Il sigillo d'amore/Il tesoro degli zingari
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IL TESORO DEGLI ZINGARI.
La notizia del tesoro ritrovato dagli zingari arrivò anche alla piccola Madlen, che da settimane giaceva malata nella prima tenda del loro accampamento; e non l’avrebbe distolta troppo dal suo soffrire senza i particolari misteriosi coi quali la sorella maggiore l’accompagnava.
— Pare sia stata la vecchia, a sognarselo. Sentiva come un rumore d’acqua, sotto la testa, mentre dormiva; e vedeva una grande luce. Allora hanno scavato, lei e il figlio, e hanno subito trovato un vuoto, perchè pare che qui sotto esistano grotte profonde, dove si nascondevano i cristiani e vi seppellivano i loro morti. Il tesoro è, dicono, dentro un vaso di oro: non si sa di preciso in che consista, forse in monete, forse in diamanti. A guardarci dentro, nel vaso, viene un barbaglio che acceca. La vecchia piange e ride; pare divenuta matta, mentre quel barbone del figlio è più nero che mai: non parla con nessuno e non si allontana più dalla loro tenda.
— Essi sono i padroni, — mormorò Madlen, volgendosi verso la parete di tela. Pareva infastidita; eppure da quel momento il pensiero del tesoro le alleggerì il mal di testa e il dolore alle reni che la stroncavano tutta. Il tesoro, infine, apparteneva a tutti; perchè tutto, nella tribù, era della comunità. Dunque apparteneva anche a lei, e lei doveva rallegrarsene, o almeno interessarsene. Non che le premesse il valore delle cose contenute dal vaso: ma il mistero delle cose stesse, e quella luce che emanavano.
Che cosa sarà? Qualche cosa più fulgida degli zecchini, delle sterline, delle perle false e delle patacche rilucenti che brillano sui corsetti delle sue parenti e compagne: qualche cosa che non si può fissare, come il sole. Ma il sole lei era buona a fissarlo, quando stava bene, e dentro il vaso d’oro lei sola, forse, è capace di guardarci a lungo come dentro un pozzo senza fondo.
Prima che la vecchia e il figlio lo lascino vedere ci vorrà del tempo, però. Loro sono i capi della tribù: veramente il capo dovrebbe essere il figlio, ma è talmente attaccato e ligio alla madre, che la vera padrona di tutti è lei. Lei tiene la cassa della comunità, lei impartisce ordini, da lei dipende lo stare in un posto o nell’altro: lei presiede ai lavori degli zingari magnani e ramai; infine è lei che adocchia se c’è qualche cosa da prendere nei dintorni e comanda sia presa, o se la piglia lei senza far chiacchiere.
— Adesso possono anche far venire il dottore a visitarmi, — pensava Madlen, rivoltandosi con dolore nel suo giaciglio. — Io sono stanca, stanca, stanca.
E più che stanca si sentiva infinitamente triste: il pensiero che la morte poteva dar fine al suo male non le passava neppure in mente: la sua mente, anzi, era piena di immagini di vita, e questo continuo impotente fantasticare accresceva la sua stanchezza.
Dall’apertura della tenda intravedeva l’officina primordiale dove gli zingari, coi calzoni di velluto nero e la camicia gialla o turchina, lavoravano il rame. I bei paiuoli dalle cupole splendenti, le teglie rotonde che luccicavano al sole, le padelle fuori d’oro e dentro di argento, le richiamavano continuamente al pensiero il misterioso vaso ritrovato dai capi della tribù.
Eccola lì, la vecchia, con le mani sui fianchi, alta e dura come una regina. Dall’ampia sottana rossa pieghettata si slancia la vita sottile circondata d’una cintura di perline: un fazzoletto verde e viola le stringe la testa serpentina, e dalle orecchie le scendono, coi lunghi pendenti, due treccioline bianche con due uncini in fondo. Anche il viso pare tinto con la terra gialla e il bistro; gli occhi dorati, il naso, le dita adunche, ricordano un qualche uccello da preda. Va di qua, va di là, osservando tutto, parla con la più giovane e bella delle zingare, quella che con gli occhi che sembrano finti, di cristallo nero, legge la sorte sulla palma della mano sinistra ai giovanotti che s’avvicinano all’accampamento; infine si ferma davanti alla siepe sopra gli orti intorno e forse osserva se c’è qualche cosa da prendere.
Madlen la segue con uno sguardo fra di ammirazione e di odio. Di lei ha una grande stima, mista a terrore, perchè oltre il resto la sa brava a fare sortilegi: ma dal giorno della notizia del tesoro sente anche di odiarla. Il tesoro appartiene a tutti: perchè dunque non lo lascia vedere, almeno vedere, se non toccare? E perchè non spende una delle monete ritrovate, per chiamare il medico?
— Io sono stanca, stanca, stanca, — ripete fra sè Madlen; e chiude gli occhi per sentire meglio la sua infinita stanchezza.
Le pareva che la sua pelle se ne andasse, attaccata agli stracci che la coprivano; che le ossa si disgiungessero, e si bucassero come quelle dei morti.
La notte, specialmente, era lunga e tormentosa; anche se i beveraggi di estratto di papavero e di lattuga, preparati dalla madre, la facevano sonnecchiare. Sogni terribili le finivano di succhiare il sangue.
E la mattina presto, quando il canto del gallo le faceva intravedere il rosseggiare dorato del cielo, e gli zingari si alzavano uno dopo l’altro, tutti, anche i più piccoli, e si sentivano tossire, ridere e starnutare, intorno ai fuochi che fuori le donne accendevano; e lei sola rimaneva nel suo giaciglio, straccio fra gli stracci, e la pelle d’orso che la copriva, puzzava e pesava come ancora grave del corpo della bestia, una tristezza senza conforto le invecchiava l’anima e il viso. In fondo però la speranza non l’abbandonava. Solo una mattina provò un primo senso di disperazione. Era il lunedì dopo Pasqua: svegliandosi dopo una notte più febbrile delle altre, ella sentì qualche cosa di insolito fuori nell’aria e nel recinto della tribù, e nel crepuscolo stesso della capanna dove i suoi parenti giù si agitavano e qualcuno anche mangiava e beveva. La pelle d’orso le pareva più pesante del solito, più repugnante e paurosa, come fosse l’orso vivo; mentre la polvere sollevata dalla madre nel pulire il pavimento con uno straccio le ricordava quella delle strade nei caldi giorni di estate e di gioia.
D’un tratto si mise a piangere infantilmente. La madre, che era la sola a curarsi di lei, e non troppo, le fu sopra, spaurita. Da quando era malata, Madlen non aveva mai pianto: adesso i suoi stridi parevano quelli di un bambino appena nato, dolorosi e incoscienti e senza ragione.
— Che hai? Che hai? Ti senti male?
Madlen volse il visetto livido contro il guanciale, sotto la matassa intricata dei capelli oleosi, e parve vergognarsi del suo pianto. La madre la rivolse in su, la sollevò, le aggiustò il giaciglio: poi le fece bere un po’ di caffè freddo con acquavite: e credette che la piccola avesse la febbre, perchè toccava con ripugnanza la pelle d’orso e diceva:
— Levami questo, levami questo: ho paura.
— Di che hai paura, piccola stella? L’hai tenuta sempre addosso, e ti piaceva. Adesso avrai freddo.
— Non vedi che c’è l’orso? — strillò Madlen, con terrore, torcendosi tutta.
— Va bene, me la metterò io, — disse la sorella maggiore, tirando giù dal lettuccio la pelle calda: e vi si sdraiò subito a pancia in aria come un gatto al sole.
La madre credeva che Madlen avesse la febbre forte; forse era al termine della sua malattia e doveva andarsene. Bisognava avvertire la vecchia.
Di solito era la vecchia, che curava i malati; nella sua tenda esisteva un piccolo reparto farmaceutico, e lei distribuiva continuamente il chinino agli zingari, e preparava unguenti contro le malattie della pelle: per questo aveva fama di fare stregonerie.
Fu chiamata presso Madien: il solo suo entrare maestoso e luminoso nella capanna fece bene alla fanciulla. Le parve che il sole stesso, coi suoi zecchini scintillanti e il rosso il giallo il viola dei suoi raggi guardati ad occhi socchiusi, si affacciasse all’apertura del suo triste covo. E quando le dita sottili della vecchia, dure e rossastre come i pampini secchi, le toccarono il polso e le sollevarono le palpebre, rabbrividì tutta.
— Adesso le domando che mi faccia vedere il tesoro. Adesso le dico che è di tutti; che deve farlo vedere a tutti, — pensava con audacia. Ma non osava neppure guardarla in viso ed anzi aveva paura che quella indovinasse i suoi pensieri.
Dopo aver bevuto un bicchierino d’acquavite offertole dalla madre della piccola malata, la vecchia andò sull’apertura della tenda e sputò fuori.
— La bimba non ha niente, — disse, senza voltarsi. — Piuttosto dovreste metterla un po’ fuori, al sole. Oggi è davvero una giornata di primavera.
Madien fu rivestita dei suoi stracci e messa fuori, sulla pelle dell’orso stesa sull’erba, nell’angolo dell’accampamento dove il sole batteva più forte. Ella volle portare con sè una cosa che teneva nascosta sotto il guanciale, la sua unica proprietà, uno di quei piccoli specchietti che le donne tengono dentro le loro borsette, e che al tempo dei tempi, quando correva scalza con gli altri ragazzi, uno di questi aveva preso alla bella zingara che leggeva la sorte, e ceduto a lei per un soldo nuovo.
Ella teneva lo specchietto nascosto, per paura che la zingara glielo vedesse; ma aspettava il momento opportuno per trarlo fuori e servirsene per giocare col sole.
Il sole era lì, sopra di lei, caldo e buono; la copriva tutta, le penetrava attraverso i poveri vestiti che pur nella miseria conservavano i colori vivi che danno gioia agli occhi, le gonfiava le matasse dei capelli come le piume bagnate degli uccelli quando si asciugano in cima al ramo. Ed ella provava invero un senso di gioia e di sollievo come devono sentirlo gli uccelli dopo la bufera: la sua pelle si dilatava e il sole penetrandole fino alle ossa gliele ricomponeva e riallacciava.
Si stese supina e tentò come altre volte di fissarlo, il grande sole; ma gli occhi erano deboli: li chiuse e le parve che l’azzurro vivo del cielo le coprisse il viso come una stoffa di seta. E sotto questa meravigliosa coperta si addormentò.
*
Questa cura le giovò meglio che se avessero chiamato il più famoso dei dottori. Già al terzo giorno potè, sorretta dalla madre, fare qualche passo fino alla siepe dell’accampamento; vide gli orti giù tutti fioriti, le canne che rinascevano, i carciofi che parevano, sugli alti gambi argentei, grandi bocciuoli di rose. Un odore di giaggioli e di glicine portato dal venticello d’aprile dava l’idea, a Madlen, che una bella signora passasse dietro la siepe lasciando nell’aria il suo profumo. Era la signora primavera.
Allora pregò la madre di portare la pelle d’orso più in qua, verso la siepe: voleva veder da vicino gli uccellini che vi si posavano.
Uccelli, farfalle, calabroni, mosche, api, tutto un popolo laborioso nel suo ozio apparente, si agitava in mezzo alla siepe: un ragno, sospeso al suo invisibile filo, danzava per aria e pareva volasse. Venne anche, come una freccia, una giovane cornacchia con gli occhi azzurri e la coda come un ventaglio dalle stecche di ebano. Un’altra cornacchia la raggiunse, e tutte e due gridarono assieme volando in alto fino a sperdersi nel sole.
Madlen sentì voglia di piangere: ma di un pianto le cui lacrime avevano il sapore aspro e dolce delle goccie d’acquavite che la madre le concedeva nei grandi momenti.
Stesa sulla pelle il cui pelo e l’odore si confondevano con quelli dell’erba, pensava al tesoro della vecchia e al modo di poterlo vedere.
Oh, ci arriverà certo: fra un anno, fra dieci, quando anche lei avrà venti anni e leggerà la sorte sulla palma liscia dei bei ragazzi che vengono nell’accampamento per vedere le zingare belle, e sarà furba e forte anche lei, arriverà a vederlo, il tesoro. E poi è di tutti, è della comunità, e la vecchia dovrà bene tirarlo fuori.
— È di tutti, come il sole, — mormora Madlen; e pur farsi un’idea del misterioso splendore che sgorga dal vaso d’oro, trae lo specchietto rotondo e lo contrappone al sole. Lo specchietto brilla e vuole davvero follemente parere un piccolo sole. Madlen lo fissa, ma non è soddisfatta: altra luce è quella che splende dentro il vaso d’oro. Allora, dopo essersi divertita a giocare un po’ col sole, agitando lo specchietto e facendone balzare il riverbero intorno sull’erba e la siepe, pensa che forse il tesoro si vedrà meglio nel sole stesso.
Si butta supina e poichè gli occhi non vogliono stare aperti si tira in su le palpebre con le dita: un grande barbaglio la investe tutta: le lagrime che le velano gli occhi lo accrescono: le pare di essere sotto una pioggia di perle, di monete, di gioielli e di stelle. E finalmente ha davvero l’impressione di quello che è il tesoro della comunità degli uomini tutti, la gioia di vivere.