Il romanzo di Luisa Hercolani
Questo testo è incompleto. |
IL ROMANZO DI LUISA HERCOLANI
Il giovane principe Patrizio di Collalto alzato da poco e, sdraiato in un ampio seggiolone antico, fumava con voluttà la. sua prima sigaretta, nell’elegantissimo gabinetto, puro stile del quattrocento. Stava ancora dinanzi a lui, sul grande tavolo fornito di libri, il vassoio del thè col servizio di porcellana inglese a piccoli fiori, e il cameriere che aveva portata la posta, sparecchiava tranquillo.
Il giovane dette un’occhiata alla sua corrispondenza e ad un fascio di giornali, di opuscoli e di riviste; sorrise scorgendo la lettera profumata di reseda e distinta dal motto spiritoso d’una ballerina molto in voga, che egli corteggiava, e quella austera, col grande bollo azzurro d’una superiora di convento che gli chiedeva un sussidio per una chiesa povera; lesse rapidamente una partecipazione di nozze e due partecipazioni funebri, e, congedato il cameriere, si trattenne a lungo a contemplare una busta di carta a mano coll’indirizzo di un carattere largo, a lui ignoto.
Era certamente una donna e una donna bennata che scriveva, ma la carta bianca, impersonale, non gli recava alcuna di quelle sottili e particolari fragranze che fanno subito riconoscere gli oggetti provenienti da una signora raffinata.
Finalmente, rinunziando, per la curiosità, alla vaga mentale indagine, egli risolvette d’aprirla e vi trovò un foglietto con queste righe:
«Principe,
«Da molti mesi mi stette fisso nell’animo il desiderio di scrivervi, ma me ne mancò sempre il coraggio. Al momento di appagare, per un istinto ancora più imperioso del solito, questo mio incessante desiderio, sento un’angoscia che mi tortura e che pur non è capace di farmi desistere. «Scrivo tremando, ma sono certa che domani, quando saprò che la lettera vi sarà giunta e che ne conoscerete il contenuto, una grande tranquillità, forse un’impressione di pace discenderanno sul mio cuore e sulla mia giovinezza, come s’io avessi intravvista per un minuto, per un unico indimenticabile minuto, la felicità che sfugge.....
«La prima volta che v' incontrai mi parve diversa la vita, mi parve bella. Quando v' udii parlare mi sembrò che la vostra voce racchiudesse quelle armonie che il mio orecchio da qualche tempo, inconsciamente, vagheggiava.
«Le idee che esprimeste non erano convenzionali, ipocrite, fredde o scettiche come quelle degli altri uomini. Sulla vostra fronte si legge ad un tempo l' arguzia dello spirito e la profondità dell’intelletto; gli occhi vostri ricercano e compenetrano e nel sorriso si rivela un’innata bontà.
«Una grande, un’infinita dolcezza mi è venuta da voi come d’una preziosa scoperta ch’io avessi fatto nel mondo.
«Principe, voi non sapete chi io sia, e, benchè viviamo nella stessa cerchia sociale, non lo saprete mai. Non indagatelo..... non potreste amarmi, lo so, lo sento.
«Io non vi chieggo che un cortese pensiero; io altro non vi chieggo che, se mai (lo tolga il cielo!), dovesse sorgere per voi un giorno di tristezza o di dolore, ricordiate la passione di colei, che, per vedervi felice, tutto darebbe, anche la vita. Addio, principe..... ah no, addio, Patrizio, è così caro il vostro nome..... Non posso dirvi il mio, ma firmerò
Fedele».
Collalto lesse e rilesse quella lettera senza
saper vincere un’insolita commozione. Non
era un uomo vano, era un uomo di valore e professava
per la donna un culto nobile e cortese.
D’ improvviso gli passarono dinanzi agli occhi come una visione splendida e raggiante molte figure muliebri, tipi svariati di creature leggiadre ch’egli aveva amate fuggevolmente o che avevano amato lui. La piccola Caterina Norsa, una vivace meridionale, l’inspiratrice del suo primo romanzo a diciotto anni; ma quella, molto infelice, per i maltrattamenti d’un marito brutale, era morta sul fiore dell’età — la marchesa Viviani, veneta, tutta grazia, tutta smorfie, leggera assai, di cui gli era rimasto una specie di amaro disgusto — miss Hermione Lee, un’inglese trascendentale che durante una stagione aveva flirted seco lui, coll’intenzione di non farsì scorgere, parlandogli sempre d’incunaboli, di palimpsesti e di edizioni rare, cose tutte per le quali manifestava un’irresistibile mania, e poi la bella Thyra Halhjàr, una fantasiosa figlia della Danimarca, così seducente, così finamente civetta, e la buona duchessa di Terracina che gli voleva un gran bene... ma quella glielo aveva confessato in un giorno di debolezza e poi se n’era pentita perchè era assai pia...
E altre figure di donne egli rivide nel pensiero, figure crucciate o sorridenti, raramente gravi, il più delle volte elegantissime che, sotto l’apparenza frivola di gaudenti, nascondono i misteri delle ben celate colpe, o delle virtù sublimi, delle deluse aspirazioni o del
l’indifferenza superba e dell’audace cinismo, oppure figure scialbe che null’altro albergano nel cervello fuorchè la scienza della moda e nel cuore qualità passive ed infruttuose.
Finalmente, sovrapponentisi con insistenza a tutte le altre, nella luminosa visione, gli sì imposero nella mente le immagini elette di due donne, di quelle due che in un’intima, arcana, ingiustificata speranza, egli, per desideri assai diversi ma d’un’eguale intensità, avrebbe volute autrici della lettera, ad onta di certe frasi contraddicenti della lettera istessa. Una era la donna ch’egli avrebbe bramata come amante, l’altra la fanciulla che avrebbe scelta volentieri a sua sposa, Teodora di Faucigny e Clara di Samoclevo. Quale, quale delle due poteva essere la scrivente?... quale?...
La contessa di Faucigny, parigina d’origine, era la moglie giovanissima d’un ex-diplomatico belga che l’aveva sposata in seconde nozze e in un’età piuttosto matura; stanco d’’errare dall’una all’altra capitale e appassionatissimo delle scienze storiche, il conte aveva troncato prima del tempo la sua carriera ed era venuto a dimorare parte dell’anno a Roma, città prediletta ai suoi studi.
Teodora non aveva figli e il marito si dava premura di farle dimenticare una sì grave privazione, circondandola di tutto il benessere materiale, di tutti gli allettamenti dello Spirito che possono appagare i gusti e i bisogni d’una donna nata e cresciuta in mezzo alle raffinatezze del lusso e anche a quelle dell’intelletto; ma s’egli era riuscito a farle impiegar bene il tempo, non aveva però trovato i mezzi di colmare un immenso vuoto, non aveva potuto impedire che nelle amarezze di quel rimpianto, l’inquieta fantasia della sua giovane sposa non divagasse nel mondo dei sogni.
Faucigny era buono, ma noncurante di certe fisime muliebri; gentiluomo in tutto ciò che riguarda l’educazione e la cortesia dell’animo, egli aveva chiuso il suo libro alla pagina dell’amore, come ad un sentimento inopportuno il quale non facesse più parte che di giovanili memorie.
Teodora s’era accorta troppo tardi, che, in un matrimonio di convenienza, il fare assegnamento sulla sola ragione è un errore assai grave; tuttavia, compresa da un verace affetto, d’indole quasi figliale per suo marito ella s’era serbata sempre onesta dinanzi ai pericoli d’una vita che si componeva in gran parte di balli, di pranzi e ricevimenti, di apparizioni ai teatri, di concerti, serate e altri ritrovi mondani in cui non mancava di condursi con quel tatto finissimo che le era innato e che, anche per l’addietro, nelle comparse ufficiali, a Valdemaro di Faucieny era sempre tornato prezioso.
Ella aveva una fisonomia molto individuale, come certi tipi di Leonardo
- il volto d’un pallore caldo,
appena soffuso d’incarnato, s’impastava colla massa dei capelli, nè biondi nè castani, ma di quel fulvo ardente che raggiunge l’ideale nel pittorico. La bocca era larga, ma d’un disegno corretto, larghi gli occhi e più volgenti al grigio che all’azzurro, ma vellutati di nero. Senza essere molto bella, Teodora portava in sè la seduzione indefinibile che possono dare l’amabilità e la grazia congiunte allo spirito e riflesse dalla più mobile delle fisonomie.
Ella doveva lottar sempre contro l’inassopito ardore della vergine sua anima tutta vibrante di passione oggettiva, e da questa battaglia segreta le derivava, alle volte, una specie di stanchezza triste, un abbattimento, un vago sentimentalismo, molto piacente agli uomini.
Fra tutti ella ne aveva osservato uno solo, e quell’uno se n’era accorto.
Il principe di Collalto la vedeva spesso: qualche volta osava cercarla, e gli era caro di conversare con quella signora intelligente che possedeva una suscettibilità squisita per tutte le cose belle, e la cui mente si dilettava nelle più argute sottigliezze psicologiche.
La sua casa era un modello di buon gusto, d’eleganza, di mondana ricercatezza.
Posta sulle alture salubri della Trinità dei Monti, essa poteva vantare qual suo più bell’ornamento la vista dominante di Roma.
I gloriosi tramonti romani, davano, per Teodora, un fascino maggiore a quel soggiorno ed ella ne apprezzava la grandiosità orientale col trasporto che può infondere il sentimento dell’amor patrio, sentimento che Roma a volte suscita anche negli stranieri.
Il conte, ottimo conoscitore, aveva saputo spigolare qua e là nelle provincie qualche buon dipinto antico, qualche frammento di bassorilievo, ma la sua passione per i secoli d’oro dell’arte non gli faceva sdegnare gli scultori e pittori moderni, dei quali era riuscito a raccogliere alcune opere pregevolissime.
Senza distinzione di stile o d’epoca, Teodora s’era compiaciuta di scegliere per il suo salottino particolare quelle cose che più le allettavano lo sguardo e il pensiero.
Nel mezzo, s’innalzava da un’immensa giardiniera di piante invernali fiorite una statuina del D’Orsi rappresentante Stirpe d’infelici, raffigurata da un bimbo sparuto e cencioso che, in mezzo a tanta dovizia, doveva ricordarle sempre coloro che soffrono.
Nei vani delle finestre, altissime, parcamente velate da leggeri cortinagggi d’una seta bianca contessuta di fili d’argento, stavano due cavalletti in legno scolpito, portanti uno un Angelo della scuola di Benozzo Gozzoli, l’altro un pastello di Michetti: una fanciulla che viene innanzi pensosa, lungo un campo di lino fiorito, accarezzandone dolcemente la superficie tutta cerulea di corolle.
Fra i molti mobili in cui era stata fatta ricerca non solo della forma estetica ma anche della praticità che rende sì piacevole Il conversare, si trovava un istrumento musicale a scopo d’intime divagazioni armoniche, un Harmonium d’Alexandre con suvvi una coperta cinese ricamata per intero a fiori e uccelli strani, colori vivissimi sopra fondo giallo; contro la parete principale, là ove veniva a perdersi una piccola ridda d’amorini maestrevolmente dipinti a fresco, s’ergeva una porta del quattrocento, di ferro la298 vorato, mirabile reliquia dissotterrata in un convento delle Calabrie e su cui si leggevano ancor bene le parole, una volta dorate: Janua sum pacis.
Fu in quel salotto che Teodora ricevette il principe di Collalto desideroso d’indagare la propria sorte.
Ella era solita riunire i suoi amici soltanto alla sera, nelle giornate libere da impegni, ma il giovane, nella brama d’essere ammesso subito, cogliendo il pretesto d’una missione di beneficenza, aveva scritto alcune righe sulla sua carta per sollecitarne il favore.
Egli entrò, non senza turbamento, in quel piccolo santuario femminile donde gli veniva incontro un profumo inebbriante di giacinti e di freesie; Teodora, più turbata di lui, lo accolse con un’amabilità che la mal celata sorpresa rendeva un po’ esitante.
— Qual cagione vi conduce in quest’ora insolita, Collalto? chiese ella con un po’ di tremito mella voce.
— Un’opera buona, mia gentile signora; è vero che avrei potuto parlarvene anche stasera, ma sono in giro per le firme, e la vostra, che spero non vorrete negarmi, mi sta a cuore, particolarmente... Tuttavia, se vi riesco inopportuno, tornerò.
— Oh no, principe, restate, restate, ve ne prego.
In quelle semplici parole era una serietà triste che Patrizio conosceva; era forse una vaga apprensione del colloquio, una diffidenza di sè, mal celata, anch’essa, ch’egli aveva scorta’ e che lo lusingava.
Sedettero entrambi dinanzi al caminetto ove, nella fredda giornata di gennaio, ardeva uno di quegli allegri fuochi che invitano ai confidenti ritrovi.
— So che siete tanto buona, contessa, incominciò il giovane, e perciò vengo a raccomandarvi la piccola opera che sto iniziando per proteggere e sottrarre dai cattivi esempi le bambine che hanno madri immorali.
E, levata da tasca una grande busta, ne sciolse due fogli e glieli porse.
— Si tratta di sottoscriversi, semplicemente?
— Ma sì, vedete..... fui onorato dall’adesione di qualche altra pietosa dama; ho messo due rubriche perchè questa grande carità può manifestarsi in due modi, colla contribuzione e forse. ancor più coll’opera, colla sorveglianza, coll’energia.
Teodora scorse rapidamente quei nomi che le erano noti ed appartenevano tutte all’alta aristocrazia, scrutò un istante la lista delle cifre, poi chiese:
— Avete una matita?
— No, me ne dispiace, ma, se permettete, vi porto il calamaio.
— Grazie, Collalto. Mi firmerò volentieri da ambe le parti. Mi spiegherete poi... e, intingendo la penna nella piccola coppa di malachite, legata in argento ossidato, ch’egli le offriva, senza esitare, scrisse sopra uno dei fogli il suo nome e L. 200, sull’altro il suo nome solo ch’ella faceva sempre coll’h: Theodora di Faucigny.
Il giovane, nel riporre le carte, contemplò avidamente la firma ch’era sul foglio delle prestazioni coll’opera. Era un carattere insolito, irregolare, dalle maiuscole un po’ ricercate.
— La scrittura è molto alterata, o non è lei, pensò, e, pur accusandosi di fatuità, gli parve che un senso strano di amarezza e di disillusione gli scendesse in cuore.
— Siete preoccupato, Collalto? domandò la giovane, vedendo che, dopo averla ringraziata, egli era rimasto un po’ meditabondo.
— Io preoccupato? no, pensavo a certe scritture di donna.
— In apparenza, si somigliano tutte, ma a chi le considerasse con una certa attenzione, quante differenze apparirebbero, quante sfumature delicate! Dicono che la scrittura riveli il carattere.
— La vostra scrittura è originale, contessa; si toglie dalle altre.
— È brutta, volete dire... ma, di grazia, dove l’avete vista?
— Strana domanda!... La vedo qui nella firma gentilmente concessami!
— La firma è diversa dalla mia scrittura... si è più solenni, quando si firma.
— Ah, scrivete molto voi? Avete una corrispondenza estesa? domandò il giovane guardandola con un’attenzione profonda.
— L'avrei, se volessi, ma è una cosa che mi stanca. Sono fra quelle poche che, scrivendo, rivelano molto il loro pensiero, e, come dopo m’accade di rimpiangere le mie effusioni, scrivo assai poco.
— Anche ora avete delle effusioni da rimpiangere? chiese egli con un fine sorriso.
— Ne ho sempre, Collalto... è così difficile l’esser capiti!... Ma, intendetemi bene... dalle amiche, voglio dire. Una cara corrispondenza per me, quando sono fuori di Roma, è quella di Luisa Hercolani, che cela un forte ingegno e molto sentimento nella più quieta apparenza... è forse l’unica a cui io creda. D’altronde io non scrissi mai a un uomo fuori di qualche insulso biglietto richiesto da convenienze sociali.
Ma, nel proferire quelle semplici parole: «Io non scrissi mai a un uomo», Teodora di Faucigny si fece di fuoco. Che cosa pensava ella in quel momento?
Patrizio finse di non accorgersene, benchè rimanesse assai turbato. Non avevano forse lo scopo di sviare il suo sospetto?
— Peccato! diss’egli con una certa galanteria, alzandosi. Mi piacerebbe ricevere una vostra lettera, Teodora... ma non ne sono degno.
Egli aveva qualche volta un modo irresistibile di pronunziare il nome di una donna.
La contessa di Faucigny gli rispose ridendo:
— Qual bizzarro umore è il vostro!... ma il suo sorriso non riuscì a dissimulare il lieve pallore che le si era diffuso sul volto, nè quella espressione di tristezza sentimentale che tanto piaceva a Patrizio.
Tuttavia egli dovette andarsene senza aver capito nulla, e finì col rimproverarsi di essere presuntuoso e di avere ascoltate le lusinghe suggeritegli da una stolta vanità.
Ad onta di questo, il principe si trovò, senz’accorgersi, nell’anticamera del palazzo di Samoclevo.
Dopo aver attraversato due o tre sale di un gusto molto rieco ma sobrio, egli fu introdotto in un salotto col parato d’arazzi e piombò in mezzo ad uno sciame di leggiadre fanciulle, le quali, presiedute dalla principessa Cristina di Samoclevo e dalla sua figliuola Clara, gustavano il thè delle cinque tra i frizzi spiritosi e le risa argentine.
Facevano parte del circolo le duchessine della Floria, due tipi quasi identici e freddi d’anemiche in cui si era compendiata l’insipida raffinatezza d’una stirpe incolume da nozze plebee; la vispa contessina d’Oristano, un vero folletto tutto grazia e disinvoltura, dai capelli neri e ricci, dagli occhi neri e sfavillanti, dalla bocca ridente, figlia unica che sapeva abilmente sottrarsi all’assedio dei molteplici suoi ammiratori; miss Aberdeen, una scozzese assai ricercata e alla moda, che suo padre, archeologo distinto, soleva condur seco da qualche tempo l’inverno a Roma; Luisa Hercolani, una lontana cugina di Patrizio, vissuta quasi sempre fuori per ragioni di famiglia e di salute, fanciulla poco più che ventenne, la quale molte cure assidue e gelose avevano sempre salvata da una tisi ereditaria minacciante ad ogni volgere di stagione, e la cui bellezza delicatissima di fiore esotico e freddoloso passava quasi inosservata per il suo contegno raccolto e schivo; finalmente due o tre giovinette della colonia straniera residenti nella capitale italiana.
Clara di Samoclevo si toglieva dalle altre per la sua alta statura, per il suo portamento un po’ altero, per il suo nobile incedere, per la distinzione ch’ella metteva in ogni suo atto, e che dava al suo volto, d’una purezza scultoria, quella specie d’incanto mistico che fanno provare le statue attiche delle dee. Fornita d’una solida istruzione fondamentale, che doveva forse più alla tenacità d’una mirabile memoria che alla forza dell’ingegno, Clara, senza trascurare le abitudini mondane dello sport e di altri diletti, dedicava gran parte della sua giornata a studi seri che tradivano spesso le sue più o meno involontarie citazioni.
Patrizio, in sulle prime, si trovò un po’ fuori di posto in mezzo a quell’eletta raccolta di fanciulle; ma donna Clara s’affrettò di offrirgli una chicchera di Sian Pschian fumante e un vassoio guernito di sandwiches d’ogni sapore.
Egli sedette vicino alla piccola Luisa Hercolani, la quale rispose con una certa gravità alle domande ch’egli le fece intorno alla sua salute.
Mentre le altre ragazze, più non curando l’interruzione, s’erano rimesse a ciarlare e a ridere, egli osservò che Luisa rimaneva. alquanto seria e come assorta in sè stessa, e pensò con un certo rammarico doloroso a quella dolce esistenza di fanciulla che la morte insidiava continuamente. Anch’ella gli rivolse il discorso colla sua voce debole, un po’ velata.
— Vi siete divertito, Patrizio, nella vostra corsa a Massaua?
— Moltissimo, cugina mia.
— E... vi trovo allegro, come sempre, non è vero?
— Allegro?... Non saprei!.., Alle volte. c’è uno stato d’animo che supera quello dell’allegrezza.
Luisa lo guardò con uno sguardo strano che fece impressione al giovane. Egli credette che pensasse alla propria giovinezza travagliata da tante sofferenze, e si dolse di aver vantato in certo modo il suo benessere.
— Andate anche quest’anno a Catania?... chiese egli.
— Oh, no! Volevano i medici che vi andassi, ma non ho voluto io. Mi sento meglio, e se dovessi partire da Roma, mi pare, che m’ammalerei.
— Luisa è innamorata di Roma, disse donna Clara avvicinandosi con una coppa di Murano piena di, dolci.
— Ha ragione!... E la più bella città del mondo.
— Lo ha detto anche nella sua caratteristica, osservò la vispa Regina d’Oristano.
— Nella caratteristica?
— Ciascuna di queste figliuole ha dichiarato i propri gusti per farne lo studio psicologico; è un giuoco che Clara vide in un giornale tedesco, spiegò donna Cristina.
— Molto interessante, mormorò Patrizio alquanto sgomentato dall’idea del giuoco; ma queste dichiarazioni devono restare inedite? soggiunse per semplice cortesia.
— Per mio conto sì, sclamò vivacemente Luisa, cui fecero coro diverse compagne.
— Io poi non ci tengo affatto al segreto, disse Clara, e cercando fra diversi foglietti sparsi sovra un tavolo di lacca chinese, ne scelse uno e lo porse al principe, il quale comprese soltanto allora quanto quell’innocente trastullo potesse riuscire efficace alle sue indagini.
Nell’esprimere i suoi gusti a norma d’una diffusa lista d’interrogazioni, la fanciulla aveva fatto il solito sfoggio di sapere, aveva nominato artisti stranieri e astrusi filosofi e orchidee tropicali; aveva manifestato idee ricercate, opinioni molto individuali, nulla però tradendo della sua vita morale, intima. Soltanto alla domanda: «Qual è il tuo ideale?» aveva risposto: «Un devoto cavaliere».
Collalto ne scorse adagio adagio il contenuto, poi, un po’ sconcertato, restituì il foglietto la cui bella scrittura slanciata, quasi angolare, molto aristocratica, lo aveva lasciato più dubbioso che mai.
— Faccia i suoi commenti, ora, principe, disse miss Aberdeen.
— No, no, più tardi! sclamò Clara, quando ne avrà letto degli altri... Ora tocca a te, Guendalina, o a te, Regina...
— La caratteristica di Luisa! è quella la migliore! interruppe la bruna fanciulla.
— Dio mio! ti prego! supplicò Luisa facendosi di fuoco. Poi anche il lieve incarnato che le ardeva sui pomelli delle gote profilate sì spense, lasciandole in volto un pallore mortale.
— Non contrariatela, povera figliuola! intercesse donna Cristina.
— È per modestia che si rifiuta. Leggerò io, non dubiti, lascerò da parte le cose più compromettenti. E, preso con astuzia il foglietto, s’alzò e lesse:
«— Qual è il tuo libro prediletto? - Il Vangelo. - Perché?- Perchè è tutto amore».
«— Qual è il musicista che ami? — Palestrina, perchè è quello che più m’acqueta».
«— Quale il poeta? - Leopardi, perchè ha molto sofferto».
«— Il fiore? - La pervinca, perchè è destinata agli esseri più obliati».
«— Come intendi la felicità? - Non la intendo perchè non ci credo».
«— Dimmi il colore che più ti piace. - L’arancio, il colore della fiamma».
«— Qual sorriso più t’alletta?» Qui non ha voluto rispondere, commentò la lettrice. (Clara aveva messo: «Il sorriso del povero»).
«— Il tuo ideale qual’è?»
— Regina, fammi grazia!... sospirò Luisa un po’ alterata in volto.
— Peccato, è così carino!.. mormorò la spensierata fanciulla. Ah, non posso, non posso tacerlo. Senta, principe di Collalto: «Il mio ideale è una fede che si perpetua nell’altra vita».
— È profondo ma è un po’ doloroso... disse il giovane rivolgendosi a Luisa che s’era rimessa in quiete e che stette come assorta nella sua cerea pallidezza, senza rispondere.
Quando fu finita la lunga enumerazione che svelava in tutto una fine tempra di donna passionale il cui sentimento era stato acuito dalle continue sofferenze fisiche e dalle più penose privazioni derivanti dalle stesse, Clara esortò il principe a fare una deduzione psicologica su quei dati. Egli esitò un poco pensando, indi rispose lentamente:
— Io direi che è un’anima triste e ardente...
Anche in quel momento Luisa gli rivolse uno sguardo strano, penetrante e come impresso di muta gratitudine, e ùn sorriso fuggevole ma dolcissimo le trasfigurò il volto gentile; ma ella si tacque ancora e Clara ripigliò:
— Ora la mia, la mia...
— La sua, donna Clara, è molto più difficile.. non mi sento da tanto. La sua è un enigma, è un arguto studio di sottrarsi all’analisi di chi legge.
Clara arrossì di compiacenza, e Luisa li guardò entrambi.
— Collalto deve annoiarsi con questi spassi da fanciulle! disse donna Cristina interrompendo il dialogo. Foste ieri alla Camera, principe?... Non ho letto i giornali. Samoclevo è assente.
— Non vi fui, signora... ne parto sempre un po’ conturbato, rispose Patrizio; ma in quel momento entrava un deputato, il quale poté informare la principessa sull’esito della seduta che le interessava, e la conversazione prese un carattere più serio.
Benchè non sperasse nè desiderasse in alcun modo di trovarvi la parola del suo segreto, tuttavia Patrizio provava un vago istinto di guardare i foglietti ancor giacenti sul tavolino di lacca cinese accanto a donna Cristina, ma non osò chiederli, e ad un tratto vide che Luisa ne sottraeva destramente il proprio, e come non gli era possibile di raggiungere il suo intento, non tardò a partirsene per essere solo con quel singolare pensiero che lo perseguitava.
L’incognita scrittrice della lettera aveva ottenuto un risultato forse a lei caro: null’altro potendo, aveva incatenato, almeno per alcuni giorni, la mente di Patrizio, il quale, stanco dei soliti amori, trovava un’attrattiva speciale nella gentile spiritualità di quella rivelazione ch’egli capiva dover rimanere senza conseguenze. Più volte aveva chiesto a sè stesso se non fosse stato vittima di uno scherzo, se non si trattasse di una squisita civetteria o di una forma raffinata per celare un tranello; ma, rileggendo quel breve scritto, e lo faceva spesso, colla compiacenza di un fanciullo, egli si era convinto che alcuna di quelle supposizioni non poteva essere giustificata.
Da quel foglietto traspariva una speciale limpidezza; pareva ne venisse un profumo di onestà incontestabile. Nel contemplarlo, egli provava un senso di arcana dolcezza, quasi di corrispondente affetto. Ore brevi, bensì, ma tutte impresse da un tenero commovimento, ore fuggevoli che sorgono qualche volta nella vita dei giovani non del tutto miscredenti alla fede del cuore, in cui si frammischia alla visione dell’amore la visione dell’ideale, ore che Patrizio ricordò poi molte volte nei giorni della colpa, nei giorni dello sconforto, quando l’immagine svelata della scrivente gli riapparve col più inestinguibile e doloroso desiderio.
Patrizio di Collalto era buono. Le irregolarità della sua focosa giovinezza non erano discese al grado di basse abitudini. Benchè ardente ai piaceri della vita, non poteva dirsi corrotto, nè il malvagio cinismo della scostumatezza era riuscito a penetrargli in quel sancta sanctorum che abbiamo tutti in fondo all’essere nostro ein cui s’agita la più o meno ascoltata idea del bene.
Infiammato nel suo intimo dalle idee moderne, ma poco battagliero di natura, egli, dopo aver preso ad un tempo la laurea di diritto e di belle lettere, si sottraeva energicamente a qualunque incarico nelle cose pubbliche, occupandosi invece moltissimo, in privato, col soccorso e coll’opera, della miseria e delle sue fonti, dedicando poi le ore di svago alla sua coltura artistica che una genialità non comune aveva portato ad alto grado. Gentiluomo perfetto, si serbava Îigio a certe leggi tradizionali di cavalleria verso la donna, oggi in grande disuso. Gli uomini lo ritenevano molto originale.
Dopo un mese di continue e inutili ricerche, Patrizio cominciò a dimenticare la sua amabile sconosciuta, e come sua madre, nella brama di ‘vedersi risorgere d’intorno una famiglia gli andava suggerendo qualche piano di matrimonio, egli ripensò con maggiore intensità a Clara, anzi l’immagine classica di lei venne cancellando, grado a grado, la lirica e ormai blanda parvenza della misteriosa scrivente.
In sul finire dell’inverno vi fu una festa all’ambasciata d’Inghilterra.
Patrizio di Collalto fu dei primi a ballare colla signorina di Samoclevo, fulgida di bellezza nel suo vestito di crespo viola. Quando sedettero insieme, il giovine le domandò:
— È proprio vero, donna Clara, che il suo ideale è un devoto cavaliere?
— Lo è, principe.
— e... null’altro?
— Null’altro... Sta tutto in quelle parole.
Patrizio rimase alcun tempo pensoso, poi ripigliò:
— Mi consenta una domanda molto, molto indiscreta... Lo ha mai incontrato nella vita?...
— È più che indiscreta, la sua domanda, Collalto... Io non risponderò.
— Perchè ella è sincera, donna Clara, e non può dire di no. È per questo che non risponde.
— E se l’avessi incontrato, che importerebbe?
— Egli l’avrebbe riconosciuta per la sua dama...
— Non mi avrebbe riconosciuta perché io non mì tradirei mail...
— Allora sarà molto pericoloso l’avventurarsi in questo mare...
— Crede?...
Era in quella domanda una tale seduzione, che Patrizio, ne rimase assai turbato.
— Lo credo perchè avrei paura, mormorò egli.
Il colloquio fu interrotto da Teodora di Fancigy che aveva ballato e che venne a sedere accanto a loro. Vestita di velluto e adorna di perle, la fulva signora appariva un po’ sbattuta e languida, quanto Clara era sfolgorante di sana e superba bellezza giovanile: entrambe possedevano un fascino e Collalto ne sentiva nell’anima l’inquietante diversità.
Avete veduto Luisa Hercolani? domandò Teodora. — Ha voluto venire a questo ballo ad ogni costo, poverina. E com’è pallida! Ci voleva un po’ di colore su quelle guancie sparute.... sembra un giglio così tutta bianca...
To non le ho ancora parlato, disse Collalto, guardando in fondo alla sala ove la faniulla sedevaaccanto a Miss Aberdeen. — Dio buono! sembra un fantasma!
— Una vera apparizione, soggiunse, senza scomporsi, Clara, il cui volto, sempre suffuso d’una bella tinta rosea, sembrava tagliato nel marmo di Paros.
— Se almeno potesse aiutarsi un pochino!
concluse pietosamente il principe. n voi contessa, vi divertite?
— Non molto: sapete che il ballo mi dà sempre una malinconia profonda. Valdemaro vuole che ci venga e mi rassegno.
— À me non destano malinconia che le cose realmente dolorose, disse Clara, col suo bel fare tranquillo.
— Perchè tu sei perfettamente equilibrata.
Tu forse non godrai molto, Clara, ma farai molto godere e anche.... soffrire gli altri, rispose Teodora, con un garbo che temperava la schiettezza dell’asserto.
— Non sarebbe la: mia intenzione.... mormorò Clara, sorridendo.
— Lo credo, ma è così. Ti accadrà involontariamente.
Sei fra quelle donne che non discendono mai dal loro piedistallo.... sei fra le fortunate, Clara. Non ne convenite, Collalto?...
Non seprei, non sono un buon giudice, rispose il principe, notando nelle parole di Teodora una leggera velatura d’amarezza che lo fece pensare. In quel momento, le due signore, invitate a ballare lo lasciarono, ed egli andò in cerca di Luisa.
Era così smorta difatti, era così piccina nelle sue candide vesti, che parve al giovane una nuvoletta presso a dileguarsi. Egli cercò tuttavia: di scansare da sè la mestizia che lo aveva colto e:
— Me ne rallegro, Luisa, diss’egli,la vo- stra presenza qui mi rassicura. State pro- prio bene?
— Sto benissimo, Patrizio! — Adesso, ella rispondeva invariabilmente così.
— Mi concedete un giro?....
E Collalto la sollevò, la prese fra le sue braccia come un tenue fiore. Pareva impossibile che un cuore di donna potesse palpitare in quella forma così fragile, così aerea.
Ballarono un pochino al ritmo carezzevole d’una mazurka di Strauss, ma, come la fanciulla ansava, il giovane, con un pretesto qualunque, destramente si fermò, la fece sedere ancora; poi le propose una visita alla serra. E, molto cortese, con quella famiglia- rità riservata, ma squisita, che gli accordava la parentela, la condusse seco, a lui appoggiata, per le vaste sale, attraverso alla galleria delle statue, nel piccolo calidario delle orchidee che metteva a un delizioso giardino d’inverno in mezzo al quale, una fontana, con grato mormorio, gorgogliava.
— È UN angelo, pensò Patrizio, seguendo la sua bianca compagna fra le fragranti aiuole. — Non ha più nulla di terreno, e poco deve conoscere tutto ciò ch’è terreno....
— Voi amate molto i fiori, Luisa?
— Assai, assai.
Egli colse una piccola scilla turchina ela porse alla fanciulla che la tenne con grande cautela in mano come se intendesse conservarla.
— Un furto fatto per voi, Luisa. Credete che ne andrò assolto?
Luisa sorrise, e quel sorriso le illuminò per modo il volto scolorato, che un raggio vi rifulse, di ardente femminilità.
— Non posso giudicare la colpa, io che ho ricevuto il fiore.... ma certo, v’assolverei, sempre, diss’ella, dolcemente.
— Di tutto?
— Di tutto.
— Siete molto buona, mormorò il principe intenerito, e io ho molte colpe da farmi perdonare; pregate per me.
Pregherò, Patrizio.
E, dicendo questo, ella sollevò le pupille azzurre, con un atto d’assentimento, così adorabile e puro, che il giovane dovette ripensare a certe figure di sante dipinte dal Carpaccio e stette alcuni secondi immoto a contemplarla.
Da lontano veniva il suono della musica da ballo smorzato e come dolente; qualche coppia passava, assorta in più o meno intimi colloqui; la luce elettrica, fredda, ma vivida, dava dei riflessi metallici alle lunghe foglie delle muse. Tacevano entrambi.
D’improvviso, in mezzo a tanta festa, il pensiero della morte balenò nella mente di Collalto, con un senso di angoscia strana. Luisa lo vide rabbrividire involontariamente; intuì forse ciò che lo preoccupava e disse con soavità:
— A che pensate, Patrizio?
— A nulla, cugina mia.
— Al nulla delle cose, volete dire.... ma voi, Collalto, avete la vita dinnanzi, voi avete tempo di fare il bene....
Forse la fanciulla intendeva aggiungere un raffronto con sè stessa, colla brevità dei giorni che le erano concessi e ch’ella. all’opposto dei soliti malati di petto presentiva chiaramente; ma si trattenne, per una delicatezza del suo animo generoso, e Patrizio commosso, sviò il discorso, col desiderio di richiamarla alla realtà.
Mi sembra un po’ umido qui, diss’egli; sarà meglio che ci allontaniamo; non vorreste prendere qualche cosa?
— No, no, grazie.
— Neppure una bibita calda? vi farebbe bene, Luisa.
— Se credete, la prenderò, diss’ella, piegandosi subito alla volontà di lui.
Al buffet trovarono Clara che mangiava allegramente una fetta di ananas.
Alla sua vista, Luisa si turbò lievemente.
Un po’ di freddo l’aveva colta e si strinse alle spalle appena appena scollate, la mantelletta che doveva portar sempre seco.
— Sarà meglio che mi ritiri io ora, perchè ho promesso di non rimanere oltre la mezzanotte, diss’ella tristamente, dopo avere sorseggiato, per compiacenza, un poncino leggero. contemplando i due giovani, Patrizio e Clara ritti uno accanto all’altra, nella pienezza e nella floridezza della gioventù felice.
E, mentre Collalto andava in traccia della sua damigella di compagnia e di suo padre che, per non guastarle il piacere di quell’innocente capriccio, l’unico che avesse mai avuto, la sorvegliavano trepidanti e non visti da lontano, Luisa, prendendo fra le sue manine gelide una mano di Clara e sollevandosi in punta di piedi, mormorò all’orecchio della superba fanciulla:
— Prima di partire, ti faccio un pronostico; lo vuoi?...
— Parla, Luisella mia.
— Non andrà molto che tu saral la sposa del principe di Collalto.
— 0h Luisa, che ideali...
Vedrai!... e s’allontanò lentamente, con passo affaticato, per incontrare il duca Hercolani e Teodora che veniva a salutarla.
Patrizio, sempre autorizzato dalla parentela e compreso da una pietà profonda, si permise di accompagnarla fino alla carrozza. E molte volte, più tardi, gli sembrò di sentire, sul suo braccio, il contatto di quel braccino sottile che tremava, gli sembrò di rivedere quel largo sguardo azzurro nella cui infinita limpidezza, qualche cosa di grande ardeva, come una fiamma.
- * *
Patrizio fu fidanzato a Clara, in un giorno di maggio, in un villino dei dintorni di Frascati, overa una pioggia di rose.
I due giovani credevano essere innamorati uno dell’altro, ma, in fondo, erano soltanto convinti dell’opportunità del matrimonio, in cui, oltre alle migliori convenienze sociali si trovavano riunite tante attrattive di gioventù, di bellezza, di genialità.
Amanti entrambi della letteratura, delle arti, dello sport che ora sì spesso va frammischiato a quelle, ricchi di censo entrambi, supplivano con una certa affinità di gusti, alla profonda armonia dell’amore vero che si ha dal cielo come un raggio, e non si conquide, nè si può analizzare. Ma quell’affinità stessa era superficiale, null’altro. Patrizio dava il suo talento e il suo cuore là ove Clara non impegnava che la memoria e la vanità. Dotata d’un temperamento pacato e freddo, molto più compresa di sè stessa, dei proprii meriti e della propria avvenenza di quanto il principe potesse supporla, ella sottometteva tutto, inconsciamente, al suo piacere individuale.
Donna destinata ad un’esistenza regolare ed onesta, non già per elevatezza d’animo, ma per un forte istinto dell’ordine, per un bisogno di quella calma che non inceppa gli andamenti della vita, ella era destinata a passare in mezzo agli omaggi contenta, ammirata, intangibile come una dea.
Patrizio, ad onta dei suoi molteplici amori, aveva serbato ancora in fondo alla sua anima una segreta scintilla, dalla quale solo un’anima appassionata, come la sua, avrebbe potuto trarre il fuoco. Egli fu illuso alcun tempo sull’indole di Clara, e, prima delle nozze, il fascino singolare d’una bellezza così inquietante nella sua imperturbabilità, lo tenne in uno stato di continuo esaltamento; ma quando l’ebbe conquisa, egli s’accorse che quel fascino era un inganno, che quell’imperturbabilità non celava alcuna nobile alterezza; che alcuno slancio non veniva mai ad infiammare quel volto corretto di statua.
Egli sofferse, egli si studiò d’infonderle una intensa vita morale, come Pigmalione aveva tentato di animare con un soffio potente la sua bellissima statua, ma nulla valse. Clara non conosceva quei turbamenti, nè bramava conoscerli.
Erano ancora fidanzati, quando, una sera, mentre la carrozza aspettava,epasseggiavano insieme a villa Pamphily, là ove lo sguardo abbraccia parte di Roma, Clara chiese a Patrizio.
— È qualche tempo che non vai a casa Hercolani?...
— Due settimane. Sono tutto assorto in te, Clara.
— Luisella è a letto da dieci giorni e temono non sI alzerà più.
Patrizio rabbrividi lievemente, e si rimproverò di non aver pensato a sua cugina: in quei giorni di contentezza, egli l’aveva dimenticata.
— Però, non è molto, mi sembra, che è venuta a salutarti?...
— Si, quando ci siamo fidanzati; ma la trovaI tanto patita...
— Fa pena! — disse Collalto, contemplando una volta di più, l’eretta, slanciata figura della sua compagna, forte di salute e di robustezza.
— Dev’essere doloroso il morire così, sul fiore degli anni...
— Oh! terribile! mormorò Clara, cui il pensiero della morte faceva orrore.
Ma tacquero subito entrambi, e più compresi della loro apparente felicità che di quella dolorosa minaccia, si dettero alla contemplazione del divino paesaggio che iltramonto faceva rosseggiare d’una luce d’incendio.
- * *
L’indomani, i due fidanzati andarono, ad ore diverse, ad informarsi al palazzo Hercolani; ma non furono ricevuti che dalla damigella di compagnia, la quale confermò, lagrimando, che la signorina era gravemente inferma. Da qualche tempo aveva incominciato a dar serii timori ed ora, pur troppo, i medici serbavano poche speranze.
Difatti, abbattuta da un’acuta bronchite, Luisa volgeva rapidamente al suo fine, e morì rassegnata, ma triste, in uno splendido giorno di giugno, sfuggendo a tutti i disperati sforzi dell’arte e dell’affetto. Il padre che l’idolatrava, le amiche che l’avevano tanto amata, la copersero di fiori. Patrizio mandò anch’egli una ghirlanda di gardenie e per un istinto quasi irresistibile andò a vedere la piccola morta. Il corpicciuolo esausto della fanciulla si perdeva fra le rose, i gigli e i preziosi fiori esotici strappati dal calidario dei Samocelevo e da altre serre. Non si vedeva che la testina profilata con un’opulenza di capelli biondi, appena ravvolti, come un’auréola intorno alla fronte su cui un ultimo pensiero, più amaro degli altri e più persistente forse, aveva tracciato una piega di dolore.
Patrizio pensò alla sera del ballo e alle dolci parole di Luisa e, in segreto, pianse.
- * *
Il funerale fu imponente per la pietà che quella morte aveva destato nell’alta società di Roma.
Vi andarono tutti. Collalto, afflittissimo, sapendo che la sua fidanzata non sarebbe tornata a casa, a quell’ora, venendo da Campo Verano, si recò da Teodora di Faucigny che sapeva molto legata cogli Hercolani. Era una specie di visita di condoglianza che intendeva farle, immaginando quanto ella, che prediligeva la piccola Luisa, dovesse essere addolorata.
Teodora si sentiva un po’ indisposta, ma riceveva egualmente; anzi non era sola. In presenza d’altri toccarono appena il tristissimo argomento, ma, per un tacito accordo, attesero entrambi che le visitatrici, due signore francesi, di passaggio a Roma, si fossero allontanate, per parlarne.
— Era un secolo che non avevo il piacere di vedervi, principe, - disse Teodora appena furono uscite — Siete molto innamorato, credo?
— Non si è mai innamorati abbastanza, contessa, disse Patrizio eludendo la domanda.
— Avete ragione. Clara è molto bella. Ma oggi siamo tutti tristi, non è vero? anche vol, Collalto, siete afflitto per quella piccola mortal... Io mi sento perfino ammalata... non ebbi la forza d’uscire. Voi foste al funerale?
— Ah sì, pur troppo.
— Povera Luisa, povera Luisa, che peccato! in quella fragile forma, palpitava un cuore ardente; nella sua mente era una forza d’ingegno superiore all’età... ma ella, modestissima, non si palesava a nessuno, € forse nessuno la conobbe al pari di me. M’aveva presa in grande confidenza, specie quest’anno, mi scriveva spesso, quand’ero a Bruxelles al tempo di Pasqua, e mi scrisse perfino: qui da Roma, quando la sua salute la tratteneva in casa... Ho una raccolta delle sue lettere, sono esuberanti di sentimento; forse, quella creatura in apparenza così soave, così mite, provava un bisogno irresistibile d’amare; forse il culto che nessuno mai osò professarle, perchè sembrava un angelo destinato ad un’altra vita, l’avrebbe salvata.
Teodora parlava colla solita languidezza malinconica, ma con un rimpianto pieno di sincera effusione e con un abbandono che Patrizio non aveva mai trovato in lei. La sua promessa di matrimonio con Clara la rassicurava di un pericolo che aveva temuto assai, non senza ch’ella sentisse i tiepidi allettamenti di quella paura. Adesso, il suo cuore era preso da un vago, inconsapevole rammarico che a volte la rendeva contegnosa e taclturna col principe, a volte invece, cedendo all’impulso dell’animo non più frenato da alcun timore, non esitava di dimostrare al giovane la benevola inclinazione, prima tanto combattuta.
— Volete leggere una delle sue lettere? l’ultima? continuò ella. Non è un’indiscrezione la mia. Io credo necessario che gli uomini conoscano questi tipi di donna così celati, così profondi nel loro spirito di abnegazione e di sacrifizio... non è vero? Ve la farò sentire io.
E, molto commossa, con voce alterata, scegliendo il foglio da un pacchettino di carte, già legate con un nastro nero, Teodora lesse:
«Mia diletta amica,
«Quanto mi scrivi è giusto. Forse esiste nel fondo del mio cuore una cosa latente che non oso nemmeno confessare a me stessa e a cui convergono tutti i miei pensieri. Non fui molto felice, Teodora; non conobbi mia madre; eppure, in mezzo a molte morali e fisiche sofferenze, la vita che tante disprezzano, m’apparve un giorno, sotto una luce serena. Mi sembrò che, nella continua battaglia di quaggiù, qualche cosa di sublime, una specie di faro di verità rifulgesse per la donna e mi sembrò che il suo campo d’azione, nel dominio degli affetti, fosse così vasto, da perdervisi, dolcissimamente...
«Quando mi trovo con altre donne e fanciulle rimango un po’ sorpresa delle loro idee, deiloro piani e vagheggiamenti e penso: sono dunque una sognatrice io?... sono una allucinata della fantasia che la vita reale poi dovrebbe condurre volgari transazioni? Ah no, no, Teodora mia, io mi sento nell’anima la forza d’amare, d’amar sempre ad onta di tutto, in questa e nell’altra Vita.
«Vedi, cara, comem’abbandono con te? sei l’unica forse.
«Io mi guardo intorno e veggo ovunque dei fantasmi, delle vuote parvenze di felicità traditrice..... il mondo non apprezza che la vanità delle cose. In certi momenti, la morte che mi minaccia e che tutti vogliono nascondermi, assume per me un fascino strano, come se altrove, il mio sogno dovesse avverarsi.
«Non voglio affliggerti, amica mia. Non ti infastidire di me nella tua costante premura. Il mio cuore e la mia mente sono tutti compresi dalla Sinfonia in do minore di Beethoven che udimmo ieri alla sala Dante. L’attacco del primo tempo, non so perchè, mi ha fatto pensare all’Eternità. Tutto passa. Ah Teodora! Teodora, ti ricorderai di me, nell’avvenire? quando sarò laggiù laggiù, m’intendi?:..... La realizzazione del mio sogno m’avrebbe salvata, lo sento e invece je meurs je meurs!...
«Non ti dar pena; non sono triste. Ho, anzi, rimorso d’averti parlato sempre di me, egoisticamente... ma ero tanto desiderosa di parlarti e non posso uscire, nemmeno in carrozza perchè sconto con un’infreddatura la gioia del concerto... Perdona alla tua
Luisa».
Patrizio aveva ascoltato in silenzio, ma con una violenta commozione. Oltrechè la morta era sua cugina, il trasporto funebre a cui aveva assistito era stato così toccante da disporre il suo animo alla più pietosa simpatia.
Quando Teodora, lagrimando, ebbe finito, egli stese la mano verso il foglietto per rileggerne qualche brano; ma, nel porvi gli occhi, fremette e gli si annebbiò lo sguardo. Era la scrittura identica della lettera che gli era pervenuta mesi addietro, che lo aveva tanto preoccupato e ch’egli minutamente ricordava. Un dolore quasi angoscioso lo assalse. Lei! Luisa! Mai mai, nel lungo dubbio, aveva pensato a sua cugina.
— Contessa, disse sforzandosi di apparire tranquillo, mi presti questa lettera, un giorno, un giorno solo; vorrei copiarla.
— La copierò io, Collalto!
— No, no, me la conceda - nessuno la vedrà — gliene dò la mia parola d’onore, e fra le mie mani non andrà profanata...
Teodora lo guardò con una specie di compiacenza, di soddisfazione dolorosa, ma senza meraviglia. Nella sua fina intuizione di donna, aveva ella intuito il vero? Compiva ella in quel momento una sottile vendetta femminile, o sì credeva in obbligo di adempiere a un sacro dovere verso la piccola morta che aveva tanto amato?
Patrizio non lo seppe mai. Egli portò l’indomane alla contessa di Faucigny, senza che ella se ne sorprendesse, la copia di quella lettera, supplicandola di lasciarle l’originale.
E i due foglietti, scritti dalla stessa mano, rimasero sempre nel suo Stipo, segretamente, fra le cose più preziose e, molte volte, in seguito, egli le rilesse, quando l’anima superficiale ed egoistica di Clara gli si fu rivelata, quando egli sentì che la felicità terrena gli era passata dappresso nella soave, inosservata figura di Luisa Hercolani, passata dappresso, e svanita per sempre...
Jacopo Turco.