Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/I martiri della ginnastica
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I MARTIRI DELLA GINNASTICA.
Dopo gli esami, il maestro si sarebbe abbandonato con voluttà a un mese di ozio assoluto; ma non potè, avendo da un pezzo un debito da pagare al Ministero dell’istruzione pubblica; che era di provvedersi la patente di maestro di ginnastica, stata imposta da sua eccellenza con recente deliberazione, pena, per chi ne fosse privo al nuovo anno scolastico, d’esser dichiarato inetto all’insegnamento. Con questo scopo egli aveva fatto domanda d’essere ammesso a un corso mensile di ginnastica che si doveva tenere in quell’estate nella sua città di ***, appunto per tutti quelli insegnanti, dell’un sesso e dell’altro, i quali eran stati sordi fino allora, come lui, alle varie sollecitazioni ministeriali. Per ciò, appena finiti gli esami, fece la sua valigia, e riscosso l’assegno straordinario che gli toccava per quel mese di soggiorno fuor della sua sede, e messo in tasca il trattatello di ginnastica che gli era servito fino a quel giorno a gabbare la Minerva, se ne partì; non malcontento, in fondo, di andar a riveder sua sorella e i suoi protettori a spese dello Stato: trentatrè soldi e un centesimo al giorno, franchi di ritenuta.
Arrivato ad *** ebbe la soddisfazione non preveduta di ritrovare vari antichi colleghi, dei quali non aveva più notizia da lungo tempo. Con gran piacere, nella confusione di maestri e di maestre in cui si trovò entrando nella palestra ginnastica, vide passare la maestra Strinati di Garasco, la maestra Manca di Piazzena, il Calvi d’Altarana; e quando furon tutti schierati sotto la tettoia, intenti alla chiamata d’un ispettore con la barba bianca, che i maestri del luogo chiamavano Depretis, sentì pronunziare il nome della Falbrizio, a cui la nota voce rispose: Presente. Ma questo piacere gli fu turbato subito dal senso di tristezza che gli fece l’aspetto di quella gente schierata. Erano una quarantina d’uomini e una quarantina di donne, queste in due file a destra, quelli a sinistra, tutti sotto una vasta tettoia, davanti alla quale si stendeva un cortile quadrato, con gli attrezzi di ginnastica. Quali ginnastici, Dio buono! Erano gl’invalidi del corpo insegnante, tutti coloro che per vecchiaia o malattie o difetti fisici avevano tardato il più possibile a presentarsi a quella berlina, e che, dopo aver tentato in mille modi di sottrarvisi, s’erano rassegnati a venirvi per non perdere il pane. Il Ratti ebbe vergogna di essersi lasciato ridurre in mezzo a una tal retroguardia. C’erano vecchie di settant’anni, preti coi capelli bianchi, maestri vestiti da contadini, già curvi dagli anni, donne incinte; c’eran due monache grasse e un gobbo; e qua e là teste pelate, faccie sparute con gli occhiali, spalle cadenti, gambe floscie, scarpe di panno. Di giovani come lui, sette o otto appena; fra le maestre, due sole al disotto dei trent’anni; fra le quali egli riconobbe quella tal frugolina di Pieve, che faceva delle scappate a Garasco sempre con le mani piene di fiori, e che aveva nel suo villaggio una scuoletta, uno spicchio di casa e un giardino, tutto piccolo e grazioso come lei: era un po’ ingrassata, ma pareva sempre giovanissima. Da questi in fuori, non c’era che maturità avanzata, vecchiaia, malanni e miseria. L’ispettore presentò agli uomini il maestro di ginnastica, un giovane smilzo e allegro, con una giacchettina così stretta e dei calzoni così attillati, che pareva vestito d’una maglia nera, come un diavolo di palcoscenico; e alle maestre una signora bruna e grave, con la divisa nei capelli da un lato, che le dava un’aria bellicosa: era una maestra di ginnastica di Torino. L’uno e l’altra fecero una breve introduzione oratoria al loro corso, e il giorno dopo incominciarono le lezioni.
Poveri Atlanti della società futura! Per la maggior parte quelli furono veramente trenta giorni di purgatorio. Alcuni, che eran maestri in villaggi vicini, venivano in città la mattina prestissimo, facendo chi due e chi tre miglia di Piemonte, a piedi, e se ne tornavano, sempre a piedi, dopo la lezione del pomeriggio. Degli altri, molti dormivano su pagliericci in uno stanzone dato dal Municipio, altri qua e là, in locande da carrettieri; varie maestre eran ricoverate in un monastero. La maggior parte di queste, non avendo danari da mangiare alla trattoria, facevan colazione all’aria aperta; e si vedevano, tra una lezione e l’altra, in gruppi di tre o quattro, sedute lungo il passeggio pubblico, che mangiavano pane e salame, o un popone comprato in società, o polenta fredda, e bevevano alle fontane o ai rigagnoli; alcune coi loro ragazzetti, che s’eran condotti dai villaggi, altre dando latte ai bambini; e dopo mangiato, parecchie dormivano sui sedili di pietra dei viali, col capo appoggiato sugli involti delle loro robe. Al Ratti, a quella vista, si stringeva il cuore; tanto più quando signori o signore della città guardavano, passando, quella povera gente con un sorriso di compassione fredda, da cui pareva che fossero più scandolezzati che impietositi al veder dei maestri in quella condizione. E lo sdegno gli suscitava allora dei pensieri affatto opposti a quelli ch’egli aveva avuti al primo vederli: egli non si vergognava più dei suoi colleghi; ne accettava anzi con alterezza la fratellanza per respingere in nome di essi la commiserazione oltraggiosa, per dire in cuor suo a quei borghesi che quello spettacolo compassionevole che davan di sè i maestri del loro paese, non era in fondo che un effetto lontano della loro vergognosa indifferenza, mascherata di vuote ciancie umanitarie, per la scuola del popolo e per i suoi insegnanti, un riflesso indiretto dell’ignoranza, dell’ignavia, dell’impostura patriottica di milioni di borghesi pari loro.
Nella palestra, però, dove non c’erano spettatori estranei, il giovane maestro non poteva qualche volta trattenere il sorriso; uno di quei sorrisi provocati irresistibilmente da certi aspetti comici, senza che c’entri ombra di dileggio per le persone, alle quali anzi si chiede scusa in cuor proprio, nell’atto medesimo che se ne sorride. Quei poveri vecchi acciaccosi, quelle maestre dai capelli grigi e quei preti guardavano l’insegnante e gli attrezzi, e udivano e ripetevano quelle parole nuove e eteroclite dei comandi, con una cert’aria di stupefazione e d’inquietudine, come se gli avesse condotti là il capriccio tirannico di qualche ministro mezzo matto; non potendo capacitarsi in alcun modo del come quegli strumenti di tortura e tutta quella rappresentazione burattinesca dovessero giovare alla scuola e alla rigenerazione del popolo. Si fermavano a mezzo dei movimenti per un nodo di tosse o per una fitta di dolore reumatico, si guardavan l’un l’altro, prima di eseguire un comando, nessuno osando d’essere il primo, e ad ogni mossa un po’ scomposta, alcuni si tastavano i panni per sospetto di sdruciture, altri davano dei traballoni: tutti facevan la spinta delle braccia in alto in una certa maniera, come se dicessero: — Signore Iddio misericordioso, liberateci voi da questo martirio. — E mentre i cinquantenni intozziti invidiavano i pochi colleghi giovani che avevano ancora le membra pieghevoli a quel lavorìo, erano essi stessi oggetto d’invidia ai vecchi di settant’anni, che stentavano a reggersi in equilibrio; e questi alle maestre loro coetanee, alle quali pareva che nei vecchi maschi, pur essendo ridicola, la ginnastica non fosse almeno, com’era per loro, una cosa indecente. Fra le maestre in special modo, quando si dovevan presentare di fronte alla squadra a ripetere i comandi, ce n’era che provavano una tal suggezione, che perdevan la testa, e dovevan ripetere dieci volte il comando più semplice, e moriva loro la voce tra i denti. La maestra insegnante diceva: — Animo, signora! Siamo qui fra colleghe; non c’è motivo di vergognarsi; bisogna farsi una ragione. — Ma era come raccomandar la disinvoltura a un crocifisso. La maestra Manca di Piazzena, fra l’altre, alla terza lezione, dovendo eseguire un movimento davanti alle compagne, fu presa da una così forte confusione, che non le riuscì d’alzare le braccia, e rimase lì col mento sul petto e con gli occhi a terra, come paralizzata. — Ma perchè non eseguisce! — le domandò la insegnante. E quella rispose con voce fioca, scoraggita: — Non so.... non oso... non posso. — E la insegnante fu costretta a rimandarla al posto.
La prima che il Ratti potè interrogare con suo comodo fu la maestra Strinati di Garasco; alla quale s’era un po’ arrotondata la schiena e allargata la spiazzata fra i capelli; ma non smorzato l’occhio severo dietro gli occhiali affumicati, nè rammollita la faccia lignea, su cui pareva che il tempo, per disperazione, avesse rinunziato a lavorare. Essa salutò il giovane senza allegrezza, ma con piacere; e gli diede notizie di don Leri che seguitava a ingoiar romanzi, della maestrina di 1ª che continuava a registrare i suoi pensieri e a declamar poesie, ma senza far nessunissimo progresso nè in letteratura nè in declamazione. Del rimanente, tutto era cambiato. Morto il vecchio parroco, gli era succeduto un parroco giovane e intrigante, che scriveva in un giornale clericale, corteggiava le signore e faceva alto e basso nelle scuole. Quanto all’assessore Toppo, la Strinati si maravigliò molto che il giovane non sapesse dello scandalo ch’era accaduto per cagion della nipote, chè n’avevan parlato persino i giornali. Era accaduto che un nemico fierissimo del Toppo, proprietario danaroso e consigliere provinciale, che conosceva mezzo mondo a Torino, essendosi messo con le mani e coi piedi per appurar l’affare della patente, s’era potuto finalmente accertare che la ragazza non aveva mai dato gli esami. Il provveditore, informato della cosa, aveva mandato a chiamare il soprintendente, il quale, fingendosi calunniato, era andato su tutte le furie. Ma le prove dei fatti lo schiacciavano. Dopo altre ricerche, s’era venuto a scoprire che aveva tenuto mano all’imbroglio un professore prete, suo parente, e che un impiegato aveva fatto la patente falsa. Allora l’impiegato e il professore erano stati messi a sedere, la ragazza esclusa per la vita dagli esami di patente, e il signor Toppo costretto a dimettersi da soprintendente e da consigliere. — Un capitombolo completo, — disse la Strinati. — Se par possibile! A che cosa s’arriva nel nostro paese! Fino a falsificare il certificato ufficiale di povertà! — E dalla rovina del Toppo era seguìto che il sindaco velocipedista, privato del suo braccio destro, e sempre più dato ai grilli, s’era infischiato degli affari del comune a un tal punto, che un capo ragioniere mandato dal sotto-prefetto a fare un’ispezione aveva trovato l’uffizio comunale in uno stato deplorevole, gli archivi in disordine, mancanti gl’inventari, i registri di contabilità sottosopra, e perduto persino il sussidio governativo per una nuova strada, per non esser state fatte in tempo le pratiche necessarie. Per questo il sindaco era andato giù, e n’era venuto un altro, tutto carne e pelle col parroco, il quale era diventato il vero re del paese. Il Ratti domandò notizie del segretario. Il segretario era scappato appena caduto il sindaco, lasciando pien di chiodi il paese e desolata la maestrina; la quale aveva finito, nonostante il voto fatto, a innamorarsi di lui, tanto che alla prima notizia della fuga, s’era chiusa in camera, dando a sospettare che si volesse asfissiar col carbone; ma il padre e i vicini, sfondata la porta, l’avevan trovata che copiava in bella una poesia. Siccome poi, in quell’anno, compiva i ventinove, così tutti stavano aspettando che, giusta il suo proposito, pubblicasse le cose proprie; essa diceva che aveva tutto in pronto, e che voleva dedicar le sue opere alla regina di Portogallo. — E sa, — concluse la Strinati, accomiatandosi; — le scuole son sempre nel medesimo stato. Non c’è che qualche vetro rotto di più.
Ma le notizie che più gli premevano eran quelle d’Altarana. La prima volta che potè afferrare la maestra Falbrizio, la tirò in disparte e le domandò premurosamente della maestra Galli. — Guardi un po’! — le rispose quella, fissandolo coi suoi occhi maliziosi. — Io avrei creduto che m’avrebbe domandato prima di un’altra persona! — Alla maestra Galli era morto il padre lo scorso inverno, dopo ch’essa aveva passato venti notti al suo capezzale, senza svestirsi. E non si poteva dire quanto fosse stata addolorata da quella disgrazia.... Fin troppo. — Alle volte, — disse per spiegare il suo pensiero, — queste maestre belle e giovani si disperano anche un poco.... per fare come leggon nei libri. Oh! non voglio mica dire, — s’affrettò a soggiungere, osservando il viso del giovane, — che il suo dolore non fosse sincero.... Tanto più che il sindaco non le volle dare che tre giorni di permesso, e così le toccò di far lezione quasi subito, in uno stato, poveretta, che le ragazze singhiozzavano con lei. Ah! quel sindaco, che uomo di poco cuore! — Ora però, grazie al cielo, pareva che si fosse un poco rabbonito, perchè l’aveva finalmente spuntata di far venire alle Case Rosse quella tal maestra maritata, per cagion della quale eran toccati a lei tanti guai, e aveva ficcato nel Municipio suo marito, forse con l’intenzione di dargli poi il posto di segretario. — Motivo per cui — disse la Falbrizio, col suo sorriso mellifluo, facendo scintillar le pupille, — ha dato alloggio alla famiglia nella casa comunale, accanto alla sua camera, tanto che la notte, quando ha da dar qualche ordine urgente.... al marito, non ha che da picchiare nel muro; e così.... dicono che il servizio va meglio. — Poi gli diede notizie dei coniugi Samis, che stavan bene, e del giovanotto GenèriFonte/commento: normalizzo, il quale faceva miracoli alle scuole tecniche di Torino, e aveva preso delle maniere così per bene, messo su un’aria così signorile, che nelle vacanze non voleva più mangiare a tavola con suo padre, perchè diceva che gli mancavano i denti e sputava sui piatti. Del resto, col tempo, non poteva mancare di far onore al paese. Quanto alla maestrina Vetti, l’avevano mandata in un paesetto della Sicilia.... dopo, s’intende, e, pur troppo, senza che avesse visto la sciarpa di nessun assessore municipale. — E il maestro Calvi l’ha veduto? — domandò in fine. — Lo cerchi un po’, che ne sentirà delle belle contro la ginnastica. Se sentisse come ce l’ha amara perchè non l’ha inventata lui! Grand’uomo di talento, però, se non avesse quella levatrice che lo incretinisce con la gelosia, perdendo la testa al punto che non va più bene un parto nel paese. Ancora gelosa a cinquantacinque anni, si figuri! e dopo averne viste.... Badi che io dico viste, e non fatte, come dicon tutti. Ah che mondo!
Il maestro Calvi, in fatti, era dichiarato nemico della ginnastica ministeriale, e la eseguiva con ostentato disprezzo, senza neppure levarsi il soprabito, che aveva sempre pieno di macchie e gonfio di carte, come a Altarana. Egli agguantò il Ratti un giorno, fra una lezione e l’altra, e gli espose le sue idee. La ginnastica, con quei movimenti compassati e numerati, quale era imposta allora nelle scuole, secondo il concetto di quel talentone del De Sanctis, che mancava affatto di senso pratico, era una vera e propria pagliacciata, che fra qualche anno sarebbe caduta nel ridicolo universale. Secondo lui, anche per ritemprare fisicamente l’uomo, bisognava, come nelle cose morali, risalire ai principii. Ora, avendo assodato la scienza che l’uomo era stato antichissimamente un animale quadrumane, usato a star la maggior parte del tempo sopra le piante, ne seguiva che per restituire a poco a poco al suo corpo la salute, la vigorìa, la sveltezza che aveva perdute, bisognava ricondurlo alle piante: ossia escogitare e istituire una ginnastica che avesse per fondamento ed attrezzo unico ed universale l’albero: l’albero naturale, s’intende. L’albero, infatti, riuniva in sè tutti gli attrezzi: offriva il fusto per arrampicarsi, i rami per sbarre fisse o travi di sospensione, per saltare dall’uno all’altro, o per farvi esercizi d’equilibrio, o per addestrarsi a cadere dall’alto; oltrechè era la più igienica delle palestre e per l’ossigeno che la verzura esalava e per il verde che riposava gli occhi. Si dovevano dunque assuefare i ragazzi a giocare, a mangiare, a dormire, a studiare sugli alberi, chè tutte le loro facoltà fisiche si sarebbero così svolte rapidamente e con armonia. C’era poi una ragione di corrispondenza storica da non trascurarsi: l’albero del Paradiso terrestre era stato il simbolo della scienza del bene e del male; l’albero della libertà, il simbolo della redenzione civile dell’uomo; l’albero della ginnastica sarebbe quello della rigenerazione fisica.... Il concetto, del resto, aveva bisogno d’essere svolto ampiamente, ed egli stava preparando una serie d’articoli. — E vedremo un po’ — disse in fine. — Per ora, mi tocca a far la marionetta come gli altri, perchè così piace ai grandi uomini che tengono i fili nelle mani. — E soggiunse con un sorriso altiero: — Un giorno, forse, li farò ballar loro.
Continuavano intanto le lezioni, segnate quasi ogni giorno da qualche piccolo avvenimento. Assistendo una mattina l’ispettore alla chiamata delle maestre, e trovandone una assente, ne domandò il perchè alle compagne: queste si guardarono senza rispondere: poi una di esse uscì dalle file e andò a dirgli sotto voce che l’assente, già madre di cinque figliuoli, ne aveva avuto un sesto durante la notte. — Ma come! — disse l’ispettore. — Se assisteva alla lezione di ieri! — La povera donna, in fatti, già presentendo la cosa, s’era ancora trascinata alla palestra per non perder la lezione, e l’avevano assalita i dolori all’uscita. Nella stessa lezione prese male a un’altra maestra incinta mentre faceva la rotazione delle braccia, e la dovettero menar via. Nondimeno, quello che alle persone d’età riusciva più molesto e difficile, non era l’eseguire i movimenti, ma l’imparare e tenere a mente la teoria. A vari dei vecchi, che avevan la memoria un po’ svanita, quel nuovo linguaggio acrobatico soldatesco non si voleva più appiccicare in nessun modo. Eran già oltre la metà del corso, e un di loro, un piccolo settuagenario rugoso, vestito di traliccio turchino, che di fuori camminava col bastone, non era ancora riuscito a comprendere il perchè e il come al comando di fianco destro o fianco sinistro gli esecutori si dovessero voltare dalla parte del fianco destro o sinistro proprio, e non di quello dell’istruttore: ogni momento pigliava abbaglio, e si dava della mano venosa sulla fronte, pestando i piedi, disperato. C’era poi un povero prete stecchito e piegato in due, vestito d’una tonaca color d’erba secca, piena di ragnature; il quale, ad ogni movimento nuovo, implorava dal maestro d’essere dispensato, a bassa voce, con l’accento di chi chiede un soldo per amor di Dio; e il maestro, con le buone, lo persuadeva a provare. Ma quando si venne al salto della funicella, benchè non fosse tesa a più d’un palmo da terra, egli si rifiutò ostinatamente di saltare, scrollando il capo, e facendo cenno di no con la mano tremola. — Ma veda, reverendo, — gli disse il maestro; — non si tratta che di saltare una volta, per imparare la posizione di partenza e quella d’arrivo, per poterla insegnare ai ragazzi; un salto solo. — Ma il prete tornò a dir di no, tentennando il capo, e il maestro ci dovè rinunziare.
La sezione delle maestre era un po’ meno malinconica per effetto della maestra di Pieve, che con la sua vivacità e la sua buona grazia le ricreava tutte. Anche là essa veniva ogni giorno con dei fiori in mano, vestita di chiaro, sempre rossa e fresca come un’inglesina di diciott’anni, e nei pochi minuti avanti la lezione, se non c’eran dei maestri vicini, dava saggio della sua elasticità sulle parallele o saltava la cordicella, in mezzo ai sorrisi d’ammirazione delle sue colleghe rustiche e mature, di cui aveva conquistate le simpatie. Le due monache soltanto guardavano da un’altra parte, scandolizzate, e la maestra Falbrizio, che in quindici giorni era già entrata in relazione con tutte, e sapeva di tutte vita e miracoli, la biasimava con dolcezza materna, di crocchio in crocchio, dicendo che quella esposizione di calze bianche, per quanto fosse fatta innocentemente, non istava bene, lì a dieci passi dai maestri, che la sbirciavano; tanto più che aveva il vestito un po’ troppo corto; ed anzi essa aveva già sentiti certi discorsi. Ma quelle calze erano così bianche, così ben riempite e ben tirate e leste, che ottenevano l’indulgenza anche delle spettatrici meno benevole. Passando davanti a un gruppo di maestre, il Ratti sentì una buona donna coi capelli brizzolati, che la difendeva bonariamente. — Eh! lasciatela fare, — diceva, — povera ragazza. Quella lì almeno ci fa un po’ d’onore: fa vedere che nel corpo insegnante non ci sono soltanto dei vecchi rosti.
Negli ultimi giorni il Ratti s’intrattenne di preferenza con la maestra Manca, che gli aveva lasciata una così buona memoria. La prima volta che s’incontrarono, essa lo salutò abbassando gli occhi, un po’ vergognosa di comparirgli davanti invecchiata. Era molto invecchiata, infatti, per il tempo trascorso; ma il viso sfiorito, sul quale pareva che avessero lasciato una traccia tutti gli stenti e tutte le umiliazioni della sua povera vita di maestra rurale, mostrava ancora la dolce rassegnazione antica, e il suo corpo esile serbava la grazia monacale degli anni andati. All’udir la sua voce, il giovine si ricordò con commozione delle serate tranquille che aveva passate in casa sua, in compagnia di sua madre, quando essa lavorava a un paramento per l’altar maggiore della parrocchia. Sua madre viveva ancora; nulla era seguìto di nuovo nella sua vita. Altre duecento ragazze avevano avuto le sue cure e le sue carezze, altre quattro visite d’ispettori l’avevan fatta tremare per il suo pezzo di pane, altre quattro ricorrenze d’esami l’avevan tenuta in affanno per un mese, ed essa aveva ancora versato qualche lagrima per rimproveri immeritati o per atti d’ingratitudine di bambine: nulla di più. Il maestro le domandò notizie dei conoscenti di Piazzena. Il parroco era sempre quello; e con questa frase ella fece comprendere discretamente che non solo era ancora vivo, ma sempre vivo nella stessa maniera. Il sindaco era ancora andato innanzi nella sua passione per la pulizia e per la lingua; ma s’era imbattuto in un maestro più linguista di lui, col quale attaccava per i cui e per i che delle dispute furibonde, che si sentivano dalla strada. Don Biracchio sempre vegeto e solitario nella sua bicocca. — E la signorina Fanari? — domandò vivamente il Ratti, sorridendo. La maestra pure sorrise, comprendendo che egli voleva sapere se il famoso secreto fosse stato scoperto, e titubò un poco ad entrare in quell’argomento difficile, che non aveva mai toccato con lui. Ma vide negli occhi del maestro una così giovanile curiosità e insieme tanta benevolenza per lei, che vinse la propria ripugnanza, e, continuando a sorridere, rispose. Ebbene, no: il segreto non era stato scoperto; la sua collega continuava a far le solite gite a Torino, sempre serena e impenetrabile, e tutti seguitavano ad essere più curiosi e più arrabbiati che mai, e a far delle ricerche che non riuscivano a nulla. Da ultimo, sapendo ch’essa aveva un ritratto in fotografia che guardava sempre, e teneva chiuso in una busta, avevano indotto con danaro una sua servetta a portarglielo via durante una delle sue assenze, con la speranza di scoprire finalmente chi fosse l’innamorato misterioso; e appena avuta la busta rubata, ci s’erano gettati su in quattro o cinque con la curiosità che si può immaginare. — Ebbene? — domandò il Ratti. — Era la fotografia, — rispose con rispetto la maestra, — di Sua Santità Leone XIII. E soggiunse con un sorriso che la burla aveva esasperato tutti quei signori in un modo.... Il Ratti diede in una risata. E domandò come stesse di cuore il delegato delle maestre. — Ah! l’avvocato! — mormorò la signorina, indovinando che la domanda alludeva alla sua passione dominante. L’avvocato aveva avuto un gran colpo. Quella bellissima maestra del comune di Altosso, che incantava tutti, e di cui egli era tanto appassionato, aveva preso marito. Un giovane ingegnere che andava là a villeggiare se n’era perdutamente innamorato, e aveva finito con sposarla, nonostante che un suo zio ricco, che non voleva quel matrimonio, si fosse fatto nominare apposta delegato scolastico per far mandar via la maestra: il provveditore stesso, intervenendo a proteggerla dalle persecuzioni dello zio in carica, aveva indotto questo a dare il suo consenso. Le nozze s’erano fatte nel paese, e quando gli sposi eran partiti, un nuvolo di bimbi e di ragazzine, tutte le autorità, mezza la popolazione aveva accompagnato per quasi un miglio la carrozza, e l’aveva empita di fiori. La sposa, poi, ritornata l’estate appresso al villaggio, vestita come una principessa, più bella e più buona di prima, aveva fatto un corso di lezioni festive alle sue antiche alunne. Ora aveva un bambino, ed era felice. E mentre la maestra diceva questo, il giovane le vide balenare negli occhi quella vaga espressione di rimpianto che v’aveva notato altre volte: il rimpianto di quelle centinaia di bambini ch’eran passati in tanti anni per i banchi della sua scuola, senza ch’ella potesse mai dire a nessuno: — Sei mio.
Giunse finalmente il giorno degli esami. Dovendo questi esser pubblici, e sapendosi che vi dovevano assistere, tra gli altri, il provveditore, il vescovo e il sindaco, la maggior parte delle maestre vecchie o attempate si concertarono per ottenere dall’ispettore che certi movimenti non fossero fatti eseguire in presenza alla gente, e ne parlarono due giorni prima alla maestra di ginnastica. Questa non dissentì, ma per far le cose in buona regola, schierate le alunne in due file, ordinò che quelle che desideravano d’esser dispensate da quei dati esercizi, facessero due passi avanti, le altre rimanessero ferme. Trent’otto si mossero: non rimasero indietro che le due giovani. La domanda fu riferita all’ispettore, che la sottopose al provveditore; il quale, preso tempo a riflettere, diede il suo consenso. Nondimeno, quando si trovaron davanti a quella schiera di personaggi, nel giorno solenne, la maggior parte avevan l’aria di gente che si preparasse piuttosto a far quello che si chiama il gran salto, che a far dei salti di ginnastica fanciullesca, tanto eran tutti intimoriti e confusi. Tutti s’eran messi addosso la meglio roba che avevano; i vecchi avevan la barba fatta, le donne eran pettinate. Da una parte della palestra c’era una lunga schiera d’invitati, tutte persone per bene; alcune delle quali, assistendo agli esercizi, non diedero segno di una delicatezza maggiore di quella che c’era stata nel pensiero di invitarle. Si contenevano a quello spettacolo come usa la gente a certe corse d’animali zoppi decrepiti che si fanno in certi paesi; senonchè in questi casi c’è almeno qualche giornaletto di provincia che, la domenica dopo, chiama lo spettacolo barbaro e l’ilarità del pubblico villana. E quello che facea più pena, essendo stati ammessi nella palestra i figliuoli di alcune delle esaminande, era di vedere i più piccoli ridere delle mosse grottesche e della vergogna delle loro madri, e i più grandicelli, che capivano, adontarsi dei sorrisi degli spettatori, come d’un’offesa. Una vecchia svenne. Il prete ribelle al salto cadde sulle ginocchia. Ma non ci furono altri accidenti. Lo spettacolo terminò bene. Non mancava che la corsa nel sacco.