Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Camina/XI
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IL SINDACO IN SCENA.
Quell’incontro, in fatti, lasciò nel giovane maestro come una inquietudine fisica, un’effervescenza d’immagini sensuali d’adolescente, mista a un certo senso di avvilimento, che gli veniva dal confronto della sua modesta persona con quella poderosa e ardita della signorina; dietro alla quale gli si cominciò come a rimpiattare a poco a poco l’immagine di Faustina Galli, che fino allora gli era sempre stata dinanzi, vicinissima e intera. Ma la sua passione per la scuola era così viva in quel periodo di tempo, che invece d’esser turbata, prese nuova forza da quell’eccitamento dei sensi, come un puledro da una sferzata: egli fuse in quella passione tutti i suoi desideri e ne fece affetto ed eloquenza per i suoi ragazzi. Fra questi, gli s’eran manifestati dei caratteri rivoltosi, ma anche dei buoni ed amabili, che non aveva indovinati nei primi giorni; e all’opera di domare gli uni e di perfezionar gli altri, poteva dedicarsi tutto e tranquillamente, poichè lo lasciavan libero affatto le condizioni del paese, il quale non era agitato da alcuna lotta di partiti, che gli imponesse la preoccupazione di star con l’uno o di barcamenarsi fra tutti e due. Ogni lotta era cessata dopo che il capo della parte avversa al sindaco Lorsa, un conte rurale e democratico, ridotto dagli anni e dall’abuso del Barolo vecchio in uno stato abituale d’inerzia appisolata e contenta, s’era ritirato dall’arena, contentandosi di combattere gli avversari con dieci o dodici epigrammi, sempre gli stessi, che da vari anni ripeteva a tavola, dopo il caffè, quasi sempre nello stesso ordine. Mortogli un nipote, tenente di vascello, che era il suo unico erede, egli aveva avuto un capriccio di vecchio ricco che vuol far parlare di sè: aveva fatto costrurre a Camina un teatro abbastanza grande, nel quale recitavano ogni anno dei villeggianti, e la maggioranza del paese avendo voluto che si desse al teatro il suo nome, questo era bastato ad appagare tutte le sue ambizioni di gloria. Così con l’apertura del teatro s’era chiusa la lizza delle fazioni. E non giovava poco a tenere in freno i pochi partigiani del Conte, che avrebber voluto rizzar la cresta, il fatto che il sindaco Lorsa fosse stato in gioventù un pugilatore famoso, e godesse ancor riputazione d’uomo fortissimo, capace di piegar uno scudo con le dita; poichè nei villaggi, dove ha minor agio di spiegarsi la superiorità intellettuale, c’è maggior considerazione che nelle città per la potenza dei pugni. A tante e così lontane cagioni doveva il maestro la sua pace! E si dava anche il caso che la sola autorità con cui gli sarebbe spiaciuto d’aver che fare, il delegato dal pelo rosso, non si facesse mai veder nelle classi per cagione della sua balbuzie, che provocava l’ilarità degli alunni. La sola cosa che lo seccava era che l’inserviente comunale, che avrebbe dovuto scopar la scuola tutti i giorni, faceva invece il comodaccio suo; e il sindaco, che lo caricava d’altre faccende estranee al suo ufficio, chiudeva gli occhi. Un originale, questo inserviente; un ometto impettito, con due enormi baffi grigi, che per esser stato ferito al ventre da una scheggia alla battaglia di Novara, aveva una superbia intrattabile, non si voleva piegare ai bassi servizi, e a chi gli faceva un rimprovero, rispondeva: — Così si parla a un ferito? — Quand’era brillo, poi, nei suoi accessi d’entusiasmo patriottico, calava i calzoni e mostrava la sua gloria.
Il solo che mettesse piede qualche volta nella scuola era il sindaco; ma non per altro che per far atto di presenza; ed era un sentimento di rivalità che ve lo spingeva. C’era nel vicino villaggio di Stazzella un sindaco straordinario, di cui si decantavano le gesta in tutti i comuni dei dintorni. Era un antico ufficiale di cavalleria, di famiglia agiatissima, il quale, dopo una gioventù dissipata, ridotto al verde e uscito dall’esercito per chiodi, aveva sposato una signorina ricca del paese, messo la testa a partito e consacrato l’anima e la borsa alla vita pubblica. Aveva ambizione, ingegno, maniere piacentissime; ma gli faceva danno il passato e gli aveva suscitato molte invidie il matrimonio; il perchè, appena ottenuta la carica di soprintendente, era stato fatto segno a una guerra atroce, e diffamato in tutti i modi, soprattutto con un nuvolo di lettere anonime, dirette al sotto-prefetto, al prefetto, all’Intendenza di finanza, persino al comitato dell’arma dei carabinieri e al presidente del consiglio dei ministri. Ma egli aveva vinto la tempesta, e, diventato sindaco, s’era dato a favorir l’istruzione con un ardore che toccava la manìa. Aveva fatto costrurre un bellissimo edifizio scolastico, accresciuto lo stipendio ai maestri, stabilito per premi dei libretti della cassa di risparmio, fondato una biblioteca circolante per gli alunni. C’era quasi ogni settimana nel Popolo un cenno d’un nuovo miglioramento introdotto da lui nelle scuole: ora un dono di cartelloni per l’insegnamento oggettivo, ora l’istituzione d’un lavatoio per i ragazzi o d’un giardino froebeliano, ora una festa solenne di distribuzione dei premi, con regali ch’egli faceva di sua tasca agli insegnanti; e ogni cenno accompagnato da ringraziamenti di maestri e da elogi collettivi di amministrati. Ora queste glorie del vicino collega ingelosivano il sindaco Lorsa, tanto più dopo che i maligni di Camina, essendosene accorti, avevano preso il vezzo di vantarle in presenza sua. — Avete sentito? Il sindaco di Stazzella ha fatto mettere nella scuola un busto di Vittorio Emanuele, a sue spese. — Avete letto del sindaco di Stazzella? Ha fatto, a sue spese, stampare sui muri delle scuole delle iscrizioni morali, e messo i ritratti di quattro grandi uomini in tutte le classi. — Queste notizie gli facevan venire la mostarda al naso, tanto che non si poteva contenere; e trattava il collega di ciarlatano, diceva che gli elogi nei giornali se li faceva stampar lui, che menava il suo comune alla rovina per ambizione, e accennava anche al suo passato di giocatore e di donnaiolo, e chiamava ironicamente Stazzella: — ’l pais di doutour — (il paese dei dottori). Ma fosse per una puntura di rimorso, o per una vaga idea, momentanea però, di mettersi egli pure a far qualche cosa, alcune volte, quando leggeva nella gazzetta uno dei soliti elogi sperticati del suo rivale, pigliava il cappello e andava a farsi veder dai maestri.
La notizia che il sindaco di Stazzella aveva fatto tracciare a vivi colori la topografia del mandamento sopra la parete d’una scuola, fu quella che valse al maestro Ratti la prima visita del suo sindaco, verso la metà di dicembre.
Entrando nella scuola, di cattivo umore, egli diede una violenta gomitata a un ragazzo, che nell’uscire per un bisogno gli aveva pestato un piede. Poi disse al maestro di continuar la lezione. Questi, che faceva ai più piccoli una lezione d’aritmetica, tenendo fra le mani una mela tagliata in quattro, proseguì: — Che cosa ho fatto ora? Ho diviso per metà ciascuna delle due parti della mela. In quante parti, dunque, ho fatto la mela?... In quattro parti. Ripetete: in quattro parti. Come chiameremo ciascuna di questo quattro parti? La diremo una quarta parte, ovvero, un quarto di mela. Riuniamo ora le parti in cui abbiamo diviso la mela. Come vedete, abbiamo di nuovo la nostra mela intera. Attenti. Delle quattro parti in cui fu divisa la mela ne prendo una. Eccola. Qual parte della mela ho presa?
Il sindaco, che stava a sentire tenendo una mano sugli occhi e l’altra sotto il gomito, scoperse il viso, lasciando vedere un’espressione di pietà sprezzante per quella filastrocca di ciance bambinesche dirette a spiegare una cosa che tutti capivano. E interruppe la lezione per domandare in modo brusco perchè in uno dei primi banchi ci fosse uno scolaro solo.
Il maestro gli rispose che gli altri erano assenti abituali, di cui erano segnati i nomi nell’elenco che gli aveva già due volte trasmesso.
Il sindaco cambiò discorso, apostrofando un ragazzo, perchè teneva le mani infilate nelle maniche.
Il maestro gli osservò, con rispetto, che faceva freddo, che il riscaldamento era insufficiente.
Il sindaco lo guardò con maraviglia. E disse: — Freddo, in trenta in una stanza?
E rivolgendosi verso il suo figliuolo, ch’era in un banco in fondo, gli domandò in tono burbero: — Hai freddo?
Quegli, dopo un un po’ d’esitazione, rispose di no.
— E poi, — riprese il sindaco, — sono in tanti: si stringano: si terranno caldo da sè.
E guardò intorno: si capiva che stava là a disagio, che l’aria del luogo gli era antipatica.
— Qui c’è poco pulito, — osservò.
— Lo vedo bene, — rispose il maestro; — bisognerebbe ordinare all’inserviente....
— L’inserviente, — ribattè il sindaco, — non è tenuto che a spazzare una volta ogni dieci giorni.
— Non basta, — disse il Ratti.
E il sindaco: — Un colpo di scopa lo può dar chiunque.
Il maestro lo guardò: quegli volle correggere, e soggiunse in fretta, brusco: — Faccia scopar per turno gli scolari.
— Sarà fatto.
Il sindaco tornò a girare uno sguardo qua e là; poi s’avviò verso l’uscio, dicendo: — Sopra tutto.... insegni a questi ragazzi a rispettare e a salutare chi di dovere, chè ce n’è più d’uno molto maleducato. — Ed uscì.
Obbediente al comando, il maestro cominciò il giorno dopo a far spazzare la scuola agli alunni, per ordine alfabetico, curioso di vedere, quando fossero arrivati all’elle, come se la sarebbe cavata il figliuol del sindaco, che aveva un orgogliuccio filiale abbastanza duro. Ma la mattina che sarebbe toccato a lui, arrivando a scuola prima degli scolari, il maestro trovò l’inserviente che dava gli ultimi colpi di scopa. Questi, quando ebbe finito, buttò la scopa in un canto, e disse di mala grazia al maestro: — D’ora avanti verrò io... me l’hanno ordinato. — E uscì brontolando: — A un ferito!