Il sorbetto della regina/Parte seconda/I
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CAPITOLO PRIMO.
Il conte Ruitz de Llamanda.
Sono proprio desolato di trovarmi in contraddizione con un personaggio così rispettabile come la madre di Lena, la quale pretendeva che i Ruitz fossero baroni alla corte e conti in città.
La verità è che il personaggio, che abbiamo intraveduto nel precedente capitolo, non era nè barone nè conte, che non era neppur Ruitz, ma Luitz e che Llamanda era una parola di cui amava poco l’ortografia e la pronunzia. Ciò che aveva indotto questo onorevole teutono a darsi questo feudo in Ispagna e a permettersi questa leggera alterazione ortografica nel suo nome, era stato uno scherzo della regina Urraca, spagnuola, la quale una volta aveva detto che bisognava bene che un giorno o l’altro lo facesse barone, perchè egli le ricordava il conte Ruitz de Llamanda, il suo portatore di torce ufficiale ad Aranjuez. Ora, Jacob Luitz, avendo una religiosa venerazione per la parola regale, considerò come bell’e realizzata la velleità augusta della regina e, senza aspettare le pergamene, si creò da sè stesso conte e barone.
E, poichè siamo in vena di svelare i segreti di questo grande personaggio, aggiungeremo che mastro Jacob non era altro, ahimè! che un embrione di groom del general Mach, quando l’imperatore Leopoldo inviò questo terribile soldato alla regina Carolina onde sbarazzarla delle petulanze della Repubblica francese. Dopo la partenza di quel guerriero, carico degli allori ben conosciuti, il piccolo Jacob restò a Napoli ed ottenne dalla regina Carolina la grazia di essere impiegato fra i criador y cuidador de lebreles del re, uffizio che consisteva presso a poco nel battere i cespugli alla caccia per farne uscire le lepri.
Ma il re Ferdinando, avendolo un giorno preso in isbaglio per una lepre e regalatagli una carica di pallini nella coscia, lo nominò per compensarlo manteguero a Capodimonte. A Capodimonte, Luitz batteva un burro così squisito, che la regina Urraca, avendolo assaggiato, volle conoscere l’artista; e l’artista essendole piaciuto al pari del burro, ella l’aveva alzato al grado di barauderos, dandogli l’incarico di accudire i canarini.
Jacob Luitz aveva sposato in Sicilia, ove aveva seguito la corte al tempo di Murat, una piccola siciliana, svelta ed accorta, che era cozinera della reyna Carolina. E siccome alla reyna piaceva il circondarsi di belle ragazze, ella la prese poi per sua amidonadora de courpos, cioè donna di servizio che fa seccare la cipria sul capo della regina quando esce dal bagno. E quella accorta donna era riuscita a farsi nominare canadora y fanadora dei principi reali, cioè quella che scaccia le mosche e le zanzare dagli augusti visi dei principi reali, quando la morì dando alla luce Cecilia.
Al tempo di Ferdinando I, che parlava il dialetto dei lazzaroni, si conservavano ancora a parecchie cariche di corte i nomi spagnuoli adottati al tempo di suo padre, lo spagnuolo Carlo III.
Mastro Jacob Luitz non era, dunque, che un semplice custode di canarini, che non avevano punto d’uopo d’essere custoditi, essendo solidamente rinchiusi in una gabbia; ma noi ci permetteremo di continuare a dargli il titolo di conte che tanto lo lusingava.
C’era una cosa però difficile a spiegare. Jacob guadagnava alla corte circa duecento lire al mese e teneva casa e treno da gran signore. Aveva dunque un altro impiego quel buon tedesco. Ma quale? Indovinate.
Bruto fu introdotto da Lisa in una stanza, che pareva un nido d’amore. I muri erano ricoperti di damasco rosso inquadrato in listine di legno dorato ed il soffitto abbellito d’un dipinto a fresco, che riproduceva la Venere del Tiziano, più svestita che il nudo esso stesso. Le mobiglie di legno di rosa, con ornamenti di bronzo dorato, tradivano le preferenze di Cecilia. Al capezzale del letto, un ritratto di Byron. Un busto in bronzo di Victor Hugo le serviva di fermacarte sopra il piccolo tavolino vicino al suo letto.
Ella stava sdraiata sopra una dormeuse di velluto, vicino ad una finestra che dava nel giardino. Sopra il tavolino e per terra giacevano qua e là volumi di poesie e di romanzi in italiano ed in francese. Una testa di morto in avorio, col quadrante di un orologio sul fronte, segnava l’ora. In un angolo della stanza si vedevano dei fioretti e degli scudisci. Fiori nei vasi di cristallo di Boemia: uccelli a mille colori in una gabbia dorata: un cane di Terranuova, sdraiato sopra un tappeto turco, presso il balcone ed un gufo sopra un piuolo.
Cecilia — che suo padre chiamava, non sappiamo perchè, miss Silla, o miss Cecilia, all’inglese — era una lionne, secondo l’appellativo alla moda in quel tempo.
Sarebbe stata ammirabilmente bella, se non avesse avuto i capelli rossi, ereditati da suo padre, cui odiava forse per questa ragione. I poeti, e quelli che le facevano la corte, avevano un bel cantare che aveva la capigliatura di Venere, dell’Aurora, di Lucrezia Borgia (che non li aveva rossi veramente, ma biondi dorati); avevano un bel chiamarla il toson d’oro, paragonarla alle trecce di Berenice che hanno posto nel cielo, come le stelle. Cecilia trovava i suoi capelli orrendi.
Quanto al resto, era bella di quella bellezza provocante che le veniva da due occhioni neri, inquieti, fiammeggianti sopra una pelle bianca come la neve. Non era grande, ma sembrava tale a causa della sua taglia fine, svelta, elastica, della testa che portava sempre alta, del piede inarcato, del passo voluttuoso ed elegante, di quel tal camminare, insomma, di cui si pretende che la sola Parigina abbia il secreto.
Cecilia montava a cavallo ed era molto abile alla scherma. Faceva versi, od almeno delle cose rimate. Leggeva molto bene quelli degli altri, rappresentava molto bene la commedia nei teatri di società, suonava il violoncello, cui chiamava la sua viola di trovatore, ballava la cachucha, decideva di questioni d’onore nei duelli e di questioni di blasone. Si aggiungeva (dalle sue rivali ben inteso) che teneva testa a chiunque nel bere sciampagna ed anche sherry.
Le si rimproveravano mille civetterie; ma non si poteva accusarla d’un fallo. Si citava però qualche cosa che non era stato in realtà che il principio d’una colpa.
Il re Ferdinando II, allora giovane, se n’era incapricciato e ne aveva ottenuto un convegno nel boschetto di quel Capodimonte, ove il conte Ruitz aveva fatto quel suo famoso burro. Or quel ritrovo era stato innocente quanto quello di Napoleone ad Arles, dove egli si limitò a mangiar delle ciliegie.
Il re Ferdinando si intrattenne a parlare con Cecilia del prezzo delle camicie, trovando che il suo fornitore gliele faceva pagar troppo care a venticinque lire l’una. Cecilia, che faceva viaggiare ogni metro di tela, venendo di Olanda, per le camicie di un re, al prezzo dei viaggiatori di prima classe, trovò, invece, che il fornitore le dava per niente.
Il re andò in collera per questa osservazione; credette che la sua futura Pompadour si fosse già posta d’accordo con i suoi fornitori per giuntarlo, ruppe il colloquio e diede ordine che la non fosse più ammessa a corte, ciò che desolò mastro Jacob.
Quando Bruto mise il piede nella sala di questa bella e giovine creatura, la si era assopita, col viso pallidissimo sprofondato fra le trine de’ suoi guanciali. L’Antony di Dumas, che stava leggendo, le era caduto di mano ed il suo bel braccio pendeva inerte.
Un respiro caldo e convulso sprigionavasi dalle sue labbra, scolorate adesso e contratte involontariamente dal dolore forse, dal cordoglio senza dubbio. Alcune goccioline di sudore offuscavano la fronte bianca e chiara. Le sue pupille si schiudevano un passaggio attraverso le ciglia, non ben serrate; ma la non vedeva punto; sognava. La sua mano sinistra si afferrava violentemente alla sua veste da camera di casimiro bianco.
Quando Lisa annunziò il dottore, Cecilia si risvegliò di soprassalto e raccomodò subitamente l’accappatoio mezz’aperto sopra il suo bel seno ignudo. Cecilia bruciava dalla febbre e Bruto arrivava mal a proposito per varie ragioni. La prima era questa: Cecilia erasi opposta alla proposta di farlo chiamare.
Non rispose, quindi, al saluto rispettoso del dottore e disse a Lisa:
— Alzami un poco e aggiusta i guanciali.
Non guardò Bruto, che prese da sè una sedia e sedette.
— Voi dovete trovare, signorina, diss’egli dopo alcuni istanti di un imbarazzante silenzio, voi dovete trovare che la mia condotta verso il dottor Tibia è stata poco delicata e che la mia presenza qui è una intrusione.
— Infatti, è vero, rispose Cecilia, guardandolo per la prima volta in modo sdegnoso.
— Avete ragione, replicò Bruto. Ho esitato lungamente avanti di decidermi a venire. Non già pel dottore che è un malfattore patentato; non a causa dell’opinione sfavorevole che doveva naturalmente precedermi qui; ma per me stesso. Io non era contento di me.
— Perchè siete venuto allora? Perocchè io non vi dissimulo punto che è stato mio padre che vi ha fatto chiamare.
— Perchè sono venuto? Un altro vi direbbe forse: per un sentimento d’umanità. Io vi dico colla sincerità di cui mi date l’esempio: per un istinto equivoco, per curiosità, — curiosità di uomo, che è cattiva, curiosità scientifica, che è nobile.
— Ora che avete soddisfatta la curiosità cattiva, addio, signore.
E, dicendo così, la si volse verso il muro.
— Signorina, se avessi saputo che era il conte e non voi che mi chiamava, non sarei venuto. La medicina non è che un giuoco di magnetismo. Quando il medico è antipatico, le ricette più sapienti sono impotenti. Dopo il congedo sommario che mi fate l’onore di gettarmi in pieno viso, nessuna ragione mi giustificherebbe dinanzi agli occhi miei, se restassi un minuto di più.
Bruto si alzò. Cecilia si rivolse con veemenza e sclamò:
— Ma, alla fin fine, cosa si vuole da me? non sarei io neppur libera di morire, di uccidermi, di lasciarmi uccidere? So benissimo che quell’idiota di Tibia mi assassina e lo conservo espressamente per questo. Siete soddisfatto, ora?
— Non è solamente il corpo, allora che avete ammalato, signorina; il vostro spirito è ancor più sofferente; o meglio, voi avete una ferita al cuore che sanguina.
— Al cuore? che facezia! Ascoltate questo, signore: io aveva dodici anni quando madama Ilemas, la maestra di francese della mia scuola, mi disse: “Cara figliuola mia, la felicità della vita d’una donna si riassume in una certa dose di atrofia, più o meno grande del suo cuore: più la donna sopprime di questo organo malefico e più ella è felice.„ Da allora in poi non ho mai saputo se il posto del cuore sia a dritta o a mancina; se sta nei miei stivaletti, o nel mio petto.
— Voi vi calunniate con compiacenza, signorina. Non si confessano di queste cose, quando le sono vere.
— Ho la febbre, ecco tutto. Non val la pena che mio padre s’inquieti e disturbi la gente. Tibia è sufficiente per quello che ha da fare. Non è mestieri mettersi in due per uccidere una donna.
— Se è un suicidio che meditate, uno solo è anche di troppo, avete ragione, ed il mio posto non è qui.
— Un complice v’imbarazza, dunque? disse Cecilia provando di sorridere.
— La vittima mi fa pietà.
— Diffido di questa parola pietà. Nella bocca di un prete la sopporto già con impazienza; in quella di un medico la è un oltraggio. Contentatevi della bugia della scienza, signor dottore.
— Credete, dunque, signorina, che un uomo a ventiquattr’anni possa veder morire una bella creatura di venti, senza provare nessuna emozione?
— Ma gli è a quell’età, appunto, che l’uomo è omicida. Che età aveva il signor Lauzun? Che età il duca di Richelieu? E don Giovanni? Che età ha l’Antony cui leggo in questo momento?
— Signorina, io sono molto ignorante della scienza del cuore. Può essere ch’esso abbia degli impulsi sinistri, dei movimenti spaventevoli e feroci al morale; io non ho studiato il cuore che nelle sue sofferenze materiali. Altri più fortunati nel piacervi, intraprenderanno questa doppia guarigione, del vostro cuore e della vostra salute sì duramente compromessa. Io, per me, mi ritiro, profondamente scosso da questa memoria di un’anima ammalata. Perchè mai sappiamo noi così poco!
— Il dottor Tibia non dice punto così.
— Egli è fortunato di credere nella sua scienza e che il chinino guarisca tutte le malattie, anche quelle d’amore.
— Ma la è un’impertinenza, signore! Chi vi autorizza a credere che io ami?
— Non si nascondono lungamente le ferite, signorina. Arriva sempre un istante in cui il morale è vinto dal fisico. Tutto ciò che è stato detto e scritto in contrario, a proposito degli eroi e dei martiri, è poesia, o vanteria. Voi, del resto, sapete che siete ammalata ed io lo vedo chiaramente.
— E che cosa ho allora?
Bruto restò un momento a riflettere, poi mormorò:
— Povera figliuola!
— Voi dite? replicò Cecilia sollevandosi sul suo gomito.
— Noi abbiamo, signorina, dei nomi greci per le malattie. Siccome voi probabilmente non sapete il greco, ed io non arriverei mai a tradurre questa parola in un italiano conveniente, vi fo grazia del nome. D’altronde non aspiro a prestarvi le mie cure. Cercar di guarirvi, gli è uccidervi.
— Giuocate, dunque, agli enigmi, dottore?
— Io non giuoco di nulla, signorina. Non son mica poi ancora tanto incallito nel mestiere per vedere in una bella giovane, come voi, semplicemente una sorgente di lucro pel mio bilancio di rendite.
— Vi fo grazia del vostro disinteresse, dottore. Non siete stato chiamato per questo, credo. Voglio tenermi altresì Tibia e seguire i suoi consigli; ma voglio avere la coscienza di ciò che fo. Ora agisco per istinto; quando m’avrete detto che v’è un mezzo per salvarmi, sarò contenta di me stessa e della risoluzione che sarò per prendere.
— Sia pure, disse Bruto: ecco il mio consiglio. Se persistete nell’idea di suicidio, continuate a prendere le tisane che vi vengono prescritte, continuate ad indebolirvi, ad avvelenarvi, aggiungete combustibile alla fiamma interna che già v’invade. Se volete vivere, non fate più nulla, nulla alla lettera. L’incendio, che già divampa, si estinguerà forse da sè solo. La natura riprenderà i suoi diritti; la gioventù è benefica nelle sue influenze e l’avvenire dirà la sua ultima parola.
Cecilia si sciolse in lagrime ed esclamò:
— Andate via, andate via! non voglio più veder nessuno.
— Vivete, signorina, disse Bruto commosso. Basta il male che ci viene da Dio; non aggiungiamone colle nostre mani.
Ed uscì. Il vecchio domestico del conte, che lo aspettava nell’anticamera, lo pregò di passare dal padrone, che desiderava di parlargli.
Bruto entrò nello studio.
— Ebbene! chiese il conte poco ansioso della sorte di sua figlia, ma squadrando da capo a piedi il giovine dottore.
— Signor conte, rispose Bruto, sedendo sopra un divano, come vuole che io le parli?
— Come?
— Sì; mi è indispensabile il saperlo.
— In italiano, per bacco, rispose don Ruitz, a meno che non preferiate il tedesco.
— No, no, amo meglio l’italiano, che è più preciso. Ella desidera, dunque, di conoscere la malattia di sua figlia?
— Mi pare che, quando si chiama un medico, la sia una curiosià permessa.
— E se fosse un’indiscrezione?
— Capisco. Per un marito, per un amante, per uno straniero, ci potrebbe essere indiscrezione in certi casi.
— Il dottore Tibia non le ha, dunque, detto nulla?
— Credo di non averlo ancor veduto. È Lisa, la cameriera, che mi ha parlato della malattia di mia figlia. La povera fanciulla non voleva affliggermi.... capite?
— Perfettamente.
— Dunque, che cosa ha quella cara piccina?
— Una grave disgrazia, più che una grave malattia, signore; la è incinta.
— Avrei dovuto aspettarmelo! disse il conte con voce sommessa, ma non turbata.
— Si è tentato di riparare a questa sventura.
— E si è riusciti? chiese il conte vivamente.
— La natura ha resistito. Sua figlia si vuole uccidere.
— È ciò che avrebbe di meglio a fare; l’è il seguito il più logico di questa sorte di scappucci.
— Non intendo nulla di codesti seguiti logici. E siccome io non sono un carnefice nè un assassino, ho detto la mia opinione e mi ritiro.
— Voi non vi ritirerete, signore, disse il conte con aria risoluta.
— Anzitutto la signorina mi ha congedato, signor conte; ma, m’avesse ella anche pregato di prestarle le mie cure, avrei rifiutato; io non presto la mia mano e la scienza a simili opere.
— Qual, è dunque, il vostro consiglio, signore?
— Arrestarsi sulla via intrapresa e lasciar operare la natura.
— Non corre pericolo per ora?
— Le sono stati dati dei rimedi violenti, che hanno cagionato indubbiamente un principio d’infiammazione. Forse ciò svanirà da sè; ma sarebbe meglio venire in aiuto alla natura con dei calmanti e dei rinfrescanti.
— Io scaccio il dottor Tibia, signore. Continuate a prestar le vostre cure a mia figlia.
— Non posso. Ho la disgrazia di non andarle a genio; e, le ripeto, mi ha congedato.
— E se fosse lei che vi richiamasse?
— Rifletterei, rispose Bruto alzandosi e salutando in atto di partire.
Il conte l’accompagnò fino alla porta e gli disse:
— Dottore, sapreste dirmi qual è la prima virtù d’un medico?
— La discrezione, rispose Bruto ed uscì.
— Grazie! gli gridò il conte.