Atto III

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Atto II Nota storica

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ATTO TERZO.

SCENA PRIMA.

Orazio ed Eugenio.

Eugenio. Ora la compagnia è veramente compiuta. Il signor Lelio e la signora Eleonora suppliscono a due persone, ch’erano necessarie.

Orazio. Chi sa se saranno buoni da recitare?

Eugenio. Li proverete; ma io giudico che abbiano a riuscire ottimamente.

Orazio. Poi converrà osservare il loro modo di vivere. Uno ha in capo la poesia, l’altra la musica: non vorrei che m’inquietassero colle loro idee. Sapete eh io sopra tutto fo capitale della quiete nella mia compagnia, che stimo più un personaggio di buoni costumi, che un bravo comico che sia torbido e di mal talento. [p. 66 modifica]

Eugenio. E così va fatto. La buona armonia fra’ compagni contribuisce al buon esito delle commedie. Dove sono dissensioni, gare, invidie, gelosie, tutte le cose vanno male.

Orazio. Io non so come la signora Eleonora siasi indotta in un momento a voler far la comica.

Eugenio. La necessità la conduce a procacciarsi questo poco di pane.

Orazio. Quando sarà rimessa in buono stato, farà come tanti altri, non si ricorderà del benefizio, e ci volterà le spalle.

Eugenio. Il mondo è sempre stato così.

Orazio. L’ingratitudine è una gran colpa.

Eugenio. Eppure tanti sono gli ingrati.

Orazio. Osservate il signor Lelio, che medita qualche cosa per far prova della sua abilità.

Eugenio. Ora verrà da voi a farsi sentire. Non gli voglio dar soggezione.

Orazio. Sì, fate bene a partire. Andate dalla signora Eleonora, e quando mi sarò sbrigato dal poeta, mandatemi la virtuosa.

Eugenio. Poeta salvatico e virtuosa ridicola. (parte)

SCENA II.

Orazio, poi Lelio.

Orazio. Il signor Lelio viene con passo grave. Farà probabilmente qualche scena.

Lelio. Sono stato per rivedere la mia bella, e non avendo avuto la fortuna di ritrovarla, voglio portarmi a rintracciarla al mercato.

Orazio. Signor Lelio, con chi intendete di parlare?

Lelio. Non vedete ch’io recito?

Orazio. Capisco che recitate; ma recitando, con chi parlate?

Lelio. Parlo da me stesso. Questa è un’uscita, un soliloquio.

Orazio. E parlando da voi medesimo, dite: Sono stato a rivedere la mia bella? Un uomo da se stesso non parla così. [p. 67 modifica] Pare che venghiate in iscena a raccontare a qualche persona dove siete stato.

Lelio. Ebbene, parlo col popolo.

Orazio. Qui vi voleva. E non vedete, che col popolo non si parla? Che il comico deve immaginarsi, quando è solo, che nessuno lo senta e che nessuno lo veda? Quello di parlare col popolo è un vizio intollerabile, e non si deve permettere in verun conto.

Lelio. Ma se quasi tutti quelli che recitano all’improvviso, fanno così! Quasi tutti, quando escono soli, vengono a raccontare al popolo dove sono stati, o dove vogliono andare.

Orazio. Fanno male, malissimo, e non si devono seguitare.

Lelio. Dunque non si faranno mai soliloqui.

Orazio. Signor sì, i soliloqui sono necessari per ispiegare gli interni sentimenti del cuore, dar cognizione al popolo del proprio carattere, mostrar gli effetti e i cambiamenti delle passioni.

Lelio. Ma come si fanno i soliloqui senza parlare al popolo?

Orazio. Con una somma facilità. Sentite il vostro discorso regolato e naturale. Invece di dire: Sono stato dalla mia bella e non l’ho ritrovata; voglio andarla a ricercare ecc.; si dice così: Fortuna ingrata, tu che mi vietasti il contento di rivedere nella propria casa il mio bene, concedimi che possa rinvenirla...

Lelio. Al mercato.

Orazio. Oh, questa è più graziosa! Volete andare a ritrovare la vostra bella al mercato?

Lelio. Sì signore, al mercato. Mi figuro che la mia bella sia una rivendugliola, e se mi aveste lasciato finire, avreste sentito nell’argomento chi sono io, chi è colei, come ci siamo innamorati, e come penso di conchiudere le nostre nozze.

Orazio. Tutta questa roba volevate dire da voi solo? Vi serva di regola, che mai non si fanno gli argomenti della commedia da una sola persona, non essendo verisimile che un uomo, che parla solo, faccia a se stesso l’istoria de’ suoi amori o de’ suoi accidenti. I nostri comici solevano per lo più nella prima [p. 68 modifica] scena far dichiarare l’argomento o dal Pantalone col Dottore, o dal padrone col servo, o dalla donna colla cameriera. Ma la vera maniera di far l’argomento delle commedie, senza annoiare il popolo, si è dividere l’argomento stesso in più scene, e a poco a poco andarlo dilucidando, con piacere e con sorpresa degli ascoltanti.

Lelio. Orsù, signor Orazio, all’improvviso non voglio recitare. Voi avete delle regole, che non sono comuni, ed io, che sono principiante, le so meno degli altri. Reciterò nelle commedie studiate.

Orazio. Bene; ma vi vuol tempo, avanti che impariate una parte e che io vi possa sentire.

Lelio. Vi reciterò qualche cosa del mio.

Orazio. Benissimo, dite su, che v’ascolto.

Lelio. Vi reciterò un pezzo di commedia in versi1.

Orazio. Recitateli pure. Ma ditemi in confidenza, sono vostri?

Lelio. Ho paura di no.

Orazio. E di chi sono?

Lelio. Ve lo dirò poi. Questa è una scena, che fa il padre con la figlia, persuadendola a non maritarsi.

     Figlia, che mi sei cara quanto mai
     Dir si possa, e per te sai quanto ho fatto,
     Prima di vincolarti col durissimo
     Laccio del matrimonio, ascolta quanti
     Pesi trae seco il coniugal diletto.
     Bellezza e gioventù, preziosi arredi
     Della femmina, son dal matrimonio
     Oppressi e posti in fuga innanzi al tempo.
     Vengono i figli. Oh, dura cosa i figli!
     Il portarli nel seno, il darli al mondo,

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     L’allevarli, il nudrirli son tai cose2,
     Che fanno inorridir! Ma chi t’accerta
     Che il marito non sia geloso, e voglia
     A te vietar quel ch’egli andrà cercando?
     Pensaci, figlia, pensaci, e poi quando
     Avrai meglio pensato, sarò padre
     Per compiacerti, come ora lo sono
     Per consigliarti.

Orazio. Questi effettivamente non paiono versi3.

Lelio. Volete sentire se sono versi? Ecco, udite come si fanno conoscere, quando si vuole. (recita i medesimi versi declamandoli, per far conoscere il metro)

Orazio. È vero, sono versi, e non parevano4 versi. Caro amico, ditemi di chi sono.

Lelio. Voi li dovreste conoscere.

Orazio. Eppure non li conosco.

Lelio. Sono dell’autore delle vostre commedie.

Orazio. Com’è possibile, s’egli non ha ancora fatto commedie in versi?

Lelio. Effettivamente non ne voleva5 fare; ma a me, che sono poeta, mi ha confidato questa sua scena.

Orazio. Dunque lo conoscete?

Lelio. Lo conosco, e spero arrivar anch’io a comporre delle commedie, com’egli ha fatto.

Orazio. Eh, figliuolo, bisogna prima consumar sul teatro tanti anni, quanti ne ha egli consumati, e poi potrete sperare di far qualche cosa. Credete ch’egli sia diventato compositore di commedie ad un tratto? L’ha fatto a poco a poco, ed è arrivato ad essere compatito dopo un lungo studio, una lunga pratica ed una continova instancabile osservazione del teatro, dei costumi e del genio delle nazioni.

Lelio. Alle corte, sono buono da recitare?

Orazio. Siete sufficiente.

Lelio. Mi accettate nella vostra compagnia? [p. 70 modifica]

Orazio. Vi accetto con ogni soddisfazione.

Lelio. Quand’è così, son contento. Attenderò a recitare, e lascierò l’umor del comporre; giacchè, per quel che sento, sono tanti i precetti d’una commedia, quante sono, per così dire, le parole che la compongono. (parte)

SCENA III.

Orazio, poi Eleonora.

Orazio. Questo giovine ha del brio. Pare un poco girellaio, come dicono i Fiorentini, ma per la scena vi vuole sempre uno, a cui adattar si possano i caratteri più brillanti.

Eleonora. Serva, signor Orazio.

Orazio. Riverisco la signora virtuosa.

Eleonora. Non mi mortificate d’avvantaggio. So benissimo che con poco garbo mi sono a voi presentata, che aveva necessità di soccorso, ma l’aria musicale influisce così; il contegno, l’affabilità, la modestia delle vostre donne ha fatto ch’io mi sono innamorata di loro, e di tutti voi. Vedesi veramente smentita la massima di chi crede che le femmine di teatro siano poco ben costumate, e traggano il lor guadagno parte dalla scena e parte dalla casa.

Orazio. Per nostra consolazione, non solo è sbandito qualunque reo costume nelle persone, ma ogni scandalo dalla scena. Più non si sentono parole oscene, equivoci sporchi, dialoghi disonesti. Più non si vedono lazzi pericolosi, gesti scorretti, scene lubriche, di mal esempio. Vi possono andar le fanciulle senza timor d’apprendere cose immodeste o maliziose.

Eleonora. Orsù, io voglio esser comica, e mi raccomando alla vostra assistenza.

Orazio. Raccomandatevi a voi medesima; che vale a dire, studiate, osservate gli altri, imparate bene le parti, e sopra tutto, se vi sentite fare un poco di applauso, non v’insuperbite, e non vi date subito a credere di essere una gran donna. Se sentite a battere le mani, non ve ne fidate. Un tale applauso [p. 71 modifica] suol essere equivoco. Molti battono per costume, altri per passione, alcuni per genio, altri per impegno, e molti ancora perchè sono pagati dai protettori.

Eleonora. Io protettori non ne ho.

Orazio. Siete stata cantatrice, e non avete protettori?

Eleonora. Io non ne ho, e mi raccomando a voi.

Orazio. Io sono il capo di compagnia; io amo tutti egualmente, e desidero che tutti si facciano onore per il loro e per il mio interesse; ma non uso parzialità a nessuno, e specialmente alle donne, perchè, per quanto siano buone, fra loro s’invidiano.

Eleonora. Ma non volete nemmeno provarmi, se sono capace di sostenere il posto che mi date di terza donna?

Orazio. Oh questo poi sì, mentre il mio interesse vuole che mi assicuri della vostra abilità.

Eleonora. Vi dirò qualche pezzo di recitativo che so.

Orazio. Ma non in musica.

Eleonora. Lo dirò senza musica. Reciterò una scena della Didone bernesca, composta dal signor Lelio.

Orazio. Di quella che ha fatto fallire l’impresario?

Eleonora. Sentite: (si volta verso Orazio a recitare)

     Enea, d’Asia splendore...

Orazio. Con vostra buona grazia. Voltate la vita verso l’udienza.

Eleonora. Ma se ho da parlare con Enea.

Orazio. Ebbene; si tiene il petto verso l’udienza, e con grazia si gira un poco il capo verso il personaggio; osservate:

Enea, d’Asia splendore...

Eleonora. In musica non mi hanno insegnato così.

Orazio. Eh, lo so che voi altre non badate ad altro che alle cadenze.

Eleonora. Enea d’Asia splendore,

Caro figliuol di Venere,
E solo amor di queste luci tenere;
Vedi come in Cartagine bambina,
Consolate del tuo felice arrivo,
Ballano la furlana anco le torri?

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Orazio. Basta così, non dite altro, per amor del cielo.

Eleonora. Perchè? Recito tanto male?

Orazio. No, quanto al recitare son contento, ma non posso sofferire di sentir a porre in ridicolo i bellissimi e dolcissimi versi della Didone; e se avessi saputo che il signor Lelio avesse strapazzati i drammi d’un così celebre e venerabile poeta, non l’avrei accettato nella mia compagnia: ma si guarderà egli di farlo mai più. Troppo obbligo abbiamo alle opere di lui, dalle quali tanto profitto abbiamo noi ricavato.

Eleonora. Dunque vi pare ch’io possa sufficientemente passare per recitante?

Orazio. Per una principiante siete passabile; la voce non è ferma, ma questa si fa coll’uso del recitare. Badate bene di battere le ultime sillabe, che s’intendano. Recitate piuttosto adagio, ma non troppo, e nelle parti di forza caricate la voce, e accelerate più del solito le parole. Guardatevi sopra tutto dalla cantilena e dalla declamazione, ma recitate naturalmente, come se parlaste, mentre essendo la commedia una imitazione della natura, si deve fare tutto quello che è verisimile. Circa al gesto, anche questo deve essere naturale. Movete le mani secondo il senso della parola. Gestite per lo più colla dritta, e poche volte colla sinistra, e avvertite di non moverle tutte due in una volta, se non quando un impeto di collera, una sorpresa, una esclamazione lo richiedesse; servendovi di regola, che principiando il periodo con una mano, mai non si finisce coll’altra, ma con quella, con cui si principia, terminare ancora si deve: d’un’altra cosa molto osservabile, ma da pochi intesa, voglio avvertirvi. Quando un personaggio fa scena con voi, badategli, e non vi distraete cogli occhi e colla mente; e non guardate qua e là per le scene o per i palchetti, mentre da ciò ne nascono tre pessimi effetti. Il primo, che l’udienza si sdegna, e crede o ignorante, o vano, il personaggio distratto. Secondo, si commette una mala creanza verso il personaggio, con cui si deve far la scena; e per ultimo, quando non si bada al filo del ragionamento, arriva inaspettata la parola del [p. 73 modifica] suggeritore, e si recita con poco garbo e senza naturalezza: tutte cose che tendono a rovinare il mestiere e a precipitare le commedie.

Eleonora. Vi ringrazio dei buoni documenti, che voi mi date; procurerò di metterli in pratica.

Orazio. Quando siete in libertà, e che non recitate, andate agli altri teatri. Osservate come recitano i buoni comici, mentre questo è un mestiere che s’impara più colla pratica che colle regole.

Eleonora. Anche questo non mi dispiace.

Orazio. Un altro avvertimento voglio darvi, e poi andiamo, e lasciamo che i comici provino il resto della commedia, che s’ha da fare. Signora Eleonora, siate amica di tutti, e non date confidenza a nessuno. Se sentite dir male dei compagni, procurate di metter bene. Se vi riportano qualche cosa, che sia contro di voi, non credete e non badate loro. Circa alle parti, prendete quello che vi si dà; non crediate che sia la parte lunga quella che fa onore al comico, ma la parte buona. Siate diligente. Venite presto al teatro, procurate di dar nel genio a tutti, e se qualcheduno vi vede mal volentieri, dissimulate; mentre l’adulazione è vizio, ma una savia dissimulazione è sempre stata virtù. (parte)

Eleonora. Questo capo di compagnia mi ha dato di grandi avvertimenti; gli sono obbligata6. Procurerò di valermene al caso, e giacchè mi sono eletta questa professione, cercherò di essere, se non delle prime, non delle ultime almeno. (parte)

SCENA IV.

Il Suggeritore, poi Placida e Petronio.

Suggeritore. Animo, signori, che il tempo passa e vien sera. Tocca a Rosaura e al Dottore. (entra)

Dottore. Figliuola mia, da che procede mai questa tua [p. 74 modifica] malinconia? È possibile che tu non lo voglia confidare ad un padre che ti ama?

Rosaura. Per amor del cielo, non mi tormentate.

Dottore. Vuoi un abito? Te lo farò. Vuoi che andiamo in campagna? Ti condurrò. Vuoi una festa di ballo? La ordinerò. Vuoi marito? Te lo...

Rosaura. Ahi! (sospirando)

Dottore. Sì, te lo darò. Dimmi un poco, la mia ragazza, sei tu innamorata?

Rosaura. Signor padre, compatite la mia debolezza, sono innamorata pur troppo. (piangendo)

Dottore. Via, non piangere, ti compatisco. Sei in età da marito, ed io non lascierò di consolarti, se sarà giusto. Dimmi, chi è l’amante per cui sospiri?

Rosaura. È il figlio del signor Pantalone de’ Bisognosi.

Dottore. Il giovane non può essere migliore. Son contentissimo. S’egli ti brama, te lo darò.

Rosaura. Ah! (respirando)

Dottore. Sì, te lo darò, te lo darò.

SCENA V.

Colombina e detti.

Colombina. Poverino! Non ho cuore da vederlo penare.

Dottore. Cosa c’è, Colombina?

Colombina. Vi è un povero giovinotto, che passeggia sotto le finestre di questa casa, e piange, e si dispera, e dà la testa per le7 muraglie.

Rosaura. Oimè! Chi è egli? Dimmelo.

Colombina. È il povero signor Fiorindo.

Rosaura. Il mio bene, il mio cuore, l’anima mia. Signor padre, per carità.

Dottore. Sì, cara figlia, voglio consolarti. Presto, Colombina, chiamalo e digli ch’io gli voglio parlare. [p. 75 modifica]

Colombina. Subito, non perdo tempo; quando si tratta di far servizio alla gioventù, mi consolo tutta. (parte)

Rosaura. Caro il mio padre, che mi vuol tanto bene.

Dottore. Sei l’unico frutto dell’amor mio.

Rosaura. Me lo darete per marito?

Dottore. Te lo darò, te lo darò.

Rosaura. Ma vi è una difficoltà.

Dottore. E quale?

Rosaura. Il padre di Fiorindo non si contenterà.

Dottore. No?

Rosaura. Perchè anche il buon vecchio è innamorato di me.

Dottore. Lo so, lo so, ma non importa; rimedieremo anche a questo.

SCENA VI.

Florindo e detti.

Colombina. Eccolo, eccolo, che muore dalla consolazione.

Rosaura. (Benedetti quegli occhi: mi fanno tutta sudare). (da sè)

Florindo. Signor Dottore, perdoni, incoraggito da Colombina... Perchè se la signora Rosaura... Ma anzi il signor padre... Compatisca, non so che cosa mi dica.

Dottore. Intendo, intendo, siete innamorato della mia figliuola e la vorreste per moglie, non è così?

Florindo. Altro non desidero.

Dottore. Ma sento dire che vostro padre abbia delle pretensioni ridicole.

Florindo. Il padre è rivale del figlio.

Dottore. Dunque non si ha da perder tempo. Bisogna levargli la speranza di poterla ottenere.

Florindo. Ma come?

Dottore. Dando immediatamente la mano a Rosaura.

Florindo. Questa è una cosa che mi rallegra.

Rosaura. Questa è una cosa che mi consola.

Colombina. Questa è una cosa che mi fa crepar dall’invidia. [p. 76 modifica]

Dottore. Animo, dunque, che si conchiuda. Datevi la mano.

Florindo. Eccola, unita al mio cuore.

Rosaura. Eccola, in testimonio della mia fede. (si danno la mano)

Colombina. Oh cari! Oh che bella cosa! Mi sento venire l’acqua in bocca.

SCENA VII.

Pantalone e detti.

Pantalone. Com’ela? Coss’e sto negozio?

Dottore. Signor Pantalone, benchè non vi siate degnato di parlar meco, ho rilevata la vostra intenzione, ed io ciecamente l’ho secondata.

Pantalone. Come? Intenzion de cossa?

Dottore. Ditemi, di grazia, non avete voi desiderato che mia figlia fosse sposa del signor Florindo?

Pantalone. No xe vero gnente.

Dottore. Avete pur detto a lei di volerla maritare in casa vostra.

Pantalone. Sior sì, ma no co mio fio.

Dottore. Dunque con chi?

Pantalone. Con mi, con mi.

Dottore. Non credeva mai che in questa età vi sorprendesse una simile malinconia. Compatitemi, ho equivocato; ma questo equivoco ha prodotto il matrimonio di vostro figlio con Rosaura mia figlia.

Pantalone. No sarà mai vero, no l’accorderò mai.

Dottore. Anzi sarà senz’altro. Se non l’accordate voi, l’accordo io. Voi e vostro figlio avete fatto all’amore con la mia figliuola; dunque, o il padre o il figlio l’aveva a sposare. Per me, tanto m’era uno, quanto l’altro. Ma siccome il figlio e più giovine e più lesto di gamba, egli è arrivato prima; e voi, che siete vecchio, non avete potuto finir la corsa, e siete rimasto a mezza strada.

Colombina. È il solito de’ vecchi: dopo quattro passi, bisogna che si riposino. [p. 77 modifica]

Pantalone. Ve digo che questa la xe una baronada, che un pare no ha da far el mezzan alla putta, per trappolar el fio d’un galantuomo, d’un omo d’onor.

Florindo. (Via, signor padre, non andate in collera). (a Pantalone)

Dottore. E un galantuomo, un uomo d’onore, non ha da sedurre la figlia di un buon amico, contro le leggi dell’ospitalità e della buona amicizia.

Rosaura. Per amor del cielo, non vi alterate. (al Dottore)

SCENA VIII.

Lelio, Tonino e detti.

Lelio. Bravi, signori comici, bravi. Veramente questa è una bella scena. Il signor capo di compagnia mi va dicendo che il teatro si è riformato, che ora si osservano tutte le buone regole, e pur questa vostra scena è uno sproposito, non può stare, e non si può far così.

Eugenio. Perchè non può stare? Quale è lo sproposito che notate voi in questa scena?

Lelio. È uno dei più grandi e dei più massicci che dir si possa.

Tonino. Chi èla éla, patron? El proto delle commedie?

Vittoria. È un poeta famosissimo. (fa il cenno che mangia bene)

Petronio. Sa perfettamente a memoria la Buccolica8 di Virgilio.

Lelio. So e non so; ma so che questa è una cattiva scena.

SCENA IX.

Orazio e detti.

Orazio. Cosa c’è? non si finisce di provare?

Placida. Abbiamo quasi finito, ma il signor Lelio grida e dice che questa scena va male.

Orazio. Per qual cagione lo dice, signor Lelio?

Lelio. Perchè ho inteso dire che Orazio, nella sua Poetica, dia [p. 78 modifica] per precetto che non si facciano lavorare in scena più di tre persone in una volta, e in questa scena sono cinque.»

Orazio. Perdonatemi, dite a chi ve l’ha dato ad intendere, che Orazio non va inteso così. Egli dice: Nec quarta loqui persona laboret. Alcuni intendono che egli dica: Non lavorino più di tre. Ma egli ha inteso dire che, se sono quattro, il quarto non si affatichi, cioè che non si diano incomodo i quattro attori un con l’altro, come succede nelle scene all’improvviso, nelle quali, quando son quattro o cinque persone in scena, fanno subito una confusione. Per altro le scene si possono fare anche di otto e di dieci persone, quando sieno ben regolate e che tutti i personaggi si facciano parlare a tempo, senza che uno disturbi l’altro, come accordano tutti i migliori autori, li quali hanno interpretato il passo d’Orazio da voi allegato.

Lelio. Anche qui, dunque, ho detto male.

Orazio. Prima di parlare sopra i precetti degli antichi, conviene considerare due cose: la prima, il vero senso con cui hanno scritto; la seconda, se a’ nostri tempi convenga quel che hanno scritto; mentre, siccome si è variato il modo di vestire, di mangiare e di conversare, così è anche cangiato il gusto e l’ordine delle commedie.

Lelio. E così questo gusto varierà ancora, e le commedie da voi adesso portate in trionfo, diverranno anticaglie, come la Statua, il Finto Principe, e Madama Pataffiaa.

Orazio. Le commedie diverranno antiche, dopo averle fatte e rifatte; ma la maniera di far le commedie, spererei che avesse sempre da crescere in meglio. I caratteri veri e conosciuti piaceranno sempre, e ancorchè non sieno i caratteri infiniti in genere, sono infiniti in specie, mentre ogni virtù, ogni vizio, ogni costume, ogni difetto prende aria diversa dalla varietà delle circostanze.

Lelio. Sapete cosa piacerà sempre sul teatro?

Orazio. E che cosa? [p. 79 modifica]

Lelio. La critica.

Orazio. Basta che sia moderata, che prenda di mira l’universale, e non il particolare; il vizio, e non il vizioso; che sia mera critica, e non inclini alla satira.

Vittoria. Signor capo di compagnia, con sua buona grazia, una delle due; o ci lasci finir di provare, o permetta che ce n’andiamo.

Orazio. Avete ragione. Questo signor comico novello mi fa usare una mala creanza. Quando i comici provano, non s’interrompono. (a Lelio)

Lelio. Io credeva che avessero finito, quando Fiorindo e Rosaura si sono sposati, mentre si sa che tutte le commedie finiscono coi matrimoni.

Orazio. Non tutte, non tutte.

Lelio. Oh! quasi tutte, quasi tutte.

Tonino. Sior Orazio, mi fenisso in te la commedia prima dei altri: se contentela che diga la mia scena, e che vaga via?

Orazio. Sì, fate come volete.

SCENA X.

Il Suggeritore e detti.

Suggeritore. Cospetto del diavolo! Si finisce o non si finisce questa maledetta commedia?9

Orazio. Ma voi sempre gridate. Quando si prova, vorreste che si andasse per le poste per finir presto; quando si fa la commedia, se qualcheduno parla dietro le scene, taroccate, che vi sentono da per tutto.

Suggeritore. Se tarocco, ho ragione, mentre la scena è sempre piena di gente che fa romore; e mi maraviglio di lei, che lasci venir tanta gente sulla scena, che non ci possiamo movere.

Eugenio. Io non so che piacere abbiano a venire a veder la commedia in iscena. [p. 80 modifica]

Vittoria. Lo fanno per non andare nella platea.

Eugenio. Eppure la commedia si gode meglio in platea che in iscena.

Vittoria. Sì, ma taluni dai palchi sputano, e infastidiscono le persone che sono giù.

Orazio. Veramente, per perfezionare il buon ordine de’ teatri, manca l’osservanza di questa onestissima pulizia.

Eugenio. Manca un’altra cosa, che non ardisco dirla.

Orazio. Siamo tra di noi, potete parlare con libertà.

Eugenio. Che nei palchetti non facciano tanto romore.

Orazio. È difficile assai.

Placida. Per dirla, è una gran pena per noi altri comici recitare, allora quando si fa strepito nell’udienza. Bisogna sfiatarsi per farsi sentire, e non basta.

Vittoria. In un pubblico conviene aver pazienza. E alle volte, che si sentono certi fischietti e certe cantatine da gallo? Gioventù allegra; vi vuol pazienza.

Orazio. Mi dispiace che disturbano gli altri.

Petronio. E quando si sentono sbadigliare?

Orazio. Segno che la commedia non piace.

Petronio. Eh! qualche volta lo fanno con malizia; e per lo più nelle prime sere delle commedie nuove, per rovinarle, se possono.

Lelio. Sapete cosa cantano quelli che vanno alla commedia? La canzonetta d’un intermezzo:

          Signor mio, non vi è riparo:
          Io qui spendo il mio denaro,
          Voglio far quel che mi par.

.

Suggeritore. Vado o non vado?

Tonino. Via, andè, che ve mando.

Suggeritore. Come parla, signor Pantalone?

Tonino. Colla bocca, compare.

Suggeritore. Avverta bene: mi porti rispetto, altrimenti si pentirà. Le farò dire degli spropositi in iscena, se non mi tratterà bene. Mentre se i commedianti si fanno onore, è a cagione della mia buona maniera di suggerire. (entra) [p. 81 modifica]

Orazio. Certamente, tutto contribuisce al buon esito delle cose.

Suggeritore. So che non vorreste che vostro figlio... (di dentro, suggerendo) So che non vorreste che vostro figlio... (più forte)

Tonino. Dottor, a vu.

Dottore. Ah, son qui. So che non vorreste che vostro figlio si ammogliasse, perchè voi siete innamorato della mia figliuola; ma questa vostra debolezza fa torto al vostro carattere, alla vostra età. Rosaura non si sarebbe mai persuasa di sposar voi; dunque era inutile il vostro amore, ed è un atto di giustizia che contentiate il vostro figliuolo; e se amate Rosaura, farete un’azione eroica, da uomo onesto, da uomo savio e prudente, a cederla a una persona che la renderà felice e contenta, e avrete voi la consolazione di essere stato la causa della sua più vera felicità.

Pantalone. Sì ben, son un galantomo, son un omo d’onor, voggio ben a sta puttab, e voggio far un sforzo per demostrarghe l’amor che ghe porto. Fiorindo sposerà vostra fia, ma perchè vostra fia l’ho vardada con qualche passion, e no me la posso desmentegarc, non voggio metterme a rischio, avendola in casa, de viver continuamente all’inferno. Florindo, fio mio, el ciel te benediga. Sposa siora Rosaura, che la lo merita, e resta in casa con ela e co so sior pare, fina che vivo mi, e te passerò un onesto e comodo trattamento. Niorad, za che no me avè volesto ben a mi, voggie ben a mio fio. Trattelo con amor e con carità, e compatì le debolezze de un povero vecchio, orbà più dal vostro merito, che dalle vostre bellezze. Dottor caro, vegnì da mi, che metteremo in carta ogni cossa. Se ve bisogna roba, bezzi, son qua. Spenderò, farò tutto, ma in sta casa no ghe vegno mai più. Oimè! gh’ho el cuor ingroppà e, me sento che no posso più. (parte)

Rosaura. Povero padre, mi fa pietà. [p. 82 modifica]

SCENA ULTIMA.

Brighella, Arlecchino e detti.

Arlecchino. E cussì, per tornar al nostro proposito, Colombina, damme la man.

Brighella. Colombina no farà sto torto a Brighella.

Lelio. Signor Orazio, ecco appunto come termina il mio soggetto, che voi non avete voluto sentire. (Cava i foglietti e legge) Florindo sposa Rosaura, Arlecchino Colombina; e coi matrimoni termina la commedia.

Orazio. Siete veramente spiritoso.

Lelio. Anzi vi dirò di più...

Gianni. Sior Orazio, gh’è altro da provar?

Orazio. Per ora basta così.

Gianni. La podeva aver anca la bontà de sparagnarme sta gran fadiga. (si cava la maschera)

Orazio. Perchè?

Gianni. Perchè sta sorte de scene le fazzo co dormo.

Orazio. Non dite così, signor Arlecchino, non dite così. Anche nelle piccole scene si distingue l’uomo di garbo. Le cose quando son fatte, quando son dette con grazia, compariscono il doppio, e quanto le scene sono più brevi, tanto piacciono più. L’Arlecchino deve parlar poco, ma a tempo. Deve dire la sua botta frizzante, e non stiracchiata. Stroppiar qualche parola naturalmente, ma non stroppiarle tutte; e guardarsi da quelle stroppiature, che sono comuni a tutti i secondi zanni. Bisogna crear qualche cosa del suo, e per creare bisogna studiare.

Gianni. La me perdona, che se polcrear anca senza studiar.

Orazio. Ma come?

Gianni. Far come ho fatto mi; maridarse e far nascer dei fioi. (parte)

Orazio. Questa non è stata cattiva.

Placida. Se non si prova altro, anderò via ancor io.

Orazio. Ora anderemo tutti. [p. 83 modifica]

Eugenio. Possiamo andare dal nostro signor capo, che ci darà il caffè.

Orazio. Padroni, vengano pure.

Lelio. Una cosa voleva dirvi per ultimo, e poi ho finito.

Orazio. Dica pure.

Lelio. Il mio soggetto finiva con un sonetto; vorrei che mi diceste se sia ben fatto, o mal fatto, terminare la commedia con un sonetto.

Orazio. Dirò: i sonetti in qualche commedia stanno bene, e in qualche commedia stanno male. Anche il nostro autore alcune volte li ha usati con ragione, e alcune volte ne potea far di meno. Per esempio: nella Donna di garbo si termina la commedia in un’accademia, ed è lecito chiuderla con un sonetto. Nella Putta onorata Bettina termina con un brindisi, e lo fa in un sonetto; nella Buona moglie dice in un sonetto finale qual esser debba la moglie buona. Nella Vedova scaltra e nei Due gemelli veneziani si potevano risparmiare, e nelle altre non ha fatto sonetti al fine, perchè questi assolutamente senza una ragione non si possono e non si devono fare.

Lelio. Manco male, che ha errato anche il vostro poeta.

Orazio. Egli è uomo come gli altri, e può facilmente ingannarsi; anzi colle mie stesse orecchie l’ho sentito a dir più e più volte, che trema sempre allorchè deve produrre una nuova sua commedia su queste scene; che la commedia è un componimento difficile; che non si lusinga d’arrivare a conoscere quanto basta la perfezione della commedia, e che si contenta di aver dato uno stimolo alle persone dotte e di spirito, per rendere un giorno la riputazione al teatro italiano.

Placida. Signor Orazio, sono stanca di star in piedi; avete ancor finito di chiacchierare?

Orazio. Andiamo pure: è terminata la prova, e da quanto abbiamo avuto occasione di discorrere e di trattare in questa giornata, credo che ricavare si possa qual abbia ad essere, secondo l’idea nostra, il nostro Teatro Comico.

Fine della Commedia.




Note dell'autore
  1. Commedie delle peggiori dell’arte.
  2. Fanciulla.
  3. Dimenticare.
  4. Nuora.
  5. Aggruppato.
Note dell'editore
  1. Segue nelle edd. Bettin., Paper, ecc.: «Or. In versi? Mi dispiace. Lei. Eppure le buone commedie italiane devono essere scritte in versi. Così hanno fatto i nostri antichi, e così vogliono che si faccia alcuni moderni. Or. Venero gli antichi, rispetto i moderni, ma non sono di ciò persuaso. La commedia deve essere in tutto verisimile, e non è verisimile che le persone parlino in verso. Oh, mi direte, il verso non si ha da conoscere, e dee all’orecchio parer prosa. Se non si ha da conoscere il verso, se deve parer prosa, dunque scrivete in prosa. Lel. Non volete che vi reciti questi versi? Or. Recitateli pure ecc.».
  2. Bett., Pap. ecc.: sono cose.
  3. Bett. e Pap. aggiungono: e duro fatica a credere che siano versi.
  4. Bett. e Pap.: paiono.
  5. Bett. e Pap.: vuol.
  6. Bettin.: mi ha dato più avvertimenti di quello che faccia un maestro di collegio, il primo giorno che riceve un nuovo scolare. Però gli sono obbligata.
  7. Bett. nelle.
  8. Così è stampato a bella posta in tutte le edd.
  9. Segue nelle edd. Bett. e Pap.: «Pantal. Son qua, disè su, che ve vegno drio. Sugger. Sian maladette le prove».