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— Sono vostri fratelli? — chiese l’Araucano, accennando Cardozo e l’agente del Governo.

— Sono miei amici.

— Dove eravate diretti?

— Al Chilì.

— Da dove venite?

— Dalla grande prateria, dove eravamo stati fatti prigionieri dai Tehuels.

— I Tehuels sono cattivi uomini: lo so, — disse l’Indiano; — e sono felice che voi siate sfuggiti dalle loro mani.

Poi, togliendosi di dosso il poncho e alzando le braccia:

— Io sono Peguemmapù, capo della vallata degli Uta, — disse. — Gli uomini bianchi sono miei ospiti: mi seguano.

— Non chiediamo di meglio, signor Peguemmapù, — disse il mastro. — Io e i miei compagni vi ringraziamo di tutto cuore.

— Venite al mio villaggio adunque, e quando vorrete, vi farò condurre nei bassipiani del Chilì.

I sette indiani e i tre aeronauti si misero in cammino, seguendo il sentieruzzo che, come abbiamo detto, metteva in una graziosa valletta aperta fra due altissime montagne.

Colà, non senza una viva sorpresa da parte degli aeronauti, che credevano d’essere caduti in una regione affatto disabitata, si rizzavano trenta o quaranta comode abitazioni popolate da un centinaio di pastori araucani, i quali fecero ai nuovi arrivati la più ospitale accoglienza.

Peguemmapù ebbe per gli ospiti caduti dal cielo le maggiori attenzioni che immaginare si possa. Pranzi succolenti, partite di caccia sugli scoscesi fianchi delle Ande, scorrerie attraverso le valli furono fatte in onore degli stranieri, i quali largamente ne approfittarono.

Il quarto giorno, sentendosi ben rinvigoriti, i due marinai e il signor Calderon, che avevano fretta per motivi diversi di raggiungere la costa, davano un addio al capo araucano, lasciando come regalo un numero non piccolo di nazionali e come ricordo il pallone, che per loro non era più di alcuna utilità.