Il sistema de' cieli (1797)

Carlo Gastone Della Torre di Rezzonico

1797 Indice:Poemetti italiani, vol. IV.djvu Poemi Il sistema de’ cieli Intestazione 13 marzo 2025 75% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Poemetti italiani, vol. IV



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IL SISTEMA DE’ CIELI

POEMETTO

DEL CONTE

GASTONE DELLA TORRE

DI REZZONICO.

O candido censor di quante vergo
Di vigile lucerna al cheto lume,
O sul roseo mattin Delfiche carte,
Caro a le Muse, ed al cetrato Apollo,
Del mio libero canto oggi tu sei
L’auspice degno, e nel sermon de’ numi
M’udrai narrarti qual tessendo inganno
Io vada a gli ozj del pomoso autunno
In questa solitudine tranquilla,
Dove inculta Natura offremi intorno
Sparse sul monte antiche selve, e case
Rustica vista. Ma ben altre ascendo
Su forti vanni, onde m’impenna il tergo
La severa d’Urania amica destra,
A vagheggiar non conosciute piagge

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Dal volgo indotto, e là mi spazio e godo
Volgere per l’immenso etereo vano
Imperioso a mille mondi il guardo.
La cetra allor, che di sì lunga via
Pende, dolce conforto, a me dal collo,
Oh come va d’armonico tremore
Ondoleggiando irrequieta, e come
Sento che tese a maggior suon le corde
Sdegnano mai l’usato tocco, e quello
Chiedon di Caro e di Manilio in vano!
     Non però sempre del pensier m’innalzo
Sul volo audace, e per le mute vie
De l’oscure contrade Archimedee
Non sempre io mi raggiro. Ah! tu ben sai
Quante s’usurpi delle nostre cure
La creta vil che la divina parte
Chiude de l’aura che spirò sull’uomo
Il motor primo de le cose; e sai
Che di seguir le non intese leggi
Dell’arcano commercio in van ricusa
Fervido il sen d’Omeriche faville
Vate sul Xanto, o con Eulero a scranna
Lettere, e cifre a variar non lento
Calcolator filosofo profondo.
Alfin cedere è forza. I lievi spirti
Per la nervosa region dispersi
Un lungo meditar consuma, e pasce,

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E le troppo percosse imbelli fibre
Fan che l’alma risenta il loro affanno.
     Or odi come fra la doppia cura
Di dar ristoro al giovin corpo, e l’alma
Nudrir di filosofico pensiero
L’ore divida. Non sì tosto il sole
Del Pacifico mar notte lasciando
Su l’acque immense, ed in silenzio il vasto
Messico padre di molt’oro, e Cuba,
L’opposta parte del volubil globo
Orna, e riveste di purpurea luce,
Ch’io balzo fuor de l’agitate coltri,
E con umil preghiera al del rivolgo
I pensier primi, che nel mondo errante
”Non si comincia ben se non dal cielo”.
Abil coppier frattanto agita, e mesce
Col dentato versatile strumento
La mattutina d’oltramar bevanda,
E in lucida la versa eletta tazza
Del camuso Chinese aureo lavoro.
Fervida s’alza la disciolta droga,
E di fragranza liquida, e di spume
Ricca sovra il capace orlo colmeggia.
Ve’ come intorno a lei cadendo il raggio
Vi spiega i bei colori, onde fra nembi
D’Iride il variato arco si tinge!
Ma di tante ricchezze alfin la spoglia

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Il mio labbro digiun che a sorso a sorso
Va quel salubre farmaco libando,
E per dolcezza non invidia allora
Il nettare che largo in ciel mescea
A la mensa de’ numi il buon Vulcano.
     Pieno così di nobil foco a l’aure
Apro grand’ala che varcar non pave
Gl’immensi tratti del profondo cielo,
E non de la bivertice montagna
Volo su l’erta, ma laddove Atlante
Vastissimo sul curvo omero torce
L’asse ardente di stelle, e geme al pondo
De l’armoniche sfere. Ivi di schietto
A’ raggi permeabile cristallo
Ruotan due cieli, e il mobil primo e sparso
D’astri minuti firmamento. In mezzo
A’ lumi erranti, a l’instancabii sole
Sul non movibil asse alto librata
Pende la terra neghittosa, e sta.
Ma, mentre pingo arabe cifre, e segno
Per l’artifizio di volubil punta
Di bifido compasso orbite, e globi,
Ecco tocca del monte arduo le cime,
Su geometre penne remigando
Filosofo Boruzzo armato il braccio [1]

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D’aspra per molti nocchi Crculea clava,
E fermo su due piè contempla i giri
Di tante sfere, e non fa motto. A lui
Sta fra le rughe de la fronte sculto
Ponderamento astronomo e novello
Del Peripato sprezzator pensiero.
Non serba il volto un color solo, e torvo
Sembra guatar del mobil primo il corso,
Che da l’orto a l’occaso, immensa via,
Seco in un giorno i ripugnanti cieli
Turbinando rapisce, e volve in giro.
Or gli epicicli de’ pianeti, e il vasto
Eccentrico rotar laberinteo
Fremendo osserva, or dal littoreo cancro
Al capro de l’Esperia onda tiranno
Il sol vagante, e la mutabil luna.
Indi, la vista gravemente tarda
A Saturno volgendo, a Giove, a Marte
Si meraviglia di vederne i corpi
Ne l’opposta del ciel parte sublime
Più grandeggiar a noi movendo intorno.
Sdegnosamente alfin dietro le spalle
Gittando alto la clava ponderosa
Sfende il cristal girevole, e de’ cieli
Sfascia i solidi cerchi. Ululi e fioche
Voci confuse al vasto rovinio
Mettono l’ombre a passeggiar le Stoe,

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E ’l frondoso Academo un tempo avezze,
E gli ombratici Sofi, e ’l servo gregge
Che del tiranno Stagirita al nome
Trema, e ne’ detti del maestro giura.
Ma sotto intanto a’ replicati colpi
Cigolando dicrollasi, e rovina
Il sognato del ciel macchinamento,
E Tolomeo da lunge in van sospira.
Già leva Atlante dal penoso incarco
Libero il collo, e le marmoree spalle
Meravigliando; ne la fulva arena
Splendono i pezzi dell’infrante sfere.
A le rovine il vincitor Borusso
Esulta in mezzo, e da sue voci scosso
D’altri Sofi antichissimo drappello
I tacit’antri, e le pensose selve
Lascia d’Eliso, e con maestra mano
Il confuso de’ cieli ordin corregge.
Ferve l’opra immortal. Facili i numi
Al gran lavoro aspirano che giacque,
Colpa di cieca opinione, avvolto
Di smemorati secoli fra l’ombre.
     Già de’ corsier foco-spiranti Apollo
A Pittagora cede il fren gemmato,
E rimembrando pur l’acerbo caso
De l’inesperto agitator d’Eoo
Le gote irrora di paterno pianto.

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Ma il savio Auriga a l’universo in mezzo
Forma le rote del volubil carro,
E dal timon gli alipedi discioglie.
Quegli esultando per gli eterei campi
Qua, e là sen vanno senza legge, e molta
Da fli agitati crin fiamma si spande,
Finchè vogliosi del notturno albergo
Nel profondo s’attuffano del mare,
E non ascoltan più l’ingrata voce
Del mattin, che da l’onde in ciel li chiama.
Ecco Nettuno da l’azzurre chiome
A Filolao sdegnoso offre il tridente
Scotitor de la terra. Egli a due mani
Nel sen lo vibra de l’inerte globo,
E dal centro del mondo al fin lo svelle.
Con molta forza l’urta indi, e lo spinge
Su l’ampio calle che traendo il lume
Stampò d’orma immortale Eto e Piroo.
Segue la terra, e variando l’anno
Va da se stessa dal monton Friseo
Di segno in segno obliquamente a’ muti
De l’acque un tempo or cittadin del cielo.
Ma de la terra a neghittosi perni
Eraclide, ed Ecfante, anime audaci,
Già dan di piglio, e rotear su l’asse
La sforzan da l’occaso al lucid’orto,
E le alternan col moto il giorno e l’ombra.

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     Di nuovo allor con più sicura mano
Godo impugnar l’agevole compasso,
E di proporzion la varia legge
Fido serbando in picciol foglio stringo
Il novello degli astri ordine e corso.
Occupa il sol dell’universo il centro,
E a lui vicino in breve cerchio volge
Del celebre Mercurio il picciol globo.
Segue, ma quasi in duplice distanza
Dì tremolo splendor lampi vibrando
L’astro del dì, l’astro forier de l’ombre.
Indi la terra non più pigra, e seco
Volve il pianeta che sdegnando in pria
D’ogni numero il fren vagava in cielo
De l’altre stelle regnator bicorne.
Sola poi vien la rubiconda stella
Del fero Marte, e dopo lui l’immenso
Giove che tanto gli è lontan quant’esso
Dal sol due volte. In così vasto campo
Forse alcun’altra de l’erranti stelle
Ruota da noi non conosciuta, e forse
Suo picciol disco, e per gran macchie oscuro
Fe’ sì, che in van de la ritrosa in cerca
Al notturno favor di doppia lente
Vagò pel ciel l’astronoma pupilla.
Quattro pianeti a l’età prisca ignoti
Seguon di Giove imperioso i passi

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A lui rotando intorno. Alfin la pigra
Del gelato Saturno oscura mole
Vien con cinque seguaci al largo anello
Che la circonda, alteramente in mezzo.
     Qui d’un tenace meditar mi lascio
In preda tutto, e de l’aperta palma
Letto facendo a la pensosa fronte
L’Ellitico girar de’ sette globi
Ammirando contemplo. A tutti in mezzo
D’un maestoso riposar contento
Il sol risiede qual Monarca, e spande
Con potente vibrar di sue minute
Parti agitate da gagliardo moto,
Onde immobile altrui volge se stesso,
Su vassalli pianeti a’ rivi, a’ fiumi
La rosea luce, ed il calor. Ma quale
Di non sognate qualità tesoro
Schiudemi il padre di color, che sanno?
Io certo io vidi balenar di rai
Questa al dotto silenzio amica valle,
E scender d’alto maestosamente
Lungo la riga d’or l’alma Britanna.
Mille sovra l’occhiute ali d’intorno
Erravano al gran padre aerei Silfi
Di trattar vaghi la volubil Sesta,
E l’angoloso prisma, e de’ segreti
Spiatrice del ciel l’ottica canna.

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Fida compagna da prim’anni al fianco
Geometria gli stava, e l’accigliato
Calcolo instrutto di possenti cifre
Superbo domator de l’infinito.
Sotto al suo piede il gemin’arco avea
Steso alternando la viola, e l’ostro
L’ali-dorata figlia di Taumante
Che troppo in ciel de la sdegnosa Giuno
Odiando l’impero, alfin si feo
Del tranquillo filosofo compagna,
E messaggiera, da che vide il raggio
Ne l’angolar tersissimo cristallo
Per lui rifratto lumeggiar le sette
Tinte del suo bell’arco, e i vivi escirne
Misti colori, onde s’abbella il mondo.
Ma la consorte del Tonante e suora
Bieca mirò la fuggitiva, e in darno
A lei davanti per temprarne il duolo
Spiega il pavon le gemmi-sparse penne.
     Così pel ciel la grave ombra movea
Del mio Neutono. Al suo venir la valle
Tacque, e la selva, e per udirne i detti,
Immemori del suon, corsero a gara
Dal colle i fauni, e su la patria riva
Drizzarono l’ondosa urna le ninfe.
     Io più volte l’udii l’ascose leggi
Di gravità spiegarmi, e dolce ancora

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La dotta voce nel pensier mi suona:
Vedi, dicea, que’ sette Globi? Il centro
Di que’ moti è nel sol. La vasta massa
De l’infocato suo terreno attragge
Ogni minor pianeta, e con tal forza
Stende su lor di gravità l’impero
Che dovrebbero tutti a lui nel grembo
Piombar miseramente esca aggiungendo
Di quel liquido foco a l’ampio mare.
Ma provvido a’ pianeti un retto impresse
Corso il gran Fabbro, e bilanciollo in guisa
Col tiranno poter che al centro inchina,
Che d’ambo uniti ne compose un curvo
Inalterabil raggirante moto,
Onde al lucido sol fanno corona.
Ma l’attraente forza ognor decresce,
Se lunge move dal suo centro il corpo,
E se de gli astri l’inegual distanza
Tu replichi in se stessa, anco saprai
Dal numero che quadro indi n’emerge,
Quanto il vigor di gravità si scemi.
Nota non meno ti sarà qual tempri
Armonica ragion le corse vie
Del pianeta rotatile col tempo,
Se di Keplero ascolterai la voce,
Ch’alto rimbomba per l’etra profondo,
E gli astri infrena, e n’equilibra i moti,

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Tal che in se stesso riferito il tempo
Alla distanza cubica risponde
Ch’hanno fra lor l’erranti stelle in cielo.
     Ma la severa numerosa legge
Ch’a gli spazj, ed al tempo incider seppe
Su le celesti tavole il Germano,
Legge è non men di gravità, che tutte
Con forza pari a la lor mole attrae
In ciel le stelle, e su la terra i corpi.
Per lei volge sì ratto al sole intorno
Il picciolo Mercurio, e così lento
Il remoto Saturno oltre sen va.
E l’Ocean che vicendevolmente
Le terre allaga, e ne l’antico letto
Librandosi in se stesso alto ritorna
Per forza sol d’attrazion si spande,
E si raccoglie in liquide montagne,
Docil seguendo il corso de la luna,
Tal che più s’erge minaccioso, e freme
Il versatile fiotto allor che piega
Cintia di nuovo su la fronte il corno,
O del fratello la raggiante immago
Tutta ripete in mar dal pieno volto.
Nè le comete, benchè tanta in cielo
Volgano elisse oltre Saturno, e tanto
Abbian lenti ritorni, a quella legge
Sottrar si ponno; che la chioma al sole,

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Da cui riarse il vaporoso crine
A’ purpurei tiranni, al cieco volgo
Stendono di terror lungo argomento.
     In van ti fende di Cartesio il dotto
Immaginoso architettor pensiero
De gli elementi suoi le parti in quadro,
E te le finge in van da doppio moto
Fervidamente in vortici aggirate
Tal che l’urto fra lor gli angoli franga,
E la sottil materia indi nascente
Vuoto non lasci. Impenetrabil sono,
E solide le parti, ond’è composta
De l’universo la materia, e nulla
Scorrer potrebbe, e mutar forma, e sede
Se vuoto alcun non si distinguesse i corpi.
Vuoti dunque del ciel sono gl’immensi
Ceruli campi, ove sciogliendo il corso
Volvon pianeti per riflessa luce
Chiari ne l’ombre, e di splendor natio.
Mille vibrano rai lontani Soli,
E del peso, e del moto insiem composte
Seguon le leggi, onde s’annoda il mondo.
     Or l’infinita provvidenza, e l’arte
Di lui che primo d’un sol verbo impresse
A la materia inoperosa i moti,
Tacito ammira, ed i ravvolti in fosca
Geometrica nube ardui segreti

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Osa meco tentar. Denso e compatto
Più d’ogn’altro è Mercurio, a cui sì presso
Il sol lampeggia dalle vampe Etnee;
Venere è densa meno, e più lontana,
Ed in ragion de le distanze varie
La densità si scema, e scema il moto.
Tu ben t’apponi, che se men veloce
Fosse Mercurio a rivoltar su l’asse,
O se men densa di sue parti avesse
La marmorea testura, in breve fora
Arso, e disciolto dal propinquo ardore.
Ma quale incrudelir d’alpine nevi
Stagion dovrebbe, e d’iperboreo ghiaccio
Ne l’orride contrade di Saturno,
Se di maggior crassizie il Fabbro eterno
L’avesse cinto, e se col lungo giorno
Che gli fanno goder sue tarde ruote,
Non ristorasse il mal che lo flagella
Nel cerchio estremo sì lontan dal sole?
     Pur così dotto magistero a nulla
Giovar potrebbe, se d’alpestri massi,
E di non abitate ispide terre
Fossero que’ pianeti un’aspra mole.
Dimmi, che fan le quattro lune intorno
Al vastissimo Giove, e le altre cinque
Rischiaratrici del lento Saturno
Col sottil giro del capace anello,

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Ond’egli va superbo? In van natura
Nulla creò, né de la cheta notte
Ad ingemmar soltanto il fosco velo
D’immensa mole fe’ pianeti, e mille
Nel liquido seren lampade accese,
E il corso volle armonizzarne, e l’ore.
Luce maggior di verità foriera
Meco sul grave ragionar ti spanda
Il Fiorentin che a’ non tentati cieli
Co’ l’ottica sua canna assalti diede,
E ne la notte ne spiò gli arcani.
A gara dopo lui cento saliro
D’Urania figli a l’ardue torri in vetta
E d’argolico scudo, o di Febea
Lampada in guisa sollevar fur visti
Sferiche moli di cristallo, e tubi
Che avidamente si stendean ne l’ombre
Ad indagar co la rifratta luce
De gli attoniti cieli ogni segreto.
Io poi del vario-refrangibil lume
L’indocile a frenar indole intento,
In concavo metal l’accolsi in pria,
E d’altro specchio il rimandai sul cavo
Minor circolo opposto, onde riflessa
N’andò de’ rai la colorata riga
A l’occhio armato di globosa lente,
E men confusa, e più vivace apparve

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La fida immago de l’esterno obbietto.
     Tu di questo, o del primo ottico tubo
Avvalorando il curioso sguardo,
Allor che mezza de la propria notte
Tace ne l’ombre la volubil terra,
Veglia fra merli di solinga torre,
E le stellanti chiostre al guardo appressa.
Ma pria, novello Endimione, il volto
Fiso contempla de la bianca luna
Che quale a lui ne l’amorose grotte
De la Latmia pendice, a te di furto
Par che s’accosti per l’aria serena,
E al lucid’occhio la lucente ampiezza
Fa grandeggiar del maculato disco.
Oh! quai di cavernose orride valli
E di pianure, e d’isole prospetti
T’offre il pianeta regnator de l’ombre!
Le decrescenti sparse macchie, e l’aspre
Ad ora ad ora lumeggiate parti
Son valli, e monti, son lagune, e mari
D’isole sparsi, e di minuti scogli
Che l’Apollineo raggio in varie guise
Riflettono a lo sguardo; e tal darebbe
Spettacolo giocondo il suol che calchi,
Se tu da l’orbe de l’argentea luna
Mirar potessi quanto apre e circonda
Da Calpe profanata a l’Adria estremo

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Il doppio mar, campo de’ venti, e in mille
Contrade l’apennino arduo comparte.
Ma mentre ei si favella in ver l’occaso
Oltrepassata la metà del giro
Volge sul polo aquilonar l’Europa,
E l’apennin di più lunga ombra il piano
Stampa d’Emilia co’ le negre spalle.
Già del bianco mantil vestito il desco
Grato fumeggia di vivande invito
Più che non l’epa dal digiuno asciutta
Fa del valletto vigile la cura,
E me dal lungo meditar richiama.
Ma qual fumo a le lievi aure commisto
Rapida al suon de la profana voce
Del filosofo l’ombra si dilegua,
E i mirti consapevoli, e gli allori
A bear torna de l’aurito Eliso.


Note

  1. Nicola Copernico nacque in Thorn città della Prussia l’anno 1472.