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— Lo so; ma desidero che non mi seguiate in città, per ora.

— E i motivi, signor agente del Governo?

— Non devo rendere conto a voi, mastro Diego. Non dimenticate che io rappresento il Presidente della nostra repubblica.

— E quando potremo entrare in città, se è lecito?

— Quando sarò tornato io.

— Vi avverto però, signor Calderon, che noi non consegneremo il tesoro che nelle mani del Presidente.

— Nessuno ve lo toglierà di dosso, — rispose l’agente del Governo, alzando le spalle.

— Quando è così, partite pure.

L’agente uscì dall’albergo, fece sellare nuovamente il cavallo, balzò in arcione e partì a spron battuto, dirigendosi verso la città, che era lontana appena mezzo chilometro.

Mastro Diego, che lo aveva seguìto cogli sguardi a lungo, quando lo vide sparire sotto le vôlte delle mura, crollò il capo a più riprese, mormorando ripetutamente:

— Quell’uomo lì mi diventa sempre più strano e più incomprensibile.

— Hai ancora dei dubbi? — chiese Cardozo.

— Non so cosa dire, figliuol mio.

— Sospetti qualche cosa?

— Forse.

— Eppure il Presidente deve conoscerlo a fondo.

— Talvolta anche i grandi uomini s’ingannano.

— Cosa facciamo?

— Lo attenderemo.

— E sia, marinajo.

Fecero portare due altre bottiglie, accesero due sigari e si sedettero all’aperto, attendendo pazientemente il ritorno dell’agente: ma batterono le due, le quattro, le sei, senza che lo vedessero. Cominciavano già a inquietarsi di quella prolungata tardanza e si disponevano a dirigersi in città, quando videro galoppare verso l’albergo due vigorosi cavalli attaccati ad una specie di berlina.