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98 | emilio salgari |
datteri selvaggi e di euforbie. Il luogo pareva deserto, quindi non vi era da temere alcuna sorpresa, tanto più che il villaggio era ormai lontano una quindicina di miglia.
Gettata l’àncora, andò a fermarsi fra i rami di una euforbia.
— Potete scendere — disse il tedesco, mentre Heggia lanciava la scala.
Il monarca, che era già stato sciolto dalle corde, si alzò traballando.
— Questo viaggio era così delizioso che lo avrei continuato fino al Kassongo — disse.
— Non sei più in collera con noi? — chiese El-Kabir, ridendo.
— No — rispose il sultano.
— Sai ritornare al tuo villaggio?
— Conosco il paese.
— Ti restituiremo la tua scimitarra e ti daremo un paio di bottiglie che berrai strada facendo.
— E le mie pistole.
— Sono armi troppo pericolose in tua mano — disse Ottone.
— Non si sa mai! In un momento di cattivo umore potresti scaricarcele addosso.
— Avete torto a dubitare di me.
— Te le daremo al nostro ritorno.
— Ripasserete?
— Te lo promettiamo.
Il sultano, che pareva non conservasse alcun rancore per quella burla, prese la scimitarra e le due bottiglie e scese la scala seguito da Sokol, il quale era stato incaricato di liberare l’àncora.
I due europei e l’arabo, curvi sul parapetto, li seguivano con lo sguardo.
Quando furono a terra, il sultano fece con la mano un saluto agli aeronauti, poi fece alcuni passi.
D’improvviso fu veduto retrocedere, sfoderare la scimitarra, troncare con un solo colpo la corda dell’àncora, e quindi scagliarsi sul negro che gli volgeva le spalle.