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XI.


— Fausto Lamberti muore, mentre suo zio infermo, imbecillito, minaccia di campare chi sa quanto tempo!

La dura notizia correva la città, destando un senso di terrore; eccitando gli animi alle sorde imprecazioni.

La morte si accaniva contro il giovine vigoroso e fiero che l’aveva sfidata; e pareva disposta a lasciar vegetare nella demenza il vecchio pauroso ed inutile.

Era il terzo giorno.

La casa dell’abate aveva un aspetto desolato. La governante correva dal vecchio infermo al giovine; i domestici perdevano la testa. [p. 226 modifica]

Nelle stanze terrene, un via vai di gente affannata e curiosa. Medici, studenti, professori, preti, signori e signore, amici del Lamberti o dei Giudici.

Il professore Pisani dirigeva la cura di Fausto; ma altri due medici lo assistevano.

In generale, poche speranze. Era una pleurite delle più arcigne.

Una sola circostanza favorevole: la parte attaccata, la destra. Inoltre il cuore pareva sano e capace di resistere, se la malattia faceva un corso regolare.

Ma la febbre saliva a quarant’un gradi e più. Se cresceva ancora, impossibile scongiurare la combustione: la fine fatale.

Da tre giorni Argìa non dormiva, nè si staccava da quel letto di pena.

Invano suo padre aveva tentato di allontanarla.

Ella spasimava con Fausto, agonizzando nell’ansia. Il vecchio rimorso l’accasciava: come [p. 227 modifica]aveva potuto permettere che Fausto si preparasse a morire con lei... per lei?... Ora più che mai, quel proposito di suicidio le pareva un delitto. In conseguenza di quella aberrazione, a cui lei aveva ceduto, Fausto era stato colpito dalla terribile malattia; ed ella doveva vederlo penare così... morire, forse...

Quale punizione!

L’immagine di Fausto, freddo, insensibile, morto... le si fissava nella monte, con la persistenza di un incubo che la schiacciava.

Tuttavia, la sua volontà sempre sveglia e tenace, si ribellava alla truce immagine. No! no! no! Fausto non sarebbe morto!... Lei non voleva che morisse: non doveva morire. I medici dovevano trovare il modo di guarirlo. Si trattava di un giovine robusto, che non aveva sofferto di nessun male: se non riescivano in quel caso, potevano affogarsi tutti quanti erano, professoroni insensati!

Aspettava suo padre nell’anticamera, si [p. 228 modifica]avvinghiava a lui, scongiurandolo, singhiozzante, fuori di sè.

E gli s’irritava.

— Credi dunque che dipenda dalla mia volontà?... Credi che io non faccia tutto il possibile?...

Ella, in cuor suo, ripeteva: — Mio Dio! fatelo guarire!... Io andrò poi via, lontano, per vivere sola, povera, dimenticata, ma felice di saperlo vivo!...

Fausto la indovinava, guardandola fisso, gli occhi smisuratamente dilatati.

Malgrado l’acutezza della febbre egli non delirava.

Aveva qualche visione; ma in complesso, conservava piena coscienza di sè e del proprio stato. Il suo pensiero dominante era questo:

Sarebbe morto, avrebbe lasciato Argìa nella vita senza di lui. Il destino a cui aveva voluto sfuggire si compiva. Era giusto. Argìa doveva vivere per il suo bambino. Era giusto! [p. 229 modifica]Lui solo doveva morire... lui che non aveva avuto il coraggio di prendersela così... nè la forza di strapparsela dal cuore.

Intanto però, leggendole negli occhi che lei sarebbe morta, perchè voleva seguirlo, egli si sentiva sollevato; e soffriva meno di quell’atroce puntura al polmone e di quella oppressione affannosa.

La ringraziava con un pallido sorriso; l’accarezzava dolcemente. Ma di tratto in tratto, un violento scoppio di tosse interrompeva le carezze. L’angoscia lo riafferrava. Doveva morire solo, distrutto dalla malattia; in mezzo agli spasimi... Mentre la morte sognata con Argìa sarebbe stata così dolce!...

Il destino non aveva voluto concedergli quell’unica gioia. La morte implorata amica, lo assaliva a tradimento, lo colpiva nell’ombra, come fa l’assassino. Gli pareva di averla dinanzi, fantasma terribile, e l’apostrofava, la insultava. [p. 230 modifica]

Una nebbia pesante gravava, quella sera, il suo intelletto. Non discerneva più chiaramente le immagini del pensiero dalle figure vere; il sogno dalla realtà. Tutto si confondeva.

Gli parve... sognò... di essere già morto. Non poteva muoversi. Lo portavano al cimitero.

Argìa lo seguiva, additata dalla folla, e qualcuno mormorava una parola che poi tutti ripetevano.

— Non ha fatto a tempo a farsi sposare — dicevano le amiche sorridendo malignamente.

Egli sentiva quelle risatine feroci; ma non poteva muoversi; non poteva difenderla, povera Argìa!...

Si scosse e la chiamò sommessamente:

— Argìa! Argìa!

Ella si chinò su lui, bagnandogli il volto di lagrime. Questo lo calmò: si assopì.

Ritornò a sognare. Rivedeva Argìa col suo bimbo in una bella casa in un paese lontano. Presso a lei era un giovine. Chi? [p. 231 modifica]

Lui stesso forse? No, ah! no! Non lui... quell’altro! L’aveva sposata: si amavano, e parlavano di lui, morto, con quella mestizia leggera, per cui i felici sentono più intensamente la gioia di vivere e di amare.

Egli assisteva ai loro colloqui: sentiva i loro baci lunghi, sonanti... Voleva fuggire; fuggire l’odiato spettacolo, ma non poteva: l’attrazione lo inchiodava. Un peso enorme gli gravava il petto... Era la pietra tumulare, che lo divideva dal mondo, la pietra su cui Argìa aveva voluto morire... Ah! ah! ah! ah! ah! Come rideva!

Il riso atroce si mutò in un terribile scoppio di tosse. Pareva che il petto gli si frangesse. Uno sputo oscuro, sanguinolento, gli insozzò la bocca. Il professor Pisani e Vittorio accorsero con premura per sostenerlo. Passato l’assalto gli somministrarono alcune cucchiaiate di una pozione efficacissima, fatta preparare dal Pisani. [p. 232 modifica]

Tornò la calma ed il sonno. Ma la febbre era cresciuta ancora!

Entrò un altro medico che brandiva l’occhialetto. Il Pisani trasse di sotto l’ascella del malato il piccolo termometro per mostrarlo al nuovo venuto, e si misero a parlare tra loro sommessamente, masticando le parole.

Poi l’uomo dall’occhialetto volle fare una rapida ascoltazione al polmone ed al cuore del paziente, sotto agli occhi ansiosi del professore e di Argìa.

Era un medico giovane, sebbene già famoso; non ancora avvezzo alla morte, mal corazzato contro le angoscie dei parenti e degli amici che vegliano presso ad un ammalato in pericolo.

Quando si raddrizzò mostrò un viso pallido, disfatto, e i suoi occhi atterriti si fissarono in quelli del professore improvvisamente ammutolito.