Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Garasco/II
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LE PRIME LEZIONI.
Le scuole si aprirono il cinque d’ottobre. Egli era stato chiamato a far la 1ª classe elementare, e, senza previo avviso, si trovò affibbiata anche la seconda; ma volenteroso com’era, non rifiutò. Ne aveva, fra tutti, una cinquantina. La prima impressione che gli fece la scolaresca, veramente, non fu gradevole: gli parve che, appetto a questi, gli alunni delle classi annesse alla Scuola normale fossero tutti fior di signori. Qui la maggior parte eran figliuoli di contadini; certe teste sbozzate con l’accetta, coi capelli setolosi e d’un biondo sporco: facce cotte dal sole, color di patata o di pattona andata a male; molti senza calze, coi piedi infilati in zoccoli o in scarpacce senza lacci, insaccati in rozze camicie aperte che lasciavan vedere i petti e le pance, vestiti di giacchette di frustagno stinto, che mandavano tutti insieme un odor forte di fieno. I più portavan libri e quaderni in sacche di cencio, appese a una corda, e le tenevano a tracolla durante la lezione. Venivano con le scaglie al viso e nel collo, coi panni imbrattati di terra e pieni di paglia, e si contendevano i posti a gomitate e a fiancate: poi si mettevan le mani in bocca e in capo, si grattavano il petto e le ascelle come scabbiosi, o s’asciugavano i visi sudati con le mani concie d’inchiostro, riducendosi come magnani; e chi si tirava su i calzoni a metà gamba, come per guadare un rigagnolo, chi alzava le ginocchia nude fino all’orlo del banco, chi masticava come un affamato la correggia di cuoio, e l’uno perdeva uno zoccolo, che cadeva con gran fracasso, e l’altro si lavorava l’unghie dei piedi. Il maestro provò la prima volta un certo senso di ribrezzo come davanti a un branco di porcellini. C’eran dei tipetti di futuri contadini ladri, diffidenti e cocciuti, certi musi di macacchi, che a primo aspetto, gli parve che si sarebbero dovuti tenere un mese in un gabbione, avanti di lasciarli sciolti nei banchi. E fu peggio quando s’accorse che il suo predecessore non doveva aver avuto alcuna autorevolezza, poichè i ragazzi della 2ª, ch’erano stati suoi alunni, avevan tutti quanti la monelleria e l’impertinenza negli occhi come un’aria di famiglia. Gli toccava dunque, prima d’ogni cosa, riparare al male che aveva fatto il suo collega, e poi, rimandando a più tardi l’educazione intellettuale, veder di ridurre quei piccoli selvaggi a tenere, se non altro, un contegno di creature civili. Era un assunto serio. Ma era così vivo ancora il suo amore per l’infanzia, e il suo entusiasmo per l’insegnamento così fresco, e l’idea stessa di aver quella materia così greggia da lavorare stimolava così acutamente il suo amor proprio, che si mise all’opera con grande ardore.
Ma, Dio buono, quanto era più difficile di quello che s’aspettava! Egli si trovò a lottare sul bel principio contro una inerzia plumbea, che non era soltanto nei ragazzi, ma in ogni cosa. Egli era alacre, desideroso di procedere alla lesta in tutto; e tutto invece andava alla battuta della vita del villaggio, ossia con una lentezza da far disperare. Alle otto e mezzo doveva sonar la campana della scuola, e quasi sempre sonava più tardi. Quando aveva finito di sonare, comparivan due ragazzi di qua, tre di là, uno più lontano, a passo di lumaca; non c’eran mai tutti prima delle nove. Alcuni dei più piccoli, i primi giorni, non volevano entrar nella scuola che gli ultimi, s’arrestavano davanti all’uscio come impauriti; ed egli seppe che doveva questa buona disposizione d’animo ai loro parenti, i quali, per vari anni, s’eran serviti del maestro come d’uno spauracchio, per far chetare i bimbi quando li seccavano, dicendo loro a ogni proposito: — Bada che ti mandiamo a scuola! — Vedrai poi a scuola che il maestro te le farà pagare! — e per questo i bimbi recalcitravano, temendo ceffoni e legnate. Di più, molti venivano senza quaderni e senza libri, dicendo, imboccati dai parenti: — Il Municipio non ce li ha ancora dati! — e li volevan tutti gratis, anche quelli che li potevan comprare. E fu poi spaventato addirittura quando fece leggere la prima volta quelli di 2ª per vedere a che punto fossero. Non solo non leggevano a intelligenza per sè; ma quasi neppure in modo che il maestro potesse afferrare il senso della lettura. Pronunziavano calamoio, falegnome, squarciavano senza misura gli o e gli e, facevan degli aggruppamenti precipitosi di sillabe, nei quali tre parole si confondevano in una; ed erano intonazioni strane, certi scoppi involontari di voce che parevan grida lanciate ai porci e alle vacche, stecche false d’organi vocali ribelli a ogni nuova modulazione, che rivelavano una serie di generazioni vergini d’alfabeto, e assuefatte da secoli a cantare tutte le loro canzoni su tre o quattro motivi immutabili. Non gli pareva di sentirli leggere italiano, ma qualche aspro e chioccio dialetto teutonico, tanto ch’era tentato di metter loro le dita in bocca, per vedere che cosa masticassero leggendo, da far quello strazio del parlar celeste. E diceva tra sè, sospirando: — Bisognerà dunque cominciare da prima del principio! — E pensava con un sorriso agro alle lunghe circolari ministeriali che raccomandavano al maestro, con forbito stile, di curare la purezza della pronunzia. Altro che purezza! Si trattava, avanti ogni cosa, d’ottenere una pronunzia umana.
Ma gli si affacciarono altre difficoltà. Egli sapeva bene che non escon maestri fatti dalla Scuola normale, che tutti hanno bisogno di perfezionarsi con una lunga esperienza; ma rimase maravigliato che ci fossero tanti intoppi impreveduti, e tanti altri tanto più gravi di quello che se li era ideati. Intanto riconobbe subito che per farsi capire dai più piccoli, gli bisognava parlar con loro in dialetto; per il che, durante una buona parte della lezione, i più grandi non imparavano da lui un’acca di lingua. La scuola formata di due classi gli rendeva doppiamente faticoso, e proficuo per metà, l’insegnamento, e faticoso tre volte di più il mantener la disciplina, perchè mentre parlava ad una classe, l’altra si divagava, e la divagazione di questa turbava quella. E quanto alla 1ª egli esperimentava con rammarico la verità di quello che aveva appreso alla Scuola: che fosse la più difficile di tutte, appunto per la difficoltà delicatissima del farsi comprendere; tanto che cominciò a temere d’essere di quelli, che, pure avendo eccellenti attitudini a far la 3ª e la 4ª non riescono mai a far neanche mediocremente la 1ª; alla quale altri, di minore ingegno, paiono chiamati dalla natura. Il riprendere, com’era sua tendenza, ragionando pacatamente, a fine di persuadere l’alunno del suo torto, e di arrivargli al cuore per via della ragione, l’obbligava a un’interruzione dell’insegnamento per tutti, dopo la quale gli toccava di fare altri rimproveri per riottenere l’attenzione. Oltre di che gli occorse di riconoscere come fosse tutt’altro che insensata l’idea che aveva inteso esprimere dal suo professore di pedagogia, della necessità d’una scuola a parte per i ragazzi d’intelligenza inferiore; alcuni dei quali, benchè animati della miglior volontà, lo costringevano a ripetizioni interminabili, non solo superflue agli altri, ma gravemente dannose al buon andamento della scuola. E si trovava ogni momento, coi più piccoli, davanti a casi d’ignoranza così madornale delle cose più elementari della vita, che gli toccava di perdere un tempo prezioso a compiere, per dir così, la creatura umana, prima di mettersi a istradar lo scolaro. E avrebbe voluto, per poter dare un’educazione individuale, seguendo i precetti del suo professore, studiar il carattere dei più grandi; e cominciò infatti, a prender note sur un quaderno, dove aveva segnato in capo a tante colonnine: complessione, intelligenza, raziocinio, sentimento, volontà, ecc. Ma che impresa disperata gli apparve fin da principio! Quasi tutti pareva che per diffidenza istintiva cercassero di nascondere l’animo proprio, in tutti era qualche cosa di chiuso e di restìo, gli riescivan tutti eguali. Nè intorno alle loro famiglie gli veniva fatto di scoprir di più: quando una domanda usciva dal cerchio delle cose di scuola, non gli davan più risposta. E oltre a tutto questo, incontrava difficoltà inaspettate anche nella tecnica dell’insegnamento: nel definire in modo intelligibile le cose più semplici, nel rispondere alle interrogazioni improvvise di tre o quattro perspicaci e curiosi sul significato di certi vocaboli, nell’alternare gl’insegnamenti diversi senza dar luogo a disordine, nel condurre il dialogo in modo da tener desta l’attenzione e da non perdere tempo. Tutto faceva; ma tutto gli riusciva più stentato e men chiaro, e gli dava minor frutto di quello che si fosse aspettato. Ed anche provava quel senso molesto, che tutti provan più o meno, da principio, i nuovi maestri, e che in alcuni dura lungo tempo, una certa suggezione inquieta di tutti quegli occhi fissi nei suoi, somigliante a quella che risentono gli ufficiali appena promossi la prima volta che vanno davanti al plotone: una specie di pudore di novizi, derivante in parte dal sospetto che i subordinati stiano aspettando degli errori d’inesperienza o indovinino la peritanza o la vergogna dell’esordiente. Quante cose aveva ancora da imparare e da provare! Quanto poco gli rimaneva di immediatamente utile di tutto quell’ammasso confuso di roba che aveva ingoiato alla Scuola normale!