Il tesoro del presidente del Paraguay/29. Nuova Concezione
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XXIX.
Nuova Concezione.
Assicuratisi che nella caduta, quantunque fosse stata piuttosto brusca, non avevano riportato nè fratture, nè contusioni gravi, la loro attenzione si portò sul paese circostante, che per loro era assolutamente nuovo.
L’uragano li aveva trasportati nel bel mezzo di una immensa agglomerazione di montagne e di estesi altipiani. A destra e a sinistra, e segnatamente verso l’ovest, delle grandi catene di montagne, quasi tutte coperte di nevi verso la cima, si estendevano a perdita d’occhio, solcate da una infinita quantità di piccole vallette, dove crescevano a profusione dei superbi cipressi, dei cedri rossi, pini altissimi, dei bellissimi pellin alti non meno di cento piedi, dei lauri detti lemmo, che dànno delle frutta dalle quali si estrae una specie di burro, e qualche pino araucano (pinus araucana, detto pure pehuen dai naturalisti), che si slanciava in aria per duecentocinquanta piedi, scuotendo le sue numerose frutta, che somigliano alle nostre castagne. Abissi profondi, dove si udivano muggire dei grossi torrenti; delle spaccature spaventevoli, dei sentieruzzi appena appena visibili, delle rupi tagliate a picco si vedevano per ogni dove, mentre in lontananza, verso l’est, si scorgeva una linea verdastra, che indicava la grande prateria dei patagoni e degli indiani Pampas.
— Dove siamo noi? — chiese Cardozo, che ammirava quell’enorme accatastamento di montagne.
— Non si può ingannarsi, — rispose il signor Calderon, che pareva contento di trovarsi colà. — Questa grande catena si chiama la Cordigliera, o, se vi piace meglio, le Ande.
— Allora siamo a due passi dal Chilì, — disse il mastro.
— Sì, purchè troviamo un passaggio.
— Le gambe sono ancora buone e, se occorre, ci arrampicheremo su quelle montagne, che ci chiudono il passo verso l’ovest.
— Guarda, guarda, marinajo! — esclamò Cardozo.
— Cosa vedi?
— Una montagna che manda fumo.
Il marinajo e l’agente del Governo guardarono nella direzione indicata e scorsero verso il nord una grande montagna che si elevava sopra le nubi, coperta di candidissima neve e sulla cui cima s’alzava un pennacchio smisurato di fumo, che il vento di quando in quando abbatteva.
— È un vulcano, — disse l’agente del Governo. — Forse quello d’Antuco.
— E quelli là, signor Calderon, non vi sembrano uomini? — disse il mastro.
— Toh! Non credevo d’incontrare dei visi umani in mezzo a quest’orrido paese.
Da un sentieruzzo, aperto fra la spaccatura di un monte e che pareva mettesse capo ad una valletta, un drappello di uomini scendeva lentamente. Malgrado fossero ancora assai lontani, il mastro s’accorse che erano Indiani e che tutti portavano dei fucili.
— Chi saranno mai costoro? — chiese Cardozo.
— Degli Araucani, senza dubbio, — rispose l’agente del Governo.
— Gente da temere?
— No, poichè gli Araucani sono gl’Indiani più inciviliti delle due Americhe.
— Che ci abbiano veduti a cadere?
— È probabile.
— Sono ospitali?
— Ospitalissimi, e col loro mezzo noi potremo calare nel Chilì senza troppe fatiche.
— Allora siano i benvenuti, — disse il mastro.
Il drappello era giunto allora a cinquanta o sessanta passi e si era arrestato, guardando con viva curiosità gli aeronauti e specialmente il signor Calderon, il cui costume di stregone patagone doveva sembrare abbastanza strano indosso ad un uomo dalla pelle bianca. Quella brigatella si componeva di sette Indiani, di statura elevata e ben proporzionata; avevano la testa e viso rotondo, fronte piccola, naso un po’ schiacciato, occhi piccoli e vivaci e il colorito leggermente abbronzato, tirante però un pochino all’olivastro.
Indossavano delle grosse camicie di lana azzurra, stretta ai fianchi da una larga fascia rossa, calzoni piuttosto attillati e il tradizionale poncho dai vivaci colori; alle braccia ed alle orecchie avevano pendenti d’oro e d’argento di forma per lo più quadrata, e alle dita grossi anelli.
Il mastro, vedendo che non si muovevano e che avevano un’attitudine niente affatto ostile, mosse a loro incontro, salutandoli cortesemente.
Un Indiano, che pareva il capo a giudicarlo dalle vesti più ricche e dalla maggior copia di anelli e di braccialetti, si fece innanzi, dicendo in lingua spagnola:
— Dobbiamo accogliervi come amici, o come nemici?
— Siamo amici, — rispose il mastro.
— Siete discesi dal cielo?
— Sì, ma con un pallone.
L’Indiano sorrise.
— Io conosco i palloni degli uomini bianchi, — disse poi con un certo orgoglio. — Gli Araucani non sono selvaggi.
— Ciò mi dispensa dal darvi delle spiegazioni, che sarebbero assai imbarazzanti.
— Sono vostri fratelli? — chiese l’Araucano, accennando Cardozo e l’agente del Governo.
— Sono miei amici.
— Dove eravate diretti?
— Al Chilì.
— Da dove venite?
— Dalla grande prateria, dove eravamo stati fatti prigionieri dai Tehuels.
— I Tehuels sono cattivi uomini: lo so, — disse l’Indiano; — e sono felice che voi siate sfuggiti dalle loro mani.
Poi, togliendosi di dosso il poncho e alzando le braccia:
— Io sono Peguemmapù, capo della vallata degli Uta, — disse. — Gli uomini bianchi sono miei ospiti: mi seguano.
— Non chiediamo di meglio, signor Peguemmapù, — disse il mastro. — Io e i miei compagni vi ringraziamo di tutto cuore.
— Venite al mio villaggio adunque, e quando vorrete, vi farò condurre nei bassipiani del Chilì.
I sette indiani e i tre aeronauti si misero in cammino, seguendo il sentieruzzo che, come abbiamo detto, metteva in una graziosa valletta aperta fra due altissime montagne.
Colà, non senza una viva sorpresa da parte degli aeronauti, che credevano d’essere caduti in una regione affatto disabitata, si rizzavano trenta o quaranta comode abitazioni popolate da un centinaio di pastori araucani, i quali fecero ai nuovi arrivati la più ospitale accoglienza.
Peguemmapù ebbe per gli ospiti caduti dal cielo le maggiori attenzioni che immaginare si possa. Pranzi succolenti, partite di caccia sugli scoscesi fianchi delle Ande, scorrerie attraverso le valli furono fatte in onore degli stranieri, i quali largamente ne approfittarono.
Il quarto giorno, sentendosi ben rinvigoriti, i due marinai e il signor Calderon, che avevano fretta per motivi diversi di raggiungere la costa, davano un addio al capo araucano, lasciando come regalo un numero non piccolo di nazionali e come ricordo il pallone, che per loro non era più di alcuna utilità.
Montati su robuste mule, dalle unghie di acciaio e dal piede sicuro e guidate da un catapaz che doveva portarsi alla costa, attraversarono, per mezzo di sentieri noti solamente agli agili guanachi e agli Araucani, la gran catena delle Ande, e il giorno appresso giungevano negli altipiani inferiori, facendo una breve fermata a Santa Barbara.
Colà, fatto acquisto di cavalli, proseguirono verso l’ovest, toccando Nacimento, e finalmente giungevano in vista di Nuova Concezione, o come la chiamano gli Araucani nella loro lingua, Penco.
— Finalmente! — esclamò il mastro, respirando a pieni polmoni l’aria che veniva dal mare, che scintillava all’orizzonte. — Ora possiamo chiamarci proprio salvi.
— Lo credo, — rispose Cardozo, che animava il cavallo a colpi di scudiscio, impaziente di entrare in città. — Era tempo che ci trovassimo in un paese incivilito, dopo essere stati per tante settimane fra i selvaggi della grande prateria.
— I tuoi milioni li porti sempre?
— Non li ho mai toccati, — rispose il ragazzo. — Sono sempre qui, nella cintura nascosta sotto la camicia.
— Ed io ho i miei. Il Presidente può chiamarsi fortunato di riavere questo tesoro, che forse crede perduto in fondo al mare.
— Forse ci conta ancora, marinaio. Il capitano Candell e qualche uomo del suo equipaggio possono essersi salvati.
— Dio lo volesse, ragazzo mio! — disse il mastro con voce commossa. — Mi rincrescerebbe immensamente la morte del nostro eroico comandante.
— Alto! — disse in quell’istante l’agente del Governo, fermandosi dinanzi ad una trattoria situata a mezzo chilometro dalla città.
— Non entriamo in città? — chiese Cardozo. — Abbiamo dato l’appuntamento a Ramon al Consolato.
— Eppoi dobbiamo intenderci col console per sapere dove ritroveremo il nostro amato Presidente.
— Spero che non vorrete presentarvi con questi costumi stracciati, che puzzano di selvaggi, — disse l’agente del Governo.
— Avete ragione, signor Calderon; tanto più che io muoio di fame.
Entrarono nell’albergo, affidando i cavalli ai mozzi di stalla, e, chiamato il proprietario, lo incaricarono di procurare delle nuove vesti e di far allestire un succolento pranzo. Poche ore dopo, tutti e tre, vestiti a nuovo, scendevano nella sala, dove si sedevano dinanzi ad un lauto pranzo, che inaffiarono con parecchie bottiglie di squisito vino spagnolo.
Il signor Calderon, che aveva avuto già un lungo colloquio col proprietario dell’albergo, durante il pasto diede ai suoi compagni le prime notizie della guerra che ancora si combatteva fra il Brasile e la Repubblica Argentina da una parte e il Paraguay dall’altra.
L’eroico dittatore, malgrado la grande sconfitta subita ad Angostura, ne era fuggito, come era corsa voce, e aveva disperato di spuntarla sulle forze degli alleati. Secondo le ultime notizie giunte al Chilì, si trovava allora a Cerra-Leon, occupato a riorganizzare il suo esercito e a fortificare Piribebuy, che aveva nominata capitale provvisoria della Repubblica.
— Fosse anche in capo al mondo, noi lo raggiungeremo, — disse il mastro. — Coi milioni che noi portiamo e che faremo convertire in tanto danaro dal nostro console, il valoroso generale potrà tener testa per lungo tempo ancora agli alleati e forse scacciarli completamente dal territorio della nostra repubblica.
— Sì, speriamolo, — disse l’agente del Governo con un sorriso che pareva forzato.
— Possiamo partire?
— La vostra presenza al Consolato per ora sarebbe inutile, — rispose l’agente. — È meglio che mi presenti solo per metterlo al corrente di ogni cosa e per intenderci sul modo migliore e più rapido di raggiungere il Presidente.
— Oh, noi non vi saremo d’impiccio, signor Calderon, — disse il mastro.
— Lo so; ma desidero che non mi seguiate in città, per ora.
— E i motivi, signor agente del Governo?
— Non devo rendere conto a voi, mastro Diego. Non dimenticate che io rappresento il Presidente della nostra repubblica.
— E quando potremo entrare in città, se è lecito?
— Quando sarò tornato io.
— Vi avverto però, signor Calderon, che noi non consegneremo il tesoro che nelle mani del Presidente.
— Nessuno ve lo toglierà di dosso, — rispose l’agente del Governo, alzando le spalle.
— Quando è così, partite pure.
L’agente uscì dall’albergo, fece sellare nuovamente il cavallo, balzò in arcione e partì a spron battuto, dirigendosi verso la città, che era lontana appena mezzo chilometro.
Mastro Diego, che lo aveva seguìto cogli sguardi a lungo, quando lo vide sparire sotto le vôlte delle mura, crollò il capo a più riprese, mormorando ripetutamente:
— Quell’uomo lì mi diventa sempre più strano e più incomprensibile.
— Hai ancora dei dubbi? — chiese Cardozo.
— Non so cosa dire, figliuol mio.
— Sospetti qualche cosa?
— Forse.
— Eppure il Presidente deve conoscerlo a fondo.
— Talvolta anche i grandi uomini s’ingannano.
— Cosa facciamo?
— Lo attenderemo.
— E sia, marinajo.
Fecero portare due altre bottiglie, accesero due sigari e si sedettero all’aperto, attendendo pazientemente il ritorno dell’agente: ma batterono le due, le quattro, le sei, senza che lo vedessero. Cominciavano già a inquietarsi di quella prolungata tardanza e si disponevano a dirigersi in città, quando videro galoppare verso l’albergo due vigorosi cavalli attaccati ad una specie di berlina.
— Che sia lui? — chiese il mastro, che non poteva stare più fermo.
— Sì, — rispose Cardozo, gettando un grido di gioia. — L’ho scorto seduto presso lo sportello.
Infatti poco dopo la berlina si arrestava proprio dinanzi all’albergo e il signor Calderon discendeva. Il mastro gli si slanciò incontro.
— Ebbene? — chiese.
— Partiamo, — rispose l’agente.
— Avete veduto il console?
— Sì, e ci aspetta.
— Saliamo, Cardozo.
Presero posto nella berlina e i due cavalli, vigorosamente frustati, dopo pochi minuti entravano in Concezione.