Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Camina/X
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IN CASA DI DON BRUNA.
Il maestro Ratti scansava costui anche perchè, dopo aver saputo ch’egli studiava, aveva preso a dargli la baia, fra un rutto e l’altro, sulle sue “belle speranze,„ ripetendogli sempre una frase prediletta: ch’era tempo perso studiar lo scibile per una società che non gli pagava nemmeno il lume: la sua compagnia gli ripugnava come l’immagine vivente del disonore della propria classe. Ma essendogli capitato in casa, un dopo pranzo dei primi di novembre, a proporgli “d’andar a bere una bottiglia da don Bruna„ si rassegnò ad uscirgli insieme a braccetto per far quella conoscenza che desiderava. Don Bruna era uno dei due maestri dell’istituto Bocci. Il Ratti s’era già incontrato più volte nel villaggio con quel pretino dai capelli bianchi e dal viso gioviale, che gli aveva fatto l’impressione d’un buon amico d’altri tempi, di cui egli avesse tutto dimenticato fuorchè il viso. L’istituto era in una piccola borgata detta del Salice, posta a un miglio più su di Camina. V’andarono per una strada solitaria, in mezzo alla campagna tutta bianca, sotto un cielo tutto azzurro, in un tepor di sole autunnale. Cammin facendo, e soffermandosi ogni momento a riaccender la sua pipetta da ciabattino, il maestro Reale notificò con lunghi giri di parole al collega come don Bruna avesse un nipote di venticinque anni, che era l’altro maestro dell’istituto, e una nipote, cugina di quello, una povera contadina di cervello corto, la quale, invece di appendersi con un metro di spago a un pero dell’orto, s’era ficcata in capo di far la maestra, ed essendo stata quell’anno rimandata per la seconda volta agli esami di patente a Torino, n’aveva provato tanta vergogna, da non osar più di ritornar nel paese; il perchè s’era trattenuta tre mesi in città in casa d’una zia, e ritornata finalmente, non si faceva più vedere da venti giorni. — Perchè in questa galera di paese, — gridò, — ci sono delle lingue infami, che quando una povera ragazza fallisce agli esami di patente, dicono che l’hanno rimandata per cattiva condotta notoria: una bugia scellerata di canaglie, perchè quella, sangue d’un prete, è una ragazza onesta; e poi... una faccia da far spavento. — Erano arrivati fino a dire che aveva avuto un figliuolo pel fatto di quel muso di chierico allampanato di suo cugino! E il bello era che quelle stesse lingue dicevano che il cugino era nato con un difetto irreparabile, come a dire che l’imperatore di Turchia gli avrebbe potuto dare un impiego di confidenza nel suo palazzo. Qui diede in una risata sgangherata, tenendosi i fianchi con le mani, e poi tese il pugno verso i tetti bianchi del villaggio, rabbioso daccapo, gridando: — Ladri! Ladri! Ladri! E cretini noi che v’insegniamo a leggere! — E non si chetò che davanti alla porta dell’istituto.
Era un gruppo di tre povere case, in una delle quali c’eran le due stanze delle scuole, piccole e basse; nell’altra un quartierino di tre camere, occupato da don Bruna e dalla nipote; e nella terza, abitata da una famigliuola di contadini, la cameruccia del nipote maestro, posta di fianco alla stalla.
Don Bruna saltò fuori da una porticina con la vivacità d’un ragazzo. Il Ratti rimase incantato della cordialità festosa con cui lo accolse. Era piccolissimo di statura, e tutto minuto: la sua tonaca pulitissima sarebbe andata bene a un seminarista di dodici anni: aveva dei capelli che parevan cotone bianco, gli occhi azzurri limpidissimi, il viso roseo, i denti belli, un riso, una parlantina, un’aria di salute, di allegria, di schiettezza, d’ingenuità, che innamorava.
Egli raccontò subito un casetto comico del gatto e d’un topo, che era seguito un momento prima, e poi condusse il maestro Ratti a veder l’“istituto.„ Stavano facendo il bucato: in una delle scuole c’era il mastello fumante. Mentre eran lì, entrò ridacchiando una grossa Perpetua di sessant’anni, un faccione di maschera buffa, tutta torso e deretano, con tre palmi appena di gamba, che pareva stata segata alle ginocchia.
Il maestro Reale l’apostrofò: — O Giovanna! Voi dovete raccontare al maestro l’avventura dell’ispettore.
Quella dette in una risata che non finiva più, facendo saltar la pancia come una zingara danzatrice.
Era un’avventura nota a tutti nel paese, di un regio ispettore del Circondario, di fama terribile, il quale, venuto un giorno solo e inaspettato a visitar l’istituto, aveva trovato in una scuola la serva, che sbatteva due ova in un tegame, e senza lasciarle il tempo di spiegargli come l’avesse mandata lì don Bruna a vigilare gli alunni durante una sua brevissima assenza, prendendola per una maestra, le aveva fatto un lungo e severo discorso intorno al rispetto dovuto alla scuola, con certi frasoni difficili, ch’essa ripeteva poi storpiandoli nel modo più ridicolo di questo mondo.
Tornati che furon nel cortile, don Bruna chiamò con una battuta di mani il nipote, che venne fuori dalla stalla, con un viso pieno di stupore, inchinandosi due o tre volte, e balbettando un saluto. Il Ratti osservò con maraviglia quella strana figura di sacrestano, lungo e magro, con un viso d’anemico, coperto d’una leggiera lanuggine giallastra; il quale camminava in punta di piedi, col collo torto, tenendo le mani l’una nell’altra e i gomiti stretti al corpo, e quasi non osava di guardar la gente nel viso. Aveva l’aria di far masticare paternostri ai suoi scolari dalla mattina alla sera, e si sarebbe giurato, al solo vederlo, che portava una camicia lunga fino ai piedi e spegneva il lume prima di spogliarsi.
Disse con un filo di voce: — Il nuovo maestro? Oh! quanto me ne rallegro! — e chinò il capo, facendosi indietro.
Don Bruna condusse tutti nella sua piccola stanza da pranzo, dove si sentiva un buon odore di mele, e mentre la serva stappava una mezza bottiglia e mesceva, fece vedere ai due maestri un vecchio ritratto a stampa colorito di Maria Pia e del re di Portogallo, che aveva trovato fra le carte vecchie, e fatto inquadrare; poi parlò della casa, dei contadini, del tempo, di dieci altre cose, senza interruzione, celiando a ogni proposito e stropicciandosi le mani, come avrebbe fatto annoverando una serie di buone fortune.
Ma avendogli il Reale domandato notizie della nipote, egli si fece serio e abbassò la voce. La poveretta, a furia di leggere, aveva preso un forte mal d’occhi: s’era rimessa a studiare da disperata per ritentar la prova l’anno venturo e non c’era modo di smoverla dal suo proposito: diceva che non vi avrebbe rinunziato che con la vita.
— Balossarie! (birbonate) — gridò la serva, e continuò, nonostante che Don Bruna le accennasse di tacere. — Ancora una volta l’hanno bocciata, dopo tre anni che s’è ammazzata a studiare, povera creatura! Vorrei poterne dir due a quei signori professori di Torino, che è una cosa che si sa da tutti, che passano solamente le belle ragazze, che si presentano vestite alla moda, e fanno le smorfiose all’esame. Uno scandalo!
E avrebbe detto dell’altro; ma don Bruna la interruppe, fingendo di cacciarle in bocca il cavatappi, ciò che la fece scoppiare dal ridere; e tornò a parlare giovialmente della sua casa e della vita che menava.
— E così, come lei vede, signor maestro, la nostra vita è tutta qui, sotto questi tre tetti. E io ci vivo da vent’anni. Quante migliaia di polente abbiamo già visto fumare in questa stanza, Giovanna? L’estate è un paradiso: belle vedute a ogni passo, fontane di buon’acqua, buone strade, come avrà visto, e un’ombra! D’inverno si passa la sera nella stalla. Io faccio qualche lettura. Si gioca a carte. Certo, tutte le giornate si somigliano. Ma c’è la pace, non è vero? E poi... buona gente. Si conoscono i grandi dai piccoli. Bisognerebbe che lei vedesse i nostri scolari. Ma già i suoi saranno lo stesso, come di ragione. Buona volontà, buon contegno, religione. E intelligenti! Ce n’è che fanno delle collezioni di pietre rare e d’insetti, che son cose da vedersi, le assicuro. Le fatiche son compensate, oh! bisogna dirlo. E quando la scuola va bene, va tutto bene; perchè noi viviamo per quello, non è vero? E il tempo passa allegramente. Vent’anni! Venti mesi! Quando c’è la salute, ben inteso. Basta, ringraziamo quello di lassù. Un altro dito, da bravi! — E accorgendosi che capovolgeva sul bicchiere una mezza bottiglia ancora tappata, gli scappò una risata da giovanetto, a cui la serva fece un’eco rumorosa, piegandosi in due.
Il Ratti guardava intanto con ammirazione quel povero vecchio prete, che pareva felice di così poco, e cercava fra sè, non senza un sentimento d’invidia, da quale sorgente morale potesse scaturire quella felicità, di che sentimenti e pensieri abituali comporsi, o da qual particolare e fortunata condizione dell’organismo fisico provenire; perchè non gli pareva possibile che venisse tutta dal sentimento della fede religiosa, non separabile da dubbi, da timori, da lotte.
Sempre scherzando, il prete accompagnò i due maestri fino alla porta del cortile, e accennando loro tre vacche che entravano in quel momento, disse, con un nuovo scroscio di risa. — Ecco i caloriferi del corpo insegnante! — e si diffuse in elogi del latte. Poi, facendo ancora crocchio sulla strada, raccontò con ilarità fanciullesca d’un suo scolaro di quindici anni avanti, il quale, nell’occasione solenne d’una visita del ministro dell’istruzione pubblica, ch’era venuto a villeggiare un mese a Camina, aveva letto forte nel libro di lettura: il vento che tira da S.E.: il vento che tira da Sua Eccellenza.
Mentre tutti e cinque ridevano, suonò a cinque passi da loro una voce vibrata di donna, che disse: — Buona sera, reverendo!
Era la maestra Pedani che tornava da un’escursione con sei dello sue scolare. Tutti si voltarono, salutando. Così alta e forte, con una gran penna nera sul cappello, col viso invermigliato dall’aria dei monti, stretta in un cappotto grigio che pareva un giaco di fil di ferro, sollevato dal petto largo che ansava, era superba. Il Ratti ne fu colpito più forte che la prima volta che l’aveva vista; ma quella sensazione non gl’impedì d’osservare che il nipote del prete s’era fatto rosso nel viso, negli occhi e nel collo, d’un rosso così unito ed acceso, che quasi non era più riconoscibile, e teneva gli occhi larghi e fissi per terra, come annichilito dalla propria vergogna. Il maestro Reale, che aveva la coscienza sporca, s’era tirato in disparte.
La maestra si fermò davanti a don Bruna e gli spiegò come ogni giovedì conducesse a fare un’escursione igienica alcune delle sue scolare, e di preferenza quelle dei signori, perchè d’inverno non facevano abbastanza moto. Essa aveva le sue idee. Bisognava mutare affatto l’educazione fisica delle donne, le quali non si educavano che alla tenerezza, mentre nella vita erano destinate a soffrire più forti dolori fisici e a compier più duri sacrifici che gli uomini. Fin che ci fossero state delle donne molli, ci sarebbero stati degli uomini fiacchi. Essa voleva che le sue alunne diventassero più vigorose che i maschi della loro età. Faceva far loro delle passeggiate progressive, allungandole d’un mezzo miglio per volta. La settimana passata avevano fatto una gita a San Rocco, quel giorno erano andate fino alla Marra. E in questa parola fece sentire una mezza dozzina d’erre. Parlava senza la minima suggezione di quei dieci occhi che fissavan lei sola, squadrando anzi le persone come per misurar la loro altezza, e tenendo un piede avanti e una mano sul bastoncino, come sopra il pomo d’una spada.
San Rocco, la Marra, le strade, le bimbe: il piccolo prete conosceva tutto e tutti, e disse una barzelletta su ogni cosa, con un raddoppiamento di gaiezza, come elettrizzato dalla presenza di quella bella ragazza. E non solo nei suoi occhi sorridenti e limpidissimi non appariva neppure il barlume d’un pensiero sensuale, ma sarebbe parso strano a chiunque, guardandolo, il pensare che egli potesse aver avuto pel passato dei turbamenti di quella natura. Si capiva che la vista di quella ragazza lo eccitava come fa uno spettacolo festoso a un fanciullo, che per lui non era una donna, era la gioventù, la salute, la primavera incarnata che passava; non altro.
— Buona sera a tutti! — disse bruscamente la maestra, e riprese il cammino a lunghi passi, seguita dalla sua schiera.
I due maestri, congedatisi dal prete, si mossero verso il villaggio, a una cinquantina di passi dalla Pedani, seguitandola con lo sguardo. Quando essa disparve dietro al muro d’un giardino, il Reale si fermò, e voltatosi verso il collega pensieroso, gli appuntò l’indice al petto e gli disse ridendo: — Lei è preso! — Che sciocchezze! — rispose il Ratti con dispetto. — Del resto, — mormorò quegli, riprendendo il cammino a passi vacillanti, — non c’è che dire.... È un gran bel pezzo di grazia di Dio.