Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Garasco/I

Le prime conoscenze

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Garasco Garasco - II
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LE PRIME CONOSCENZE.


Arrivava a Garasco senza l’entusiasmo ingenuo di molti esordienti, poichè delle durezze della vita del maestro aveva inteso abbastanza alla Scuola; ma con una certa curiosità serena di vedere quale sarebbe stata la prima stazione del suo pellegrinaggio; ed ebbe grande piacere dell’accoglienza che gli fece il sindaco, la quale gli parve un presagio fausto, come la bella giornata autunnale che dava al villaggio un’aria di festa. Egli saliva le scale della casa comunale mentre il sindaco e il segretario smontavano dai velocipedi nel cortile, di ritorno da una corsa in campagna, e fu stupito e contento insieme al vedere che la prima autorità del paese era un giovane sulla trentina, elegante e allegro, con un sorriso cordiale. — Ah! il nuovo maestro! — esclamò il sindaco, porgendogli la mano; — un giovanotto: tanto meglio: andremo più d’accordo. — E datigli alcuni ragguagli intorno al paese, col fare d’un camerata più che d’un superiore, lo presentò al segretario comunale, anch’egli giovane e alto, con quel certo che di succinto nel vestire e di franco nei modi, che rivela l’antico ufficiale. La sala, da cui si vedeva un giardino dorato dal sole, era mobiliata come un salotto di villa: pareva che tutto, in quel municipio, fosse giovanile.

— Ora, — disse briosamente il sindaco al segretario, — tu darai al nostro maestro tutte le informazioni necessarie, gli fai fare un giro per il paese, lo conduci [p. 15 modifica]a veder la scuola e i colleghi, e stasera alle cinque me lo porti a casa a desinare. Sarà bene che lo presenti anche al signor Toppo. E dopo desinare si faranno quattro passi nel parco. Ben arrivato, dunque; buoni auguri e a rivederci.


Il maestro uscì soddisfattissimo, ed espresse il suo sentimento al segretario. Questi fece l’apologia del suo capo. Era possessore d’uno dei più grossi patrimoni del paese, aveva due grandi case a Torino; ma la ricchezza non contava. Era un fior di galantuomo e di gentiluomo, un cuore di Cesare. Già suo padre era stato sindaco di Garasco per vent’anni, e vi passava ogni anno sei mesi, dal giugno al novembre. Ma il figliuolo, cacciatore, floricultore, alpinista, innamorato della campagna, ci stava da due anni anche d’inverno, non scappando a Torino che ogni tanto. D’estate era l’anima di tutte le feste; il paese lo adorava. Egli doveva a lui d’essere segretario comunale: s’erano conosciuti in collegio; poi egli aveva preso la carriera militare, quegli studiato da avvocato. Arrivato al grado di tenente di fanteria, aveva dovuto, per ragioni di famiglia, farsi applicare l’articolo 3°, e trovandosi senz’occupazione, s’era procurato, per consiglio dell’amico, le patenti di segretario comunale, e aveva ottenuto il posto a Garasco. Poteva dire che col sindaco vivevano ancora come compagni di collegio; andavano insieme alla caccia, a pescare, a far cavalcate; ma egli non abusava della familiarità; in servizio si teneva al suo posto. Era contento: non avrebbe cambiata la sua condizione col grado di maggiore. E diceva la verità, fuorchè riguardo all’articolo 3°, perchè dall’esercito l’aveva messo fuori un Consiglio di disciplina, e riguardo all’adorazione del paese per il sindaco, poichè la caccia e le feste lo distoglievano un po’ troppo dall’amministrazione, e molti brontolavano. In assenza del sindaco, chi faceva tutto, e anche più del bisogno, era l’assessore Toppo, un armeggione burbanzoso che il paese vedeva male. Quando c’era qualche faccenda che premesse, i due giovani amici la scaricavano addosso al compare, e partivano insieme sui velocipedi. Così correvano gli affari del comune. [p. 16 modifica]

Il segretario condusse il maestro per il villaggio, che era d’una struttura stranamente regolare, tagliato in croce da due lunghe stradicciuole diritte, con una piazza quadrata al crocicchio, dove s’alzava una tettoia per il mercato; tutte case basse, molte fiancheggiate da giardinetti o da orti, da cui s’alzavano fichi e viti abbarbicate ai terrazzini di legno e intorno alle finestre; e meridiane a ogni cantonata; sulle quali un poeta mezzo matto del paese, morto da vari anni, aveva schiccherato un gran numero di motti e di versi d’una tale profondità, che nessuno li capiva. Da ogni parte si vedevano le Alpi.


Le scuole maschili erano in un vecchio monastero, all’estremità d’una delle due strade principali, accanto a un mulino. Il maestro che, al sentire della ricchezza e della liberalità del sindaco, s’era immaginato delle scuole esemplari, rimase un po’ male entrando nella sua, ch’era una stanzaccia lunga e stretta, con un archivolto nel mezzo, malamente rischiarata da due finestre rotonde, troppo alte: forse un antico oratorio. C’erano alle pareti vari cartelloni di piante e di animali, una nicchia con dentro qualche solido geometrico, e una gran carta geografica tra le due finestre; ma tutto in cattivo stato. I banchi, mal costrutti, disposti in due lunghe file, eran coperti d’incisioni e d’iscrizioni d’ogni genere, incavati, dentellati, forati, raschiati, come se avessero servito per dieci anni agli esercizi di lavoro manuale d’una scolaresca d’intagliatori e di fabbri. Pendeva ancora vicino all’uscio un grande cartellone con la musica d’un inno che avevan cantato gli scolari a una distribuzione di premi, poichè il maestro antecedente era un filarmonico appassionato; e più alto, attaccato a un chiodo, lo scheletro polveroso d’un’enorme corona di fiori, che doveva aver servito a qualche festa municipale o scolastica.

— Tutto questo, — disse con vivacità il segretario, osservando il viso scontento del maestro, — è destinato a sparire. Il sindaco sta studiando un progetto, una trasformazione completa dei locali. Si sfonderà qui, si butterà giù il muro là in fondo, dalla parte della strada s’aprirà un’altra finestra, nel cortile si farà una galleria a vetri per la ricreazione, tutto il [p. 17 modifica]materiale sarà rinnovato. E poi.... grandi cose, in somma. Fra un paio d’anni avremo le più belle scuole del circondario.


Andarono dall’assessore Toppo, che stava in una casetta gialla, mezza coperta da una meridiana gigantesca, e fiancheggiata da una casa rustica, in cui abitavano i suoi contadini. Il maestro non potè trattenere un sorriso alla vista di quella figura d’antico vangatore, bassotto e largo, con una testa enorme, la quale di tanto in tanto chiudeva gli occhi, come una testa d’automa. Ma indovinò che ci doveva essere un certo ingegnaccio di faccendiere buono a tutto, o se non altro una maledetta tenacia di volontà sotto a quel mascherone bernoccoluto, atteggiato continuamente a un sorriso gianduiesco. Costui lo accolse con affabilità, temperata da un certo sussiego. Ma di questo era scusabile, poichè egli riuniva in sè le cariche d’assessore, di soprintendente delle scuole, di direttore dell’asilo, di membro della Congregazione di carità e di vicepresidente del consorzio della nuova strada, ed era arrivato a quella “superba altezza„ passando per i mestierî di contadino, di falegname, di muratore, di fattore; per mezzo dei quali, e di altri ancora, aveva messo insieme in quarant’anni di lavoro e di taccagneria un capitale meno ingente di quanto si dicesse e di quello che volesse far credere, ma degno di considerazione. Fra l’altre cose, domandò notizie al maestro della famiglia Goli, ch’egli conosceva per riputazione, e di cui parlò con molto rispetto, fece stappare una bottiglia, e presentò al giovane sua nipote “maestra patentata,„ un macchinone di ragazza, con mezzo naso, che lasciava indovinare a traverso al viso buono il cervello scemo, e tirava a nascondere le mani; le quali facevan pensare che ella avesse maneggiato per molti anni uno strumento più pesante della penna. La visita fu breve; ma anche questa lasciò nel maestro una buona impressione. Il soprintendente lo invitò, chiudendo gli occhi, a venir qualche sera a casa sua, a discorrere delle cose di scuola, ed ebbe la cortesia di rimaner sul pianerottolo mentre egli discendeva le scale.


Quando furon sulla strada, il maestro domandò del [p. 18 modifica]delegato scolastico: il segretario si mise a ridere. Del delegato non c’era da darsi pensiero perchè era un personaggio misterioso, che neppure si poteva dire con certezza che esistesse: faceva il delegato di Garasco da Torino, a quaranta miglia di distanza, e non si mostrava nel paese che in occasione di grosse grandinate o d’inondazioni, per dare un’occhiata alle sue terre. Egli avrebbe voluto condurre il giovane dal suo collega don Leri, maestro di 3a, ma pensando che a quell’ora non fosse in casa, gli propose d’andare dalla maestra Strinati: dopo di che avrebbero fatto visita al parroco, che le stava di faccia. — Un’ottima maestra, — gli disse, — che ha trentacinque anni di servizio, un carattere fermo; fa andar la scuola come un orologio. — Le avevan però fatto una birbonata; sotto il sindaco precedente, s’intendeva. Stavano per segnare l’atto di riconferma, dopo non so quant’anni che insegnava nel paese, quando un consigliere aveva fatto questa caritatevole osservazione, che essendo riconfermata essa avrebbe acquistato diritto alla pensione, e così il municipio, tra non molto tempo, sarebbe stato onerato d’una nuova spesa. La più parte dei consiglieri avevan trovata giusta l’osservazione, e, certi che a quell’età, con degl’incomodi, la maestra non si sarebbe più decisa ad andare altrove, avevan detto: — Se vuol essere riconfermata rinunci alla pensione. — E la povera donna, temendo di non trovare un altro posto, tanto più ch’era un po’ sorda, aveva rinunciato. — Queste cose si facevano! — esclamò il segretario.

Il maestro s’aspettava che quegli soggiungesse subito che il nuovo sindaco aveva riparato all’ingiustizia; ma, con suo stupore, non intese altro. Osservò invece che il segretario, strada facendo, tirava delle occhiatine di qua e di là, ora alle persiane d’una finestra, ora a un uscio socchiuso, come se avesse “qualche cosa„ da per tutto.

Mentre svoltavano a una cantonata, il segretario disse: — To’.... la maestrina.

Veniva innanzi una ragazza di forme pienotte, ma che si riconosceva anche di lontano giovanissima; vestita così tra la signorina e la figliuola del contadino agiato, con un gran cappello di paglia. Il maestro fu [p. 19 modifica]punto da una viva curiosità, pensando ch’era la prima collega ch’egli incontrava nella sua carriera.

— È la maestra di 1a, — disse a bassa voce il segretario: — una testa un po’ esaltata.... gliela presento.

Quando si trovaron di fronte, egli si soffermò, facendole una scappellata, e le presentò il maestro; poi fece a questo un elogio della signorina: — .... ingegno.... fantasia.... un avvenire letterario.... — Al maestro parve di scorgere nel lodatore il fare forzatamente disinvolto e un po’ ironico dell’uomo che si trova dinanzi a una donna con cui fece fiasco.

Quella rispose senza imbarazzo, in italiano, con degli o molto larghi: — Io non sono degna di tali elogi.

Non era bella, ma fresca come una rosa; il viso volgaruccio, gli occhi azzurri e l’accento tradivano una certa fatuità ingenua.

— Quale impressione, — domandò al maestro, — le ha fatto il nostro povero villaggio?

Il maestro cercò una risposta arguta, non la trovò. — Una buonissima impressione.... bei dintorni.... un villaggio simpatico.

— C’è, — disse la ragazza, — la bellezza della natura, nient’altro. E la pace.... favorevole agli studi.

— Ma la signorina, — osservò il segretario con un sorriso ambiguo, — non resterà un pezzo a godere di questa pace. Piglierà il volo per Torino. Non è mica fatta per rimanere nelle nostre povere scuole.

— Io non ambisco alla città, — rispose la maestra, guardando le Alpi: — nè ad altro al mondo. Non vivo che per le mie fanciulle.

E salutati i due giovani con un sorriso, e con un inchino un po’ troppo profondo, riprese la sua strada.

— Una brava ragazza, — disse il segretario, senza che il maestro potesse capire se parlava sul serio o in canzonatura, — piena di talento e d’immaginazione. Scrive i suoi pensieri. È sempre in giro per i campi a fantasticare. E brava anche nella declamazione. — E raccontò la sua breve storia. Era figliuola d’un bovaro del paese. Una vecchia signora vedova le si era affezionata ch’era ancora bambina, l’avea presa con sè e fatta studiare da maestra. Poi la signora era morta, ed essa era tornata con una sua sorella e con suo padre, che andava matto d’orgoglio per quella figliuola. La [p. 20 modifica]sera, passando davanti a casa loro, si sentiva la maestrina che leggeva ad alta voce in famiglia i pensieri della giornata. La gente.... il popolo la teneva come una gloria del villaggio. Quando era tornata da Torino con la patente, le era andata incontro la banda della Società filarmonica. Il soprintendente Toppo n’era un po’ geloso, per ragion della nipote, che quella ecclissava: compatibile, pover’uomo.

Trovarono la maestra Strinati davanti all’uscio di casa, in un cortiletto piccolissimo, dove dava il pastone a uno sciame di galline, con le quali cercava di riparare alla scarsità dello stipendio. Essa ricevette i due visitatori con buona maniera, ma senza complimenti, e li fece sedere sur una panca, in un angolo. Aveva i capelli grigi e radi, con una spiazzata nel mezzo, il naso adunco, la bocca severa; portava un par d’occhiali affumicati; era vestita come una modesta merciaia. Diede il benvenuto al maestro, gli domandò conto dei nuovi programmi della Scuola normale, mostrando con brevi parole una intelligenza netta e una certa cultura scolastica. Poi, di punto in bianco, si rivolse al segretario per raccomandargli che prima della riapertura delle scuole fosse almeno accomodato l’ammattonato della sua, ch’era tutto smosso, e le ragazze v’inciampavano. Il segretario parve piccato ch’ella facesse quella lagnanza in presenza del nuovo maestro; ma promise che avrebbe parlato.

— Gli è, veda, — riprese la maestra, — che ci troviamo in questo stato dal principio dell’altro anno scolastico. E già che ci sono, mi scusi, — continuò con accento più risentito, — lei sa che non ne avrei più voluto riparlare, chè è un discorso che mi scotta la lingua; ma mi pare che quest’anno, almeno, dopo l’ultimo avvertimento dell’ispettore, non dovrebbero più permettere quella birberia.... io chiamo le cose col loro nome.... — E voltandosi verso il maestro: — Si figuri, una maestra che non ha mai visto il colore d’una patente, e che tiene tanto di scuola privata, dove dice d’insegnare a leggere e scrivere, e trova le contadine bestie che ci mandan le bimbe, e le danno una lira e mezza al mese. Io non lo dico perchè mi rubi quei pochi soldi delle ripetizioni estive; ma perchè è una scuola di contrabbando, che porta via le alunne alla scuola pubblica, e [p. 21 modifica]non c’imparano il bel nulla. Basti dire che non ci hanno nemmeno banchi, e la maestra tiene il libro fra le gambe, e fa leggere le bimbe in ginocchio.

Il segretario, imbarazzato, le disse che esagerava.

— Esagero? — saltò su la maestra. — Ma se lo sa tutto il paese! — E rivolgendosi da capo al maestro: — E il modo come tiene la disciplina, quella signora. Le basti sapere che, per punizione, fa ancor fare la croce con la lingua sopra i mattoni, e alle più grandi dà un colpo col ditale in mezzo alla fronte, — sì, signore, — tant’è vero che tutte le sue scolare son segnate lì, e si riconoscono per la strada. E ci vanno! E noti che il signor ispettore, che il primo anno non ne sapeva nulla, quest’anno ha ordinato di chiuder la scuola. Ma che pro? Voltate che ebbe le spalle, la scuola è stata riaperta, come fanno da per tutto. Mi potrebbe dire che non è vero? — domandò al segretario.

Questi stentò a trovar la risposta. — È vero e non è vero, — rispose, levandosi in piedi tra confuso e stizzito; — voglio dire: è una scuola e non è una scuola: vi s’insegna un po’ di catechismo e un po’ di cucito....

— Vi s’insegna, — ribattè la maestra, — tutto quello che non si deve e che non si sa, e si ride dei programmi e delle ispezioni: questo è quanto. È una scuola privata e tanto basta; il parasito.... come ha detto l’ispettore? il corrosivo della scuola pubblica. E se vuol che le dica un’altra verità, il perchè si tollera quella roba in barba alla legge e a dispetto di noi altri insegnanti.... Ma già, lei lo sa meglio di me, è inutile che glielo dica.

La verità, come seppe poi il giovane, era questa: che la signora in questione, una vecchia contadina che non ne sapeva più in là dell’alfabeto, era sorella dell’assessore Toppo, il quale tollerava la maestra per non aver da mantenere la sorella.

— In fin dei conti, — rispose il segretario insaccandosi nelle spalle, — io non ci ho che fare! — Poi, accomiatandosi, cercò di rabbonire la maestra, dicendole che aveva ragion di credere che quell’anno la scuola privata non si sarebbe riaperta.

— Ma se ci vanno già le bambine! — esclamò la Strinati, guardandolo in faccia, indignata.

— Si chiuderà prima di Natale, andiamo! — rispose [p. 22 modifica]il segretario, battendole una mano sulla spalla, carezzevolmente. — Ma se par possibile che un modello di maestra come la signora Strinati, stimata e riverita da tutti, si faccia cattivo sangue per queste miserie!

— Oh sa, — ribattè quella, — a me il burro non mi si attacca, — e salutato con garbo il maestro, tornò fra le sue galline, senza rispondere al saluto dell’altro.


Per non aver a dare spiegazioni su quell’argomento, il segretario infilò subito la porta di casa del parroco, che era lì davanti, di fianco alla chiesa. A mezza scala si soffermò e disse al maestro, strizzando un occhio: — Veda d’ingraziarsi la Perpetua che è stata dieci anni col soprintendente.... da giovane; e — soggiunse sorridendo: — che aspira a diventare ispettrice.... — Il parroco era un vecchio più che ottantenne, curvo come una mezza luna, che stentava a staccare il mento dal petto, e che mostrava nel viso rugoso e disfatto, sotto l’espressione d’una estrema stanchezza, una grande bontà, un animo che doveva aver sempre ripugnato dagli intrighi e dalle lotte. Non sapendo che cosa dire al giovane maestro gli domandò quant’anni aveva, come a un fanciullo, e la data della morte dei suoi parenti, e l’età dei fratelli, approvando col capo le sue risposte, come se fossero giudizi sensati. Poi parlò a lungo, e con molta dolcezza, al segretario, d’un tafferuglio nato la domenica avanti a una festa dell’asilo infantile, perchè le monache avevano spogliate le bimbe vestite bene per vestire con garbo quelle che dovevano recitare dei versi, e scusò insieme le monache e le mamme che erano andate sulle furie. E non occorse altro al maestro per accertarsi che da quel buon ministro di Dio non gli sarebbero mai venute nè noie nè difficoltà di nessuna specie. Sentì invece una vaga inquietudine alla vista della sua Perpetua, una spilungona di sessant’anni, piallata come una tavola, che gli stava ritta accanto, con una mano sur un fianco, in atteggiamento di padrona. Aveva inteso dire di serve di parroci che pretendevano di mettere il naso negli affari della scuola, e quella faccia risecchita di beghina battagliera, che lo guardava con due occhi scrutatori, gli pareva che dovess’essere una di quelle. Quando furon nella strada, egli vide il suo becco alla finestra. Senza dubbio, s’era [p. 23 modifica]affacciata per vedere se il nuovo maestro si levava il cappello, passando davanti alla chiesa.


Non gli rimaneva che a far la conoscenza di don Leri, l’altro maestro, il quale abitava nello stesso edifizio delle scuole, dove il Comune aveva assegnato a lui una camera; ma per questo non ebbe bisogno del segretario. Egli ricevette la sua visita la sera stessa, tornando da desinare col sindaco, il quale l’aveva assai divertito con la descrizione dell’ultima gara dei canottieri di Torino. Se ne stava ricapitolando le impressioni della giornata, nella sua cella nuda e bianca, che aveva una finestra sulla strada, e una specie di locarna sul cortile erboso del monastero, quando sentì picchiare all’uscio, e domandato: — Chi è? — intese una voce grassa e armoniosa rispondergli: — Il collega. — Il primo aspetto di costui lo intimidì. Era uno dei più maestosi preti che avesse mai visto, una bella faccia di cardinale, grave e benigna, che mostrava nella fronte ampia, solcata da una ruga verticale, l’abitudine della meditazione; piuttosto poderoso delle membra, che pingue, e ancora coi capelli tutti neri, benchè paresse già vicino alla cinquantina. Egli si domandò al primo vederlo come mai un uomo simile potesse non esser altro che un maestro elementare.

Il prete gli tese la mano e, sedutosi nell’atteggiamento di chi non si vuol trattenere, gli diede il benvenuto con certa cordialità dignitosa, esprimendogli il suo rammarico ch’egli non dovesse rimaner nel villaggio che un anno, e la speranza che si sarebbero fatti compagnia, — qualche volta.

— Non la sera, però, — soggiunse gravemente, — perchè io non esco la sera. — E spiegò che da anni, immutabilmente, egli dedicava le serate a un lavoro a cui aveva posto mano fin da giovane, e pel quale gli occorrevano ancora delle lunghe letture.

Il maestro gli domandò, titubando, se non sarebbe stata indiscrezione di chiedergli il titolo....

— La religione e la scuola, — rispose il prete con accento modesto, alzandosi, e gli porse la mano in atto di commiato. Poi riprese con voce grave: — Io vivo con la mia vecchia sorella. Se in qualche cosa la posso servire.... di giorno.... Ella sa dove abito. Sarà sempre [p. 24 modifica]il benvenuto nella mia casa. Mi consideri, la prego nonostante la differenza d’età, come un amico.

E chinata leggermente la larga fronte di pensatore, uscì indietreggiando, e richiuse l’uscio con riguardo. Il maestro ne rimase incantato. Era quella certo la persona più rispettabile e più geniale ch’egli avesse conosciuto nella giornata, e lo compensava largamente di ciò che aveva sospettato di leggiero nel sindaco e di ambiguo nel segretario. Gli s’era offerto come amico, ma, fuor di dubbio, gli si sarebbe potuto profferire maestro. E già immaginava con piacere il tesoro di cognizioni e di buoni consigli ch’egli avrebbe potuto ricavare da quell’uomo raro, il quale, per dedicarsi meglio agli studi, si contentava di vivere nella solitudine d’un villaggio, e viveva forse la vita pura e disinteressata del pensiero, senza neanche una mira lontana d’ambizione. — In somma, — concluse, — la prima giornata è stata buona. Possa rispondere la continuazione al principio.