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Il bicchiere 237

IL BICCHIERE.


Si buttò allora di proposito deliberato a quel vizio, al quale tanti altri maestri rurali s’abbandonano invece quasi inavvertitamente, a poco a poco, tirati dall’esempio della gente che li circonda: si mise a bere. Questo cominciò una sera in cui, per dimenticare lo scherno vile d’un ragazzo, ch’egli si credeva ancora affezionato, andò a scovare in fondo ad un suo armadio a muro una vecchia bottiglia di acquavite, che gli aveva regalato l’anno innanzi il padre d’uno dei suoi alunni della scuola di disegno; il quale teneva uno spaccio di vino e di liquori nella casa accanto. Qualche sorso di quella roba gli rese straordinariamente dilettevole la lettura della raccolta dei giornali scolastici, e gli diede in capo a un’ora un sonno pieno e filato, che avrebbe cercato invano fino a mezzanotte. La sua piccola camera essendogli venuta in odio, egli cominciò a uscire ogni sera, dopo cena. Non aveva che ad attraversar il vicolo per entrar nell’osteria; nessuno lo vedeva. Egli andava a bere del sonno. La conoscenza quasi amichevole che aveva col padrone scusava un poco la sua presenza in quel luogo, e le chiacchiere che gli faceva il suo antico alunno che stava a banco, gli davan modo di trattenervisi senza aver l’aria d’un beone. Nei primi giorni, nondimeno, era preso qualche volta da un senso improvviso di ribrezzo in mezzo a quelle tavole che puzzavan di vino come doglie di botti, alla vista di quelle cinque o sei facce volgari, chine ogni sera sulle carte grasse, al lume d’una lampada fumante, sotto un’antipatica oleografia di sgualdrinella scollacciata, che lo pigliava di mira con una rivoltella. E diceva tra sè; — Come? Anch’io son disceso qua?... a venticinque anni?... dopo tanti bei sogni?... — Ma al pensiero delle amarezze della sua professione, dell’ingratitudine dei ragazzi, del suo amore deluso, di tutta la scelleraggine e di