Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Altarana/XXII

Il bicchiere

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IL BICCHIERE.


Si buttò allora di proposito deliberato a quel vizio, al quale tanti altri maestri rurali s’abbandonano invece quasi inavvertitamente, a poco a poco, tirati dall’esempio della gente che li circonda: si mise a bere. Questo cominciò una sera in cui, per dimenticare lo scherno vile d’un ragazzo, ch’egli si credeva ancora affezionato, andò a scovare in fondo ad un suo armadio a muro una vecchia bottiglia di acquavite, che gli aveva regalato l’anno innanzi il padre d’uno dei suoi alunni della scuola di disegno; il quale teneva uno spaccio di vino e di liquori nella casa accanto. Qualche sorso di quella roba gli rese straordinariamente dilettevole la lettura della raccolta dei giornali scolastici, e gli diede in capo a un’ora un sonno pieno e filato, che avrebbe cercato invano fino a mezzanotte. La sua piccola camera essendogli venuta in odio, egli cominciò a uscire ogni sera, dopo cena. Non aveva che ad attraversar il vicolo per entrar nell’osteria; nessuno lo vedeva. Egli andava a bere del sonno. La conoscenza quasi amichevole che aveva col padrone scusava un poco la sua presenza in quel luogo, e le chiacchiere che gli faceva il suo antico alunno che stava a banco, gli davan modo di trattenervisi senza aver l’aria d’un beone. Nei primi giorni, nondimeno, era preso qualche volta da un senso improvviso di ribrezzo in mezzo a quelle tavole che puzzavan di vino come doglie di botti, alla vista di quelle cinque o sei facce volgari, chine ogni sera sulle carte grasse, al lume d’una lampada fumante, sotto un’antipatica oleografia di sgualdrinella scollacciata, che lo pigliava di mira con una rivoltella. E diceva tra sè; — Come? Anch’io son disceso qua?... a venticinque anni?... dopo tanti bei sogni?... — Ma al pensiero delle amarezze della sua professione, dell’ingratitudine dei ragazzi, del suo amore deluso, di tutta la scelleraggine e di [p. 238 modifica]tutta la viltà che aveva visto, gli svaniva subito dall’animo quel principio di vergogna e di rimorso. C’era là un vecchio barbiere e pescator di trote, già stato suo alunno serale, che lo ricreava con una certa critica buffonesca degli amministratori del comune, tutta fiorita di paragoni e d’immagini cavati con molta arguzia dai due mestieri che esercitava; c’era un vecchio fattore, un tagliapietre, il marito della maestra Falbrizio, spaccalegna, un grosso grullo, che rideva come un ragazzo; tutti al corrente di tutte le brache del paese; e questi, quando non giocavano, non facevan che passare una specie di rivista di sotto in su dei signori del villaggio, scoprendo mille tacche ridicole o magagne ributtanti; delle quali il giovine sentì nausea da principio, poi curiosità, e in fine un’acre compiacenza, come d’una vendetta. Lì, se non altro, contava per qualche cosa: gli antichi alunni lo trattavano ancora con deferenza d’inferiori, ora l’uno ora l’altro gli chiedeva il significato d’una frase del giornale, e il più delle sere egli ne usciva soddisfatto, rallegrato anche dalla certezza che avrebbe preso sonno appena abbandonato il capo sul cuscino. Lo molestava soltanto il pensiero di dover passare davanti all’uscio della maestra, e vedere il cancello del terrazzino; che di notte, e dopo aver bevuto gli era una vista intollerabile; e spesso beveva un bicchier di più per potere affrontar quel passo con indifferenza. Beveva senza piacere, in fretta, come avrebbe ingollato delle medicine: non amava del vino che gli effetti. E neanche aveva bisogno di trasmodare, poichè sul suo sistema nervoso di natura delicato e assuefatto alla temperanza, l’alcool produceva un effetto immediato e durevole, che era ancor vivo la sera appresso, quando egli andava a bere per rinnovarlo; un effetto fisico brusco, profondo, non accompagnato da una schietta allegria, ma da un disordine tumultuoso d’idee strane, tristi e liete, di proponimenti audaci e puerili, e quasi di conversazioni, di dibattiti, come di varie persone che gridassero dentro di lui, senz’essere intese di fuori, e ch’egli ascoltava con stupore, e talvolta con isgomento, come avrebbe sentito il passo e le voci di gente sconosciuta in casa sua. A sere usciva dall’osteria d’umor fosco, calcolando a stento sulle dita quanti e quali libri, di quelli che [p. 239 modifica]desiderava da un pezzo, avrebbe già potuto comperarsi coi denari che aveva buttati là dentro, e questo stesso pensiero gli faceva qualche volta rimettere il bicchiere ammezzato sulla tavola.... ma per riprenderlo un minuto dopo. Altre sere passeggiava un pezzo al buio per la stradicciuola esteriore del villaggio, prima di decidersi a entrare, e poi entrava quasi di corsa. Quei va e vieni notturni per un breve tratto di strada parvero temporeggiamenti d’un amante timido alla moglie d’uno sterratore emigrato, che lo guardava dalla finestra, e che dalla finestra scese sull’uscio: allora egli aggiunse alla distrazione dell’ebbrezza quest’altra. Dopo qualche tempo, cominciò a risentir la mattina una grande pigrizia della mente, e quasi il terrore di una fatica enorme a pensare a quelle tre ore di scuola che l’aspettavano. La prima ora della sua giornata era d’una tristezza incomportabile. Egli s’affacciava alla finestra della strada, con gli occhi insonniti, a guardar lungamente, come un affascinato, il villaggio che odiava. Ah! come l’odiava! C’eran delle case ch’egli avrebbe fatto radere dalle fondamenta, e delle cantonate che gli erano invise come creature umane, che l’avessero tormentato per anni interi. E tutte quelle insegne stinte di bottegucce, che gli erano stampate nella mente per ordine come le lettere dell’alfabeto, e quell’acqua che veniva giù da una grondaia rotta della casa di faccia, lungo un muro che serbava i resti di un manifesto della leva e d’un avviso d’imbarco per l’America, quell’eterna pozzanghera che formava la pioggia davanti al portone aperto di quel cortile, e quel cortile pien di fango e di foglie fradicie, quel cane impillaccherato, quelle galline sporche, quell’odore acuto d’impasto da formelle, come tutto era brutto, uggioso, lugubre! Perfino in quel piccolo cimitero a scaglioni che si vedeva più in alto del paese, gli pareva che la morte dovesse essere più fredda, più disperata, più morta che in tutti gli altri cimiteri della terra. E per cacciar queste paturne scendeva a bere un bicchierino di liquore prima della scuola, in fretta, con rabbia, come se quelle gocce ardenti avessero dovuto far soffrire e morire, a modo di vermi velenosi, i pensieri che lo tormentavano, e vendicarlo di quei tormenti. Beveva però più largamente la sera per [p. 240 modifica]sentirsi più forte la mattina appresso contro l’assalto abituale della tetraggine. E la mattina e la sera, per quetare i suoi rimorsi di maestro, mentre beveva, eccitava sè stesso a dileggiare la sua professione, con tutti i luoghi comuni che aveva intesi e letti in quei cinque anni. Com’era stato corbellato! Metteva conto davvero d’essersi pasciuto per tanti anni di tanta poesia, per andar poi a finire affogato in una tal prosa! In quel modo s’attiravano i giovani di cuore all’insegnamento primario come le ragazze dagli incettatori, i quali prometton loro di collocarle in città da una famiglia per bene, e poi le conducono in una casa di tolleranza! E così tutti gli ideali gli cadevan l’un dopo l’altro dal cuore nel bicchiere: l’infanzia, che gli scriveva sui muri del villaggio: — Vattene via! — la patria che gli chiedeva mille sagrifizi e lo pagava come uno spazzino, la religione.... La religione dominante era quella del parroco di Piazzena! E beveva. E non aveva altro conforto. Aveva tentato due o tre sere, rientrando in casa, di sfogare con la penna l’amarezza delle sue delusioni e il suo sdegno contro il mondo; ma s’era persuaso che neppure quel sollievo gli era concesso. No, non bastava possedere la verità, la ragione e la passione; ci voleva anche l’arte; se no, per chi scrivere? E l’arte gli mancava. E lo prendeva un profondo disprezzo, allora, per tutti quegli studi aridi e pedanteschi in cui aveva speso tante fatiche, e che gli servivano così poco nella scuola, e fuor della scuola men che nulla. E con un sorriso prolungato d’uomo brillo guardava la raccolta dei quaderni della Scuola normale, disposti in uno scaffaletto, come un mucchio di menzogne e di sciocchezze. Una sola immagine, in mezzo ai ricordi dei suoi studi inutili, gli imponeva ancora rispetto ed amore, anche in quei soliloqui scorati dall’ebbrezza: quella del suo professore Megári. Sì, quello era persuaso della verità di ciò che insegnava, non mentiva; quello l’aveva amato. Egli lo rivedeva come l’ultima volta, quando gli aveva dato la lettera di sua madre, vestito di nero, con quel viso pensieroso e nobile. Quanto l’avrebbe rivisto volentieri! Gli pareva che egli solo l’avrebbe potuto rifare quello di prima.... ma forse neppure lui. Oramai era tardi. Aveva perduto la sua bella fede per sempre. Non gli rimaneva [p. 241 modifica]che a tirare innanzi come mille altri, burlandosi d’ogni cosa, e consolandosi come poteva. E, dicendo questo col lume tentennante nella mano, ricorreva ancora una volta all’armadio a muro, dove s’era fatto una provvista di liquore, e beveva un altro sorso di consolazione e d’oblìo.


Non andò molto che apparirono sul suo viso, il quale per un nulla s’alterava, i segni delle nuove abitudini, un’ombra leggera sulla fronte e un rilassamento delle guance, come dopo un lungo cammino, e non so che vago e fuggente negli occhi, che un cerchio contornava. Era poca cosa; ma che non poteva sfuggire a una persona che gli voleva bene.

Una sera, risalendo le scale di casa, vide sul pianerottolo la maestra Galli, che l’aspettava. Restò un momento stupito, e stette per ridiscendere. Poi, incoraggiato dall’oscurità, andò su.

La ragazza gli si fece tanto vicina ch’egli sentì l’odore del suo vestito di percalle soppressato di fresco, e quell’odore gli diè al capo come la fragranza d’un mazzo di rose. — Signor Ratti! — gli disse la maestra, con voce timida e affettuosa.

Egli stette aspettando.

Quella avvicinò il viso al suo, e gli mormorò nell’orecchio, con accento supplichevole, due sole parole:

— Non beva.

E fuggì.

Il maestro rimase un momento là, impietrito. Poi un’onda di pensieri e di ricordi gentili, e con essi tutto il suo amore, e una tenerezza pietosa e profonda, gli rientrò nell’anima, e non gli parve che fosse per effetto di quel rimprovero dolce e triste di sorella, ma di quella fragranza del vestito, che l’avesse svegliato dal suo sonno torpido di bevitore, come un’essenza potente.... Ma i suoi sentimenti più vivi non s’accendevano più che come le stelle di fuoco che scoppian dai razzi e si spengono per aria. Egli ricadde subito nella tristezza pesante che lo pigliava verso sera, prima di tornare a bere. E rientrò in casa ripetendo più volte quelle parole: non beva, e rispondendo tra sè, con delle scrollate di capo: — Sta bene. — E se smetteva di bere, che cosa n’avrebbe avuto? Ah! egli conosceva bene quel carattere, nel quale era piantato il proposito [p. 242 modifica]come la quercia nel fianco della montagna. Poichè essa non l’amava, poteva lasciarlo ruzzolare fino in fondo alla china.... su cui gli aveva dato lei la prima spinta. S’egli avesse smesso di bere, avrebbe ricominciato ad amarla e a soffrire.... Mai più questo! — Non beva. È curiosa, non è vero, di dare una coltellata nel petto ad un uomo, e dirgli poi affettuosamente: — Non gridi! — E sorrideva di pietà per sè stesso, mettendo sulla tavola quel po’ di mangiare freddo che la donna gli aveva lasciato nell’armadio, e cercando di pensare ad altro. Ma quel profumo del vestito fresco gli rientrava per le nari nell’anima e gli ricorreva come un filtro tutte le vene; s’egli non se ne fosse liberato, gli avrebbe riacceso la febbre di prima; bisognava che andasse a farlo svaporare sui monti. Cenò in fretta, uscì per la campagna.... e tornò all’osteria.