Il teatro comico/Nota storica
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NOTA STORICA
Nel sonetto di addio recitato da Teodora Medebach l’ultima sera del carnovale 1750, non si parla propriamente di sedici commedie nuove da eseguire nel prossimo anno (v. Malamani, in Ateneo Veneto a C. G. cit., pp. 30-33), ma certo n’era stata fatta dall’autore la promessa al pubblico, o almeno agli amici, perchè quella cifra si legge nella prima lettera del Goldoni al Bettinelli, da Mantova (primavera del ’50), ed è ripetuta nella prefazione al primo tomo delle Commedie, che in quel tempo si cominciavano a stampare. Dalla medesima lettera si apprende che il Teatro comico era già composto: forse scritto a Venezia (v. intestazione) durante la quaresima, e senza dubbio rappresentato nell’estate a Milano dal Medebach, dopo che l’autore ne diede lettura in casa della marchesa Litta Calderari (v. intestazione e pag. 12). A Venezia servì ad aprire la stagione d’autunno (5 ott.) e si recitò due sere (lettera di G. all’Arconati, dei 10 ott.): così inaugurandosi il terzo anno della fatica goldoniana, l’anno famoso delle sedici commedie.
Non vera commedia il Teatro comico, ma prefazione di commedie, come si trova nell’avvertenza. È il programma pratico, per così dire, della riforma della Commedia italiana nel Settecento, dopo le prove dell’Amenta, del Martello, del Gigli, del Fagiuoli, del Nelli, del Lazzarini, del Maffei, del Corio, della Bergalli, del Liveri, del Becelli, del Rota, di cento letterati d’ogni parte della penisola, nella prima metà di quel secolo: steso in dialoghi ingenui, per il popolo, nel modo più dilettevole, e animato dalla viva voce degli attori della compagnia Medebach, la più benemerita in Italia, dopo i tempi del Riccoboni.
Nell’esistenza d’un artista creatore e innovatore giunge, o prima o poi, il momento di dover al pubblico render ragione di sè e della propria opera. Anche il Goldoni, non deluso per la caduta dell’Erede fortunata, sentì il bisogno di scrivere, nella forma più adatta, la sua poetica: come già Lope, come lo stesso Molière, presente sempre al ricordo del buon Dottor veneziano. Già qualche precetto aveva sparso, per esempio nel Prologo apologetico alla Vedova scaltra (aut. ’49); ma si diede amabilmente a dissertare e a raccontare la storia dei suoi precedenti tentativi nella prefazione generale in testa al primo tomo dell’edizione Bettinelli, e nelle lettere all’editore premesse alle quattro prime commedie, che i Veneziani poterono finalmente leggere in quel medesimo autunno del 1750. Teniamo a mente questa data.
Il palcoscenico del teatro di Sant’Angelo a Venezia ci richiama appena alla memoria quello di Molière alla Corte di Luigi XIV (Impromptu de Versailles, 1663), o quello di Regnard (Prologue des Folies amoureuses, 1704). La Repubblica di S. Marco, dove l’arte di Goldoni si svolge, per quanto aristocratica, per quanto oligarchica, ha sue tradizioni e forme intimamente popolari e quasi familiari; e nel teatro fra gli attori, il poeta e il pubblico sembra correre un dialogo continuo. Ma prima che il tempo ricopra con la sua ombra i personaggi della presente commedia, facciamoci vicino ad osservare.
Concediamo i primi onori a Orazio, ossia a Girolamo Medebach, del quale ci resta qui un ritratto prezioso e fedele, se dobbiamo credere alle lodi dei contemporanei. Quasi da commento potrebbero servire alcune pagine dell’abate Chiari, scritte nel principio del 1755 in certo suo romanzo (La commediante in fortuna, Ven., Pasinelli, I, 124-8; e G. Ortolani, Della vita e dell’arte di C. G., Ven., 1907: Appendice), a cui fanno eco le notizie di Franc. Bartoli (Notizie istoriche de’ Comici It.i, Padova, 1782). Goldoni stesso, superata la stizza che ebbe a provare, come vedremo, nel 1753, di cui ci sfuggono in parte le ragioni, rese giustizia al Medebach; e tanti anni dopo, riconosceva ancora di aver trovato «nell’onorato comico», in un momento decisivo della sua esistenza, l’aiuto più efficace per il trionfo dei propri ideali (p. 142 del vol. I di questa ed.). Certo dobbiamo al comune consiglio del poeta e del capocomico se la riforma, morale a un tempo ed artistica, del Teatro potè imporsi al pubblico italiano.
Anche di Placida, o meglio in arte Rosaura, per la quale furono scritte la Vedova scaltra, la Putta onorata, la Buona moglie, la Finta ammalata, la Dama prudente, la Figlia obbediente, la Moglie saggia, dura a torto la fama di donna bisbetica, diffusa dalle memorie goldoniane e confermata dalle argute scene pseudo-storiche di Paolo Ferrari (Goldoni e le sue sedici commedie nuove, 1851). È da ricordare di Teodora Raffi, giovane moglie del Medebach, gli onesti costumi, la sensibilità e delicatezza dell’animo e della persona, gli umili principi in un casotto di saltatori nella piazza di S. Marco, la passione ardentissima per il teatro, la fine immatura (a 37 anni, nel genn. ’61), la grande arte nell’interpretazione dei teneri affetti: col buon testimonio del Goldoni (pp. 142-3, vol. I della presente ed.; e Mémoires), del Chiari (La commed. in fort., 1. c.) e del Bartoli.
Segue Beatrice, seconda donna, la bella Caterina Landi, descritta in un sonetto del Poeta fanatico (A. II, sc. 10); moglie di Luzio Landi fiorentino, il Lelio goldoniano, che poi ritroveremo sul teatro di S. Angelo (v. Bartoli e Rasi). Eugenio, o meglio Fiorindo, il secondo amoroso, chiamavasi Francesco Falchi, l’attore bolognese che passò pure sulle scene del teatro Vendramin (v. Bartoli e Rasi) con la fida moglie Vittoria, cioè la Eleonora lodata nel Poeta fanatico. Delle maschere famoso è il pantalone Tonino, Antonio Mattiuzzi (o Matteucci) Collalto di Vicenza, col quale il Medebach riempì fortunatamente il gran vuoto lasciato dal D’Arbes: nè occorre spender parola per il brighella Anselmo, Gius. Marliani, cognato del capocomico (p. 143 del vol. I).
Del Dottore, dell’Arlecchino, di Colombina non conosciamo più il nome: attore malsicuro il primo (v. lett. all’Arconati dei 10 ott. ’50); nuovo e debolissimo il secondo (ivi), tanto che nel febbraio successivo fu cambiato (con Ferd. Colombo, lett. all’Are. dei 27 febb. ’51); e l’ultima pure, al termine del carnovale, messa in fuga da Maddalena Raffi Marliani, Mirandolina (ivi).
Che il Goldoni obbedisca alle più vitali regole intorno alla Commedia della critica del Rinascimento in Italia e fuori, non si può negare: egli si adagia volentieri, poichè gli costa poco, nelle forme prestabilite della commedia classica, ma senza superstizione. Professa un libero culto alla tradizione letteraria, con parecchie infrazioni, essendo troppo savio e arguto per abbandonare certe belle licenze del teatro pubblico a soggetto, in uso da secoli: anch’egli, al pari di Molière e di tutti quanti, persuaso che la gran regola delle regole è quella di piacere. «... I due libri su’ quali ho più meditato, e di cui non mi pentirò mai di essermi servito, furono il Mondo e il Teatro» scriveva nella prefazione alle commedie, già ricordata. E confessava: «... Solamente dopo mi sono avveduto d’essermi in gran parte conformato a’ più essenziali precetti dell’Arte raccomandati dai gran Maestri ed eseguiti dagli eccellenti Poeti, senza aver di proposito studiati nè gli uni, nè gli altri». Di qui il credo che gli fu sacro nel lungo corso della carriera drammatica: «Questa è la grand’arte del comico poeta, di attaccarsi in tutto alla Natura, e non iscostarsene giammai» (ivi).
Ecco dunque spiegato l’atteggiamento del commediografo veneziano di fronte alla commedia dell’arte. Questa lo aveva innamorato da fanciullo, da questa cominciarono le sue riflessioni e quindi i primi passi. Ma benchè un tal teatro fosse gloria propriamente italiana, aveva raccolto in sè troppi vizi della nostra decadenza, portava impresso il mal gusto nella costruzione e nei particolari, e per il carattere stesso dell’improvvisazione, che formava la meraviglia degli stranieri, appariva al Goldoni un’arte piena di pericolo ed effimera, anche quando vera e grande. Non guerra dunque alle maschere senza quartiere, che anzi s’adattavano alla semplicità e alla naturalezza, bensì via tutti gli artifici, a cui erano costretti di ricorrere gli improvvisatori, via i luoghi comuni, le mostruosità, le scurrilità. Natura e verità! sia nel dramma, sia nella recitazione (A. III, sc. 3), sia in qualunque forma dell’arte. - Il secolo decimottavo è sul punto di vincere per sempre la lotta ostinata contro il Seicento; ed è un’altra vittoria di Carlo Goldoni.
Dopo ciò pare tanto più strano che il Baretti, bramando inaugurare la novella critica in Italia, menasse con accanimento la frusta addosso al riformatore veneziano, esule ormai dalle lagune; e scrivesse pagine così fiacche intorno al Teatro comico, dove nulla c’è di vero (nemmeno forse che G. abbia avuto bisogno di trarre «malamente» la fine dell’ultima scena del primo atto dal Babillard, 1725, di Boissy) per concludere infine di trovar «tutta balorda e tutta cattiva, dalla prima sino all’ultima parola» la commedia-programma (Frusta letteraria, n. XX, 15 marzo 1764). Questa volta l’avvocato veneziano si dimostrava critico di gran lunga superiore ai giornalista piemontese.
Ma oltre le teorie propriamente dette, che dovevano annoiare la parte più numerosa del pubblico, trascorre nel Teatro comico una satira dolce delle bizze di palcoscenico, specialmente della rivalità fra attori e cantanti; e quella più nuova, del poeta delle compagnie drammatiche. Ho sospetto che in quell’arruffone di Lelio si nascondesse qualche viva punta contro Egerindo Criptonide, ossia il Chiari, abate arcade frugoniano ai servigi del teatro di S. Samuele.
Poco diremo della «piccola farsa» il Padre rivale del figlio, divisa fra il secondo e il terzo atto: specie di commedia in commedia, quale si ritrova in tutti i teatri, particolarmente in quello dell’arte. Del teatro a soggetto partecipano queste brevi scene di mano maestra, per un capriccio dell’autore, che si divertì a porre un’altra volta Rosaura in gara tra Fiorindo e Pantalone, subito dopo la caduta dell’Erede fortunata: ma un Pantalone ridicolo e arcigno alquanto, come i padri ben noti delle commedie classiche, non più goldoniano. Scherzo o vendetta di poeta?
Quanto alla fortuna del Teatro comico, ben si comprende perchè non fosse più recitato: infatti come azione scenica, passata l’occasione per cui fu scritto, perdette presso il pubblico il suo interesse. Anzi ci stupisce che nel 1752 si rappresentasse fuori d’Italia, a Vienna, e che in quell’anno stesso si stampasse tradotto (Das Theater, Wien, 1752: v. Spinelli, Bib.ia gold. cit, 255): e forse non meno che di un’opera di carattere speciale, e quasi nazionale, si facessero tre versioni tedesche, e quattro edizioni. Fu inoltre esaminato e studiato nell’Ottocento dal Klein (Geschichte des Drama’s, VI, 1: Leipzig, 1868) e dal Lüder (C. G. in seinem Verhältnis zu Molière, Oppeln, 1883). In Italia, da poco ne ricavò giuste considerazioni Maria Ortiz, avendo voluto porre in luce Il canone principale della poetica goldoniana (Napoli, 1905). Certo la presente commedia rimane pur sempre up documento storico prezioso: rimane, ch’è meglio, un’opera di buon senso e di spirito, che si può leggere ancora con profitto dalla gente di teatro e con piacere da tutti.
G. O.
Questa commedia uscì la prima volta l’anno 1751, nel t. II dell’edizione Bettinelli di Venezia, ma parve poi all’autore che dovesse stamparsi in testa alla raccolta delle sue opere, a mo’ di prefazione. E infatti, tolta l’umile edizione di Bologna (Corciolani, II, 1753), in tutte le altre che seguirono, cominciando dalla paperiniana di Firenze, trovasi il Teatro comico nel primo volume, a iniziare la serie (Pesaro, Gavelli 1753; Torino, Fantino-Olzati 1756 e Guibert-Orgeas 1772; Venezia, Pasquali 1761, Savioli 1770, Zatta 1788, Garbo 1793; Livorno, Masi 1788; Lucca, Bonsignori 1788). — La presente ristampa fu compiuta principalmente sul testo del Pasquali, ma reca in nota le forme e i passi varianti delle altre edizioni. Le note a piè di pagina segnate con lettera alfabetica appartengono al commediografo, quelle con cifra al compilatore.