriere il vaso, cui egli nascose come un tesoro sotto la salvaguardia delle sue braccia.
Ma Grifo caparbio come un vecchio, e sempre più convinto d’avere scoperto una cospirazione contro il principe d’Orange, Grifo avventossi al suo prigioniero col bastone alzato, ma vedendo l’impassibile fermezza del recluso risoluto a proteggere il suo fiore piantato, si avvide che Cornelio tremava meno per la sua testa che pel suo vaso.
Cercò dunque di strapparglielo a viva forza, dicendo furibondo:
— Ah! vedete bene, che vi ribellate.
— Lasciatemi il mio tulipano! gridava Van Baerle.
— Sì, sì, il tulipano, replicava il vecchio. Si conoscono tutte le furberie dei signori prigionieri.
— Ma io vi giuro....
— Lasciatemelo, ripeteva Grifo, battendo i piedi; lasciatelo, o chiamo la guardia.
— Chiamate chi diavol volete, ma non avrete che con la mia vita questo povero fiore.
Grifo arrovellato cacciò per la seconda volta le sue dita nella terra, e questa volta tirò fuori il tallo tutto nero, e intanto che Van Baerle felice per aver salvato il contenente, non immaginavasi che il suo avversario possedesse il contenuto, Grifo gettò via violentemente il tallo ammorbidito, che s’infranse sul mattonato e quasi sul subito disparve spiaccicato sotto li scarponi del carceriere.
Van Baerle vide lo sterminio, scorse gli umidi avanzi, comprese la gioia feroce di Grifo e cacciò un urlo di disperazione che avrebbe intenerito quel carceriere assassino, che alcuni anni prima aveva ammazzato il ragno di Pellico.
L’idea di finire quell’uomo spietato passò come un lampo attraverso il cervello del Tulipaniere. Il fuoco e il sangue montarongli insieme alla testa e lo acciecarono; alzò a due mani il vaso pesante di tutta la terra che ormai conteneva, e un solo istante di più avrebbelo lanciato sul cranio calvo del vecchio Grifo.
Un grido arrestollo, un grido di pianto e di angoscia, che cacciò di dietro ai carceriere dalla graticola la povera Rosa, pallida, tremante, con le braccia alzate verso il cielo e interposte tra il padre e l’amico.
Cornelio lasciossi cadere il vaso che s’infranse in mille pezzi con un fracasso spaventevole. E allora Grifo comprese il pericolo che aveva corso, onde scese a terribili minacce.
— Oh! bisogna, gli disse Cornelio, che voi siate un uomo ben vile e ben perverso, per strappare a un povero prigioniero la sua unica consolazione, una cipolletta di tulipano!
— Olà! babbo mio, soggiunse Rosa, gli è un delitto che voi avete commesso.
— Ah! siete voi fanciulla! gridò rivolgendosi verso la figlia il vecchio tutto bollente di collera, mischiatevi de’ fatti vostri, e prima di tutto scendete al più presto.
— Infelice! infelice! continuava Cornelio disperato.
— Alla fin dei conti non è che un tulipano, soggiunse Grifo un po’ piccato. Vi se ne darà quanti volete, dei tulipani; ne ho da trecento nel mio stanzone.
— Oh diavolo! i vostri tulipani! esclamò Cornelio. Essi per voi hanno un prezzo, e li apprezzate. Oh! corpo di mille milioni! se li avessi io, li darei per quello che avete schiacciato così.
— Ah! ah! fece Grifo trionfante. Vedete bene che non è il tulipano che vi preme. Vedete bene che eravi in quella falsa cipolletta qualche stregoneria, un mezzo forse di corrispondenza coi nemici di Sua Altezza che vi ha fatto grazia. Lo diceva ben’io che ebbe gran torto a non farvi scorciare il collo.
— Babbo mio! babbo mio! esclamò Rosa.
— Ebbene! tanto meglio! tanto meglio! ripeteva Grifo animandosi, l’ho distrutto, sì l’ho distrutto. Ogni qualvolta ricomincerete, e io da capo! Ah! vi avevo prevenuto, mio caro amico, che aveivi resa la vita dura.
— Maledizione! maledizione! urlò Cornelio tutto disperato, rivolgendo con le sue dita tremanti gli ultimi vestigi del tallo, cadavere di tante gioie e di tante speranze.
— Dimani noi pianteremo l’altro, mio caro Cornelio, disse sottovoce Rosa che comprendeva tutto l’immenso dolore del tulipaniere, e che gettò, cuore angelico, questa dolce parola come una goccia di balsamo sulla sanguinante ferita di Cornelio.