Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Piazzena/II
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SINDACO E PARROCO.
Il giovane incominciò le sue lezioni col fermo proposito di mettere in atto il metodo che aveva riconosciuto migliore: cioè, di tener la disciplina senz’asprezza, ma severamente, nascondendo sotto una compostezza fredda la sua natura troppo indulgente, e di dare anche all’educazione del cuore un carattere d’austerità e di riserbo, che tenesse gli alunni a una distanza rispettosa da lui. Egli era così profondamente persuaso, non solo dei vantaggi, ma della necessità di questo mutamento, che credeva gli dovesse riuscir facile; e principiò subito, appena tastati i ragazzi, a proporsi d’essere particolarmente guardingo con quei sette od otto, che, per apparente gentilezza d’animo, gli ispirarono più simpatia. E i primi risultati furono eccellenti. La mattina del primo sabato, essendo venuto il sindaco a visitar la classe, dopo aver origliato all’uscio qualche minuto, fu palesemente soddisfatto del silenzio e del contegno della scolaresca.
Per prima cosa, girò l’occhio intorno per lo stanzone, rallegrato da un bel raggio di sole, e domandò al maestro, con l’aria di compiacenza di chi aspetta una buona risposta: — Che cosa le pare del locale?
Sarebbe bastata la sua figura a far indovinare la sua passione dominante, ch’era quella dell’ordine e della pulizia. Durante la sua lunga carriera amministrativa, in cui aveva raggiunto la carica di Ricevitore del Registro, quella passione, cresciuta man mano con gli anni, era stata il tormento di tutti i suoi impiegati, ed era allora l’afflizione del segretario comunale e dell’inserviente, al quale, fra l’altre cose, egli prescriveva persino che fossero tagliati in losangne regolari della stessa esatta grandezza certi pezzi di carta d’uso municipale, destinati a tutt’altra buca che a quella delle lettere. Nel villaggio si facevano le grasse risa delle cure infinite con cui, dovendo mettere una firma, spolverava la penna prima, e l’asciugava poi, per tornarla a chiudere in un forzierino, ch’egli strofinava ogni volta che l’apriva, e della precisione matematica con la quale, benchè fosse piuttosto ricco che agiato, ordinava la spesa per la famiglia, calcolando quei tanti grammi di carne per ciascheduno, e notando tutto in bella calligrafia sopra registri pulitissimi, che conservava da vent’anni, come manoscritti preziosi. Egli stesso, sebbene già sessantenne, e un po’ sbilenco della persona, serbava una pulizia maravigliosa nel vestire, aveva sempre le scarpe come due specchi, e si radeva ogni giorno. E parlava come operava, compassato, con una certa sua proprietà e pedanteria burocratica e con l’accento di chi detta, facendo risaltare specialmente alcune sue parole preferite, fuor dell’uso comune, come monete rare, di cui volesse far sentire il pregio dal suono. Nei gesti aveva quel non so che di raccolto e di untuoso, che s’attacca a chi bazzica i preti.
Inteso un brano di lezione, fece un complimento al maestro, e gli raccomandò in ispecial modo l’insegnamento della lingua, che era stato trascurato negli anni scorsi. — Della nostra bella lingua — disse.
Poi s’avvicinò ai banchi, che guardò attentamente, e andò in collera, vedendovi alcune traccie di temperini. E voltandosi al maestro: — Oh giusto — esclamò, — una cosa che le debbo dir subito. Esiga ri-go-ro-sis-simamente il rispetto delle suppellettili. È un punto sul quale non transigo. Dove questo “fa difetto„ non c’è nulla di buono. Badiamo di non cominciar male. La scuola dev’essere come una chiesa. Ed è, infatti, una chiesa. — E ripetè una sua frase prediletta: — La chiesa civile.
Messo in sospetto, visitò anche gli ultimi banchi, diede un’occhiata ai muri, e ritornando davanti alla scolaresca, segnò col dito uno sgorbio che aveva fatto un alunno sopra un foglio, e gli domandò: — Così si tengono i cartolari?
Il ragazzo rispose timidamente: — È un foglio di cui non mi servo più.
— Di cui! — ripetè il sindaco. — Di’: un foglio del quale non mi servo più.
E, rivoltosi al maestro, nell’atto d’andarsene: — Dunque, lingua e pulizia: son le due cose che le raccomando in modo “precipuo.„ — E dopo aver ripetuto la frase della chiesa civile, gli disse, come per incidenza, quello per cui veramente era venuto, perchè non voleva che la commissione, trattandosi d’un maestro nuovo e di opinioni mal note, fosse fatta da altri, che non avrebbe usate le forme debite. Gli disse che facesse il favore di condurre la mattina dopo gli alunni della sua classe alla messa e alla predica.... Era una consuetudine.... un riguardo dovuto.... Del resto, gli pareva un’ottima cosa che il maestro invigilasse i suoi ragazzi anche in chiesa. Li avrebbe potuti radunare nel cortile un quarto d’ora prima della funzione.
Il maestro fu un po’ seccato di quell’incarico, per timore che la predica andasse in lungo; ma le parole di don Pirotta ce l’avevan predisposto. La mattina dopo condusse in chiesa i ragazzi: gli altri insegnanti c’eran pure. La chiesa, vasta e oscura, era affollata in gran parte, ed egli potè in pochi minuti, con le indicazioni dell’inserviente che gli stava accanto, conoscer di vista i principali personaggi del paese. Ma quando il parroco incominciò la sua predica, fu preso da un sentimento più molesto della noia che aveva temuta. La predica detta con tuono acre, scucita e intercalata di frasi vernacole, era tutta piena d’allusioni personali, che egli, nuovo nel paese, non poteva capire su chi andassero a battere; ma che lo turbarono, facendogli balenare l’idea d’un lontano pericolo per sè; e si domandò con inquietudine che cosa avrebbe fatto il giorno in cui egli pure fosse stato saettato dal pulpito. Gli fu detto poi, a spiegazione di quella predica puntaguta, che la sera avanti, essendo arrivato il supplemento del Popolo con un articoletto contro di lui, il parroco ne aveva comperato tutte le copie dal rivenditore del caffè, e le aveva bruciate sulla piazzetta della chiesa, fra gli applausi d’un cerchio di devoti. La sua faccia magra e dura, intorno a cui svolazzavano dei lunghi capelli grigi, e tutta la sua persona secca arrabbiata dicevano l’indole litigiosa e soverchiatrice, e anche meglio la dicevano i gesti violenti delle lunghe braccia, che tagliavan l’aria tutte d’un pezzo, come due stanghe confitte in una trave girante. Quando pareva che avesse finito, ricominciò. Accennò ai lettori di cattivi libri, ai framassoni, con le frasi solite del cassone fratesco. Il maestro, ch’era ancora inesperto della sacra oratoria rurale, e non aveva che quell’incerta fede religiosa, su cui l’indegnità dei ministri ha forza di argomento contrario, ne fu scandalizzato. E lo urtò anche il vice parroco, una figura tarchiata di giovane contadino attaccabrighe, che stava ritto sotto il pulpito, col viso accigliato e le braccia in croce, e fissava man mano lo sguardo sulle persone a cui l’oratore alludeva, come per designarle all’uditorio. E così fu delle prediche successive. Il reverendo era d’un’audacia senza pari. Aveva gridato un giorno dal pergamo: — Se venisse qui il re d’Italia in persona con tutto il suo esercito, io gli ripeterei in faccia che siamo male amministrati. — L’aveva soprattutto coi lettori di certi giornali di Torino, di cui conosceva tutti gli associati del paese; alcuni dei quali, vedendo lui di lontano, nascondevano il foglio. Sollevava ogni anno una tempesta prima della festa patronale, perchè non si facesse il ballo pubblico, minacciando di negar l’assoluzione alle ballerine e di non lasciar uscir di chiesa la processione. Ed era terribile in occasione di sepolture, fino a spezzar la candela in piena strada, se gliela davan di scarso peso, e a piantar lì tutto. Oltredichè aveva liti in corso con mezzo mondo: una con un vicino di podere per una condotta d’acqua, un’altra per la sua amministrazione poco netta del legato d’una Contessa, e s’era battuto tutto un anno col sindaco precedente per un orinatoio ch’ei non voleva accanto alla chiesa, e che aveva fatto abbattere tre volte. E questa sua violenza, che intimoriva molti, serviva a coprire in parte certe magagne della sua vita passata, che non eran cose di nulla, poichè nei dintorni di Piazzena si segnavano a dito due contadinotti di diversa famiglia, che si diceva gli rassomigliassero, e nei primi anni del suo esercizio, quando viveva ancora sua madre, era stato obbligato a sfrattar di casa una sua sedicente nipote, monaca smonacata, di cui si parlava troppo forte. Quando passava per la strada col tricorno sulla nuca, in compagnia del vice parroco che lo portava sur un orecchio, tutti e due col viso alto e con lo sguardo provocante, avevan l’aria di due guardie travestite, e la gente diceva: — Non si sa chi dei due arresterà l’altro. —