Il romanzo della fortuna/XXIII
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XXIII.
I pioppi! I pioppi!
Sotto l’atrio della Stazione Centrale, in un mattino magnifico d’autunno, lo sportello della linea Milano-Vigevano-Alessandria era preso d’assalto da una folla di viaggiatori d’ogni ceto e qualità pigiati fra le due sbarre parallele della strettoia d’aspetto.
Due signori arrivati ultimi aspettavano pazientemente il loro turno alla retroguardia avanzando un passo per volta via via che un nuovo biglietto veniva distribuito. Di mezza età l’uno con un soprabito color nocciuola sul braccio, l’altro vestito di grigio con panciotto bianco e cappello Panama, avevano l’apparenza di negozianti agiati o di ragionieri appartenenti ad ogni modo al tipo bonario e un po’ chiacchierone del milanese autentico che va in campagna così volontieri, quando può, tra un affare e l’altro.
Essi guardavano i passeggieri, riconoscendone molti, salutando qualcuno. Il signore col Panama in testa lo aveva appunto levato all’entrare di un giovinotto dalle forme snelle e vigorose insieme, dalla fisionomia aperta, dall’occhio intelligente, dai piccoli baffi bruni. Lo seguiva a passetti corti una donnina che sembrava troppo giovane per essere sua madre, troppo vecchia per essere sua sorella ma che pure riprendeva con colori attenuati e linee smussate la fisonomia generale del giovane a cui somigliava un po’ come l’ombra assomiglia al corpo.
— Chi sono? — chiese il signore che teneva un soprabito sul braccio.
— Lui è l’antico proprietario di quel negozio della Pace che c’era a porta Ticinese.
— Antico proprietario? Ma se avrà trentasei o trentotto anni, a dir molto?
— A dir molto, certo. Ha cominciato giovanissimo ed ora è uno dei soci principali della grande Cooperativa in piazza del Duomo.
— Sono pur straordinarie certe fortune!.. a meno che non ci abbia messo lo zampino qualche compiacente Mercurio...
— Pare di no.
— Ed è ricco nevvero?
— Molto ricco.
— Fortuna allora.
— Fortuna senza dubbio, ma fortuna primissima quella di esser nato con un giusto equilibrio fra intelligenza e volontà. Questa è la vera fortuna che nessuna legge umana potrà mai ripartire egualmente su tutti gli uomini
Egli deve sposare a giorni la figlia del povero Firmiani.
— Quale Firmiani?
— Della Banca d’Italia, morto l’anno scorso, che proprio non aveva lui il dono della fortuna perchè nato ricco si rovinò completamente.
Lo sportello, libero alla fine accaparrò tutta l’attenzione dei due viaggiatori che presero il loro biglietto e si allontanarono intanto che Giovanni entrava a sua volta nella strettoia facendo cenno a Chiarina di attenderlo.
Era stato solamente il giorno prima che Giovanni aveva proposto a sua sorella di fare una gita al loro paese. Chiarina da quando lo aveva lasciato non vi era tornata che una volta sola e facevano oramai quindici anni, che le sembravano lontani, lontani.
Le tremava un po’ il cuore all’idea di rivedere i luoghi pieni per lei di tante memorie. Divisa fra la gioia e la tristezza, si domandava chi avrebbe trovato ancora delle vecchie conoscenze, delle donne che andavano a provvedersi alla sua botteguccia, dei bambini assidui intorno ai vasi delle caramelle diventati uomini oramai e che non dovevano riconoscerla. E la sua buona amica maestra? Sapeva che non c’era più quella: era andata in un paese della bassa Italia per fruire di un posto più lucroso.
Non dunque le persone, ma le cose la aspettavano nel paese nativo, le cose amate, le cose vissute, le cose che sanno!...
Tagliato fuori dalla strada ferrata, in una regione agricola fra campi e prati, il paesello non aveva cambiato molto. Erano le stesse abitazioni piccine e basse, la stessa chiesa dedicata a Sant’Anna, la stessa osteria del Vitello Bianco, le stesse poche vie deserte dove le galline si avventuravano senza pericolo.
Nella botteguccia che prima era stata di Matteo, e poi sua, un altro merciaio era venuto a tentare la sorte; ma dalla polvere ammonticchiata e da un aspetto generale di disordine Chiarina arguì che gli antichi clienti la avevano abbandonata. Gettò uno sguardo cupido per entro le imposte socchiuse, pensando che il più bel giorno della sua vita era sorto là fra quelle umili pareti, tra quelle tenebre discrete, ed affrettò il passo, temendo di cedere troppo alla commozione.
— Vedi come è ridotta la Villa? — disse Giovanni arrestandosi dinanzi all’ampio fabbricato bianco un tempo ed ora corroso dall’incuria e dalla umidità che aveva tracciato sui muri lunghe striscie brunastre.
Chiarina guardò il cancello, dove l’esile pianta di caprifoglio era stata soffocata da una invasione di male erbe, e rammentò le domeniche solatie in cui Enzo si poneva all’entrata di quel cancello per veder passare la gente del paese; rammentò la nonna Firmiani, quando usciva per andare a messa colla sua cuffia di tulle nero ornata di rosette color viola, e per quanto non volesse commoversi, le rimembranze erano troppo vive per lasciarla indifferente. Affrettò il passo ancora, ancora.
— Come corri! — disse Giovanni.
Appena fuori del paese, sul nastro della via provinciale che si slancia attraverso i campi, eccola la casetta a un sol piano, col tetto vermiglio, con due finestre a terreno e due in alto, colla loggetta aerea, sulla quale Chiarina non discerne ancora quali piante verdeggino, perchè i suoi sguardi si sono posati prima sui pioppi e dinanzi a quelli si è arrestata estatica.
Oh! i pioppi, i pioppi, i suoi cari pioppi, essi non cambiarono! Colle loro radici salde al suolo, coi loro rami ogni anno rinnovati e sempre eretti, colle loro foglie d’argento palpitanti a guisa d’ali! Sono essi che la salutano stormendo così dolcemente sotto le alte cime che il sole indora facendoli somigliare a ceri accesi. Chiarina! Chiarina! È il suo nome che portano in alto e questa volta ella piange, inginocchiandosi, come dinanzi ad un altare.
Giovanni paventa che l’impressione sia stata troppo forte e si china verso la sorella sorreggendola.
— Lasciami, lasciami, Giovanni, queste lagrime sono molto dolci. Mi fanno bene.
Quando Chiarina si rialza, guarda la casa, dove porta e finestre sono ermeticamente chiuse.
— Chi ci sta ora? — domanda.
— Nessuno, è vuota. Vuoi vederla?
Senza attendere la risposta Giovanni si avanza deliberatamente, aprendo dovunque, si che il sole entra vittorioso e Chiarina con esso, volgendo attorno timidi sguardi di persona che cerca e teme nello stesso punto.
— Che effetto ti fa?
— Un sogno.
Ella tocca le pareti, gli stipiti; mette il capo ad una finestra, si china sul focolare, batte il piede sopra un punto del pavimento dove una mattonella traballava una volta e che non traballa più. — l'hanno aggiustata — pensa.
— Andiamo di sopra?
Chiarina vola. La scala è la medesima: diciotto gradini; gli ultimi due di sbieco un po’ più alti degli altri. Attraversa la camera dei ragazzi ed entra nella camera di sua madre, quella che sempre le apparve come un domestico santuario, un luogo privilegiato e santo. Come è bella, chiara, allegra! Come dolce passarvi l’esistenza!
Sul loggiato pieno di sole osserva le piantine che verdeggiano dentro a cassette di legno nuove. Non è più la glicine di una volta, ma è glicine ancora: non sono più gli stessi garofani, ma sono anche questi garofani morelloni.
— In qual modo stanno qui? — si volge a suo fratello. — Chi li coltiva?
Giovanni ride sotto i baffi.
Ella si sporge al parapetto guardando i pioppi che le appaiono ritti e solenni a guisa di angeli posti a custodia della casa. Esprime questo suo pensiero a Giovanni soggiungendo:
— Custodi del passato.
— E dell’avvenire se vuoi — ripete Giovanni dando un buffetto col pollice e l’indice a un ragno che investiva la glicine.
— Sarebbe a dire? Non capisco.
Ma intanto che pronunciava «non capisco» le tremavano i polsi e una inquietudine singolare si impossessava di lei. Giovanni con una calma imperturbabile le annuncia:
— Questa casa è tua.
— Oh! Giovanni, Giovanni.
La gioia dell’improvvisata le mozza il respiro. Non sa nè che fare nè che dire. Dove le trovava Giovanni quelle ispirazioni così geniali?... Per impedire che la scena divenga troppo patetica, Giovanni si affretta a scherzare:
— l'ho ricomperata per te, così quando avrai qualche bega colla tua cognatina potrai sempre ritirarti sulle tue terre.
— Anche Chiarina ride questa volta. Poi domanda:
— E la scuola dove l’hanno portata!
— Ho pensato anche alla scuola facendole erigere un fabbricato apposito. Sei contenta del tuo Giovannino! Via, dammi un bacio ed uno scappellotto.
Tornano abbasso. Giovanni le fa osservare che lo stanzone dove c’erano una volta i telai si può convertire in due graziosi salottini. Se pure (era in vena di umorismo) non preferiva trasformarla in una sala da ballo.
— Sì, per i miei nipoti — dice Chiarina sullo stesso tono.
Prendendo misure e facendo progetti le ore passarono rapidamente.
Quando sì decisero a chiudere di bel nuovo finestre e porta e uscirono fuori il sole piegava già all’orizzonte cingendo la pianura di un’alta fascia porpurea. I pioppi, i bei pioppi ritti e solenni nella luce del crepuscolo li videro allontanarsi e sparire in fondo al prato e perchè Chiarina si era voltata a guardarli essi pure la salutarono coll’accento grave e dolce dell’arrivederci: fiammeggiando di contro al cielo a guisa di ceri accesi.
Fine