Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Camina/IX

Il maestro sbornione

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IL MAESTRO SBORNIONE.


Il Ratti parlò con la nuova maestra più volte, e sebbene le rammentasse alla lontana quella certa maestrina vanerella di Garasco, che andava notando i suoi “pensieri„ pei campi, gli dava nel genio pel resto, chè [p. 105 modifica]quanto a studi e a educazione e a talento, pur non essendo un miracolo, non ammetteva confronto con quella. Ma avendogli essa domandato due o tre volte se avesse fra i suoi libri un tale o un tal altro poeta contemporaneo, di cui egli ignorava fino il nome, facile com’era a adombrarsi, sospettò che gli rivolgesse quelle domande per fargli sentire la superiorità della sua cultura letteraria, e punto così nell’orgoglio, sfuggì l’occasione di riparlarle. Per tutt’altra cagione cercava anche di sfuggire il maestro Reale; ma senza riescirvi egualmente, poichè all’uscir della scuola facevano in direzione opposta la medesima strada, e sempre che potesse, il collega gli si appiccicava, pigliandolo pel braccio e imponendogli la sua familiarità. Egli aveva tre fasi nella giornata. La mattina a digiuno, con lo stomaco guasto dallo sbevazzamento della sera innanzi, era d’un umore d’assassino, guardava tutti di traverso per il villaggio, e nella scuola vomitava ira di dio. A cinquanta passi di distanza, per la strada, si sentiva il latrato di quel mastino furioso: — Taci, brigante, o ti faccio un buco nella pancia! — Zitto, brutto porco schifoso! — Silenzio, o ti stacco la pelle dal deretano, bastardo d’un ladro! — Un tempo anche, per imporre il silenzio, s’era servito d’un grosso pezzo di legna da bruciare, ch’egli batteva sul tavolino con tutta la sua forza, facendo un fracasso che rintontiva la scolaresca e non lasciava chiuder occhio a nessuno nelle quattro case vicine; ma era stato costretto a smettere in seguito a una protesta che avevano presentato al municipio le famiglie del vicinato. Alla lezione del pomeriggio, poi, dopo che aveva vuotato i primi bicchierini d’acquavite, cominciava il suo periodo d’espansione benevola; durante il quale lasciava fare ai ragazzi quel che volevano, sghignazzando e buffoneggiando con loro; e questo durava fino alle prime ore della sera, ch’egli passava al caffè, dove, intrattenendosi con le autorità, faceva il buon figliuolo, tutto cuore e allegrezza. Ma più tardi, all’osteria; nel crocchio degli amici intimi, quando l’eccitamento troppo prolungato dei nervi finiva in un malessere rabbioso, allora inveiva contro tutti; ma sempre a proposito d’un argomento solo: la condizione miserabile in cui era lasciata dal governo e dal paese la classe dei maestri.Fonte/commento: vedi pag. seguente [p. 106 modifica]Questa era diventata in lui una vera monomania. Egli era un esempio curioso dell’effetto che la propaganda giornalistica, sia pur sacrosanta, fatta in favore d’una classe sociale, produce su certi individui di questa: che è d’accenderli a poco a poco d’un certo orgoglio, per dir così, collettivo e entusiastico, pel quale finiscono a attribuire ciascuno a sè solo l’importanza della classe intera, e scordando di non essere che una delle centomila ruote della macchina, si considerano come la macchina stessa. Così il maestro Reale, nel concetto proprio, non era più un maestro, ma il maestro; anzi non più soltanto il maestro, ma la stessa istruzione popolare incarnata. Da vari anni, con questa idea, ogni volta che trovava in un giornale politico o scolastico una frase favorevole alla sua classe, la trascriveva in lettere tonde sopra un foglio di carta, ci faceva un’inquadratura calligrafica, e l’attaccava a una parete della sua camera, che era tutta tappezzata di simili iscrizioni. Vi si leggeva qua e là: — Datemi la scuola e io cambierò la faccia della terra. Leibnitz. — Il maestro è l’Atlante che porta sulle spalle il mondo civile delle future generazioni. — I maestri sono la leva d’Archimede che inalzerà la Società a nuovi destini. — Il maestro elementare è l’ossigeno d’ogni istituzione — ecc. Dei traslati soliti con cui si designano i maestri dai loro giornali: i paria del pensiero, i martiri dell’abbiccì, i servi della gleba del mondo intellettuale, e simili, n’aveva in capo una collezione che sarebbe stata ricchissima, se l’alcool non gli fosse venuto man mano devastando la memoria. E quanto più andava innanzi bevendo, tanto più diventava audace nell’escogitare dei nuovi mezzi di far trionfare la santa causa; l’ultimo dei quali era veramente grandioso e terribile: uno sciopero gigantesco, trentamila maestri risoluti che dovevan radunarsi in una città delle Marche o della Toscana, e andare tutti insieme a Roma, in colonna, come un corpo d’esercito, a esporre “per l’ultima volta„ le loro ragioni. Si rallegrava intanto d’ogni caso di ribellione individuale, di cui avesse notizia, ed era felice quando poteva annunciar nel crocchio della sera: — Avete letto di quei due maestri del comune di Bagnetto che hanno legnato il sindaco in mezzo alla piazza? — Una novità, signori: una maestra che ha [p. 107 modifica]sputato addosso al segretario generale dell’istruzione pubblica, a Roma! — Sentite questa: un maestro che ha tirato tre colpi di rivoltella a tre consiglieri comunali, a Signocca. — Egli, peraltro, con le autorità si teneva in buona: aveva dei brevi periodi di fervor religioso e dei momenti di sbornia tenera, in cui baciava persino la mano al parroco; il quale lo proteggeva, d’altra parte, perchè era uno dei migliori cantori della parrocchia. E quanto al sindaco, era riuscito a ingraziarselo soddisfacendo zelantemente il suo desiderio, che ai ragazzi s’insegnasse soprattutto a salutare le autorità e a trattarle, quando occorreva, coi debiti titoli; tanto che gli alunni suoi erano i più abili e prodighi distributori di scappellate del villaggio, e quelli che andavano a capo nudo, salutavano le autorità alla militare, con un: Riverisco, cantato, che pareva l’intonazione d’un salmo. In grazia di questo, il sindaco tollerava il suo metodo Lancasteriano, che consisteva nel far fare la lezione dagli alunni più intelligenti, fingendo di starli a sentire; e quando veniva in chiaro qualche birbonata di lui, come quella di farsi pagare dai ragazzi un tanto per l’inchiostro, ch’era dato gratis, cercava d’abbuiare la cosa. Soltanto lo svergognava qualche volta, a quattr’occhi, pel suo vizio di bere. Ma dopo un giorno che gli aveva detto una parola dura in presenza d’altri, avendolo sorpreso al caffè col bicchierino alla bocca, il maestro non beveva più acquavite in pubblico: se la mandava a comprare ogni giorno fra le dodici e le due da un ragazzo, al quale ordinava di passare per certe vie traverse e rasente i muri, nascondendo il bicchiere in un canestrino, poichè s’era accorto che il sindaco, quando il portatore passava per la strada principale, lo seguitava con l’occhio da una finestra di casa sua.