Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Altarana/V

La maestra Falbrizio

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Altarana - IV Altarana - VI
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LA MAESTRA FALBRIZIO.


Aveva passato tre mesi così, credendo d’aver trovato finalmente l’asilo della pace, quando da una conversazione fortuita che ebbe con la maestra Falbrizio, scoprì che c’era del torbido anche in Altarana. La Falbrizio aveva la scuola in una casa solitaria, posta a monte del villaggio, in un campo molto più basso della strada maestra, che lo fiancheggiava. La sua classe occupava una stanza a terreno, e in una stanzina accanto teneva abusivamente una piccola scuola privata di maschi un tal Canigallo, antico amanuense, che era stato sei mesi al manicomio; un misantropo lunghicrinito, a cui nessuno aveva mai visto biancheggiar la camicia. Il piano di sopra, non finito, serviva da magazzino di legnami al proprietario, consigliere comunale.

Il maestro vide una mattina la Falbrizio sull’uscio della sua botteguccia di mercerie, col solito fazzoletto in capo, e lo scaldino in mano. Essa lo chiamò e lo fece entrare. Dietro al piccolo banco c’era un bambino in culla che dormiva.

— Non sa la novità? — gli domandò la donna.

Il maestro non sapeva nulla.

— Son licenziata.

Il giovane non voleva credere.

— È così, — continuò la maestra con aria pietosa. [p. 163 modifica]— Vada a vedere all’albo pretorio. Il signor sindaco ha fatto attaccare il verbale della seduta del Consiglio dove c’è tutto detto, che m’han licenziata.

— Licenziata! — esclamò il maestro, stupito della sua tranquillità. — E per che motivo?

— Oh — rispose la Falbrizio — per tanti motivi. La cosa era preparata da un pezzo. Lei non sa. È una storia. Ma già io sono nei miei diritti. C’è il contratto per tre anni: loro non mi licenziano che sei mesi prima; sicchè vede. Io son ben sicura che il Consiglio scolastico gli darà torto. Capisce: mio marito è spaccalegna; io con questo guscio di bottega faccio dei guadagni magri: aggiunga che dopo dieci anni di matrimonio c’è venuto fuori questo bacherozzolo, che non so proprio come il Signore ce l’abbia mandato. Vede che abbiamo bisogno di quel poco di stipendio. Non è gran cosa. Trecento sessantasei e trentatrè. Ma c’è il pane e la minestra.

— Ma in che maniera l’hanno licenziata? — ridomandò il maestro. — Senza un perchè? Qualche cosa ci sarà detto nel verbale!

— Nel verbale c’è detto che non son buona a insegnare. Veda un po’. È vero che ho fatto soltanto un corso autunnale; ma il mio dovere lo so fare, tant’è che gli ispettori sono sempre stati contenti. Quanto a questo, ho il cuore in pace. Per licenziarmi per incapacità bisogna che ci sia l’approvazione dell’ispettore. Vedremo a primavera. Oh ma.... ci sono degli altri perchè.

Il maestro stette aspettando, sicuro che a poco a poco avrebbe spippolato ogni cosa.

— Il primo perchè, vede.... la cosa è cominciata l’anno passato. Io sono entrata a prendere il posto d’un’altra maestra, che era pure del paese, una giovane che poi ha dovuto andar via perchè.... non ci poteva più stare. Io non voglio dir male di nessuno. Ma si tratta di cose che sanno tutti. Il signor sindaco è vedovo, di buona età: dicevano che fra lui e la maestra ci fosse, come a dire, un’amicizia. Il fatto è che l’ha maritata a uno, e se n’andarono. Ma poi, lei sa come succede alle volte, che l’acqua ritorna al suo mulino. Pare che il signor sindaco gli sia venuto in testa di far ritornare quella di prima, giusto perchè [p. 164 modifica]aveva marito, pel motivo che se c’è un marito, è come dire che si tolgono i cattivi pretesti alle male lingue. E poi.... c’è quest’altro caso, dicono, che quando l’altra era andata via, pare che lui si fosse messo attorno alla signora maestrina delle Case Rosse, e per questo io per un po’ di tempo non ho avuto noie. Ma che vuole? Un poco forse perchè le Case Rosse sono a un miglio dal paese, e poi la signorina è una ragazza per bene, chi vuole anche che sia pel motivo del maestro di Azzorno, che par che la voglia sposare, che so io? In una parola, egli avrebbe voluto da capo che io rilasciassi il posto a quella maritata.

Il maestro si divertiva a osservare il contrasto che c’era fra la gravità di quelle rivelazioni e il tuono quasi benevolo della maestra, tra la riservatezza rispettosa delle sue parole e la malizia che le scintillava negli occhi; la quale mostrava una donna capacissima di lottar fino all’ultimo, sempre pacatamente, con qualunque avversario.

— Ma! — riprese la Falbrizio — alle volte.... gli uomini! Fatto sta che hanno cominciato a dire che le mie bambine non imparavano niente.... che io non ero abbastanza istruita. E anche quella miseria di stipendio, trecentosessantasei e trentatrè.... La maestra è del paese, hanno detto, può rinunciare ai rotti, e m’hanno levato quei sessantasei franchi, che per me volevan dire. Poi ci fu la quistione della neve, che anche di quello se ne ebbero a male. Pensi un po’: io m’adatto a tutto. Il cantoniere non mi guarda nemmeno in viso; mi spazzo io la scuola, e sta bene. C’è una stufetta di ghisa; legna non me ne passano; le bimbe se ne portano un pezzo ciascuna, e quando gl’inverni son cattivi i parenti ne danno poca; lasciando stare che a portar le legna si gelan le mani, e alle volte non ne voglion sapere. Si soffre un po’ di freddo. Un fumo, poi, che non le dico. E per tutto questo, pazienza. Ma come è accaduto l’anno scorso che s’è fatto vacanza cinque giorni per via di due metri e venti di neve, e la scuola è stata seppellita fino alle finestre di sopra, s’immagini che il signor sindaco voleva che io facessi aprir la strada a mie spese! Questo non è giusto, non è vero? Una povera donna! Son poi venuti i padri delle bimbe a scavare una buca, e siamo discesi come per un [p. 165 modifica]imbuto a cercar l’uscio, che si stentava a trovarlo. Ma intanto il signor sindaco se la pigliava con me sempre peggio. Nasceva, si può dire, una quistione ogni giorno. C’è stato anche quel benedetto affare del cesso, mi scusi. Ma come non farsi sentire, chi ha un po’ di decenza! Affittano quell’altra stanza per una scuola privata, che il maestro appunto è fratello di quella che è andata via, e c’è un luogo solo per le mie bimbe e per i suoi ragazzi! Io scrivo al signor sindaco che la cosa non può stare, e gli dico le precise parole, che è “uno scandalo immorale.„ Mi pare di non aver mica detto troppo. Eppure, non capisco, anche di questo s’è offeso. E mi ha risposto per lettera “che è molto più immorale che una maestra dia il latte al bambino nella scuola, in presenza delle sue alunne.„ Lei mi deve dire, signor maestro, se questa è una risposta giusta.

— E non le rispose altro? — domandò il giovane.

— Ah sì. Rispose che era ridicolo parlare di scandalo, perchè gli alunni son piccoli. E anche questa, veda lei se è una ragione che possa reggere. Per fortuna che ci si è messo di mezzo il soprintendente e ha ottenuto dal falegname che sta di là dalla strada, che lasciasse andare i ragazzi dietro al suo orto. Ma anche questo è durato poco perchè il falegname, visto che imbrattavan dentro, cominciò a dargli la caccia, e si vedevan quei poveri ragazzi correre per i campi, mi scusi, coi calzoncini in mano; tanto che si tornò a quella di prima. Insomma, dispiaceri sopra dispiaceri. Ora poi c’è stato di peggio, che profittando ch’io ero a casa malata, hanno mandato l’inserviente comunale, con quella barba, a portarmi via i banchi dalla scuola, e sono appena arrivata in tempo a impedire, che già me n’avea presi due. E ancora, doversi sentir trattar male. L’inserviente, naturale, la tiene dal sindaco: è un uomo che ha un poco il vizio... di ber molto; del resto, sia detto fra noi, anche il signor sindaco beve.... moderatamente; e quando ha un po’ bevuto, dico l’inserviente, si lascia anche scappare certe parole. Non m’importa che si vada vantando che è meglio pagato di me. Giusto, dice lui: guadagno più io con la mia scopa che lei con la sua penna. È la verità, del resto. Ma quello che mi fa pena son le falsità che gli fanno portare in giro. Hanno perfino fatto correr la voce che [p. 166 modifica]non mi tengo pulita, e che l’ispettore dell’anno passato, alzandosi dal mio posto nella scuola, si trovò pien di pulci. Una bugia! E lo dico forte, chè tutti posson veder la mia biancheria distesa al sole, se è roba d’una donna che non curi la pulizia. Son brutte cose, lasciamo andare.

Il maestro si sentì umiliato per lei di tutte quelle sudicerie; ma era nello stesso tempo allettato dalla stranezza delle cose e dalla mansuetudine simulata, con cui la maestra le esponeva.

— Ora poi — continuò questa — dopo che s’è licenziata per malattia la maestra Pezza, speravo che il signor sindaco m’avrebbe lasciata in pace; ma non fu così. Egli l’ha ancora con me per certe parole che m’hanno accusata d’aver detto l’estate scorsa contro il Consiglio, in presenza di gente; per cui sono stata sospesa dallo stipendio per dodici giorni: e non me l’ha più perdonata. — E soggiunse, mandando un lampo dagli occhi: — Calunnie, gliel’assicuro.

— Ma perchè — le domandò il Ratti, dopo una breve riflessione, — sperava lei che il sindaco cessasse di farle la guerra dopo il licenziamento della maestra Pezza? Forse perchè può chiamare al suo posto quell’altra?

— Ah non per questo, — rispose la donna. — Quella non può perchè non ha che la patente di grado inferiore. D’altra parte io credo che a quella non ci pensi più. Si sa, gli uomini cambiano. Dicevo perchè, naturalmente, ora che è aperto il concorso, il signor sindaco procurerà che sia nominata una maestra.... Gli uomini son tutti così, dal più al meno; amano la gioventù. A una faccia come la mia non darà il posto di sicuro. Del rimanente, l’avviso di concorso è già stato pubblicato, e sento che fra gli altri documenti c’è detto che “quelle che possedessero la propria fotografia potrebbero unirla alla domanda„.

— Diavolo! — disse il maestro ridendo, — pare un concorso per un matrimonio.

— E ne troverà, — riprese la maestra col suo accento benigno. — Ci sono tante maestrine giovani, che cercano un collocamento; c’è tanto mai concorso da per tutto che bisogna bene che s’adattino, per trovare un posto, a tutto quello che domandano.... povere [p. 167 modifica]giovani. Non voglio dire: ce n’è pure che trovano marito onestamente. Ci son di questi proprietari dei nostri paesi, uomini alla buona, anche non più sul fiore, che a veder quelle signorine bene educate, che vestono alla moda, e parlano bene, se ne innamorano.... anche senza che quelle facciano, come suol dirsi, un passo avanti. C’è, per citarne una, la maestrina Vetti, che le ho detto, quella delle Case Rosse, una giovane onesta che dicevano dovesse sposare il signor Cavezzi, negoziante di legnami, un mezzo contadino, se si vuole, ma che ha di questi. Dicono anzi che si vedevano.... senza far male, intendiamoci. Ma ora non so perchè (e le balenarono gli occhi) la cosa è andata in fumo.

E avrebbe tirato innanzi; ma, entrando in quel punto un’avventora, essa tagliò d’un colpo quella lunga conversazione, in cui aveva sfogata tanta rabbia con tanta dolcezza, e disse al giovane che usciva: — Arrivederlo, signor maestro. Quando ci sarà del nuovo, se mi permette, lo terrò informato. Ma spero che tutto vada bene. Dio volendo.


Da quel giorno la lite fra il sindaco e la maestra, in quella vita monotona del villaggio, diventò il pascolo principale della curiosità del Ratti. Diede subito una tastatina in proposito al segretario comunale, e l’imbarazzo che questi mostrò nello scusare il sindaco, masticando delle parole scucite: — Malintesi.... informazioni inesatte.... non crederei.... — lo persuase che era tutto vero. Quella stessa sua timidezza di topo inseguito, la quale, oltre che da natura, derivava in gran parte da una consuetudine, contratta in altri comuni, di temer danno da tutti, il maestro capì benissimo che non si sarebbe mantenuta così viva in Altarana s’egli non avesse, in più d’un’occasione, conosciuto e sperimentato il suo sindaco come un uomo violento, soverchiatore, e quando pigliasse qualcuno sulla cúccuma, implacabile. Ma, non che del sindaco, il buon segretario non osava nemmeno di dir male dei suoi nemici: egli si teneva nella lotta dei due partiti, tra le gare dei consiglieri eletti e dei consiglieri aspiranti, come un povero diavolo rasentato a destra e a sinistra da due file di carrozze correnti in direzione contraria, non inteso ad altro che a farsi piccolo e a ispirar [p. 168 modifica]compassione; e mandava a far la spesa alternata, dai bottegai in carica e da quelli scaduti, per non scontentare nessuno. Ma piaceva, ciò non ostante, al giovane maestro, non solo per il fondo di bonarietà ch’egli lasciava trasparire da quella grande paura, ma anche per ragioni di simpatia professionale, perchè era come lui mal retribuito, come lui vagabondo, come lui in balìa di tutti, e non pagato di gratitudine da alcuno. E la simpatia reciproca, aiutata pure dalla ragione economica, li condusse ben presto a far tavola comune. Il maestro discese a mangiare in casa del segretario, pagando un tanto al mese. La mensa era frugale: un litro di vino bastava a tutti e due per i due pasti; il precetto igienico che bisogna alzarsi da tavola avendo ancora un po’ d’appetito, era scrupolosamente osservato. A vederli tutti e due così smilzi, in quella camera nuda, seduti a una piccola tavola rischiarata da un magro lume a petrolio, davanti a una minestrina di brodo rado e a due bicchieri di vino annacquato, accanto a un fuochetto moribondo, pareva proprio di veder desinare lo Stento e il Bisogno in casa della Carestia.

Una sera, mentre stavano mangiando senza parlare, ruppe il silenzio una grossa voce che veniva dal buco della serratura: — C’è un morto!

Il maestro si scosse, credendo che avessero ammazzato qualcuno sull’uscio. Ma il segretario rispose tranquillamente: — Ora vengo.

E spiegò al maestro che quando moriva qualcuno nel paese, se non trovavan lui al municipio, gli venivano ad annunziar la morte a domicilio, per non aver da fare doppia corsa.

Un’altra volta a colezione furono interrotti da una voce di donna che gridò per il buco della chiave: — Signor segretario! C’è un’innocenza.

Innocenza, nel linguaggio del paese, era un modo gentile di dire un nuovo nato.

Ma questo accadeva di rado. Le sole novità della giornata, erano, di solito, quelle che portava il segretario dal municipio: — Domani c’è seduta. — Oggi è arrivato l’impiegato del Catasto. — Ieri sera e ribaltato un carro all’entrata delle Case Rosse.

Una mattina portò una notizia straordinaria: — Il [p. 169 modifica]sindaco è partito per Torino. — E, interrogato dal maestro, dopo aver dato un’occhiata intorno per assicurarsi che non c’era la Perpetua, rispose a bassa voce, mettendo una mano da un lato della bocca: — Credo che sia per l’affare della Falbrizio.... al Consiglio scolastico. — Tre giorni dopo, infatti, sul far della sera, arrivò il sindaco in calesse, col suo faccione sbarbato e lustro di cuoco, su cui brillava l’alterezza della vittoria, e il maestro lo vide venir su a passi lesti per la gran strada del villaggio, e soffermarsi a varie botteghe e dir forte: — Tutto approvato! Tutto approvato! — La maestra è spacciata, pensò; addio le trecento lire! E interrogò il dì dopo il segretario, che gli disse di non saper nulla di certo. Ma, passati tre giorni, il pover uomo si presentò a desinare con un viso così turbato, che il Ratti sospettò che ci fosse stata al municipio qualche grossa burrasca. C’era stata, infatti. Era arrivato il decreto del Consiglio scolastico che annullava il licenziamento della maestra, perchè non dato in tempo legale, rimandando ogni deliberazione alla prossima visita dell’ispettore, e a quel colpo il sindaco aveva dato in tali furie, che il segretario n’era ancora tutto sgomento. Curioso di veder la Falbrizio trionfante, il giovine corse a cercarla la mattina dopo alla botteguccia. Sapeva già tutto. Se ne stava al banco tranquilla, allattando il bambino, e nel suo solito atteggiamento di buona donna rassegnata, ma con due fiammelle negli occhi.

— Ha sentito? — disse al maestro, rimettendo il bambino nella culla. — Io pensavo bene che doveva finir così. Quei signori del Consiglio scolastico hanno capito la cosa. Eppure, lei dirà che sono una sempliciona; ma quasi mi fa pena che quel buon uomo di sindaco abbia avuto una mortificazione per causa mia. Infine, siamo invecchiati nello stesso paese, non è vero? Io mi ricordo di quand’era ragazzo, nella locanda dei Tre orsi, che lavava i piatti e lustrava le scarpe ai forestieri, ed era un giovanottino che si faceva benvolere da tutti. — E abbassò gli occhi, dicendo questo, per nascondere i lampi. — E ho conosciuto anche la sua povera moglie, che glien’ha fatte passare, pover uomo, di quelle che non si dicono. Son tutti ricordi che fanno mettere una certa affezione a una persona. [p. 170 modifica]

— Ora però — le osservò il maestro — lei potrà dormir tranquilla i suoi sonni.

— Ah! cosa dice mai, caro signore! — rispose la donna. — Dormire tranquilla! No, pur troppo, sa lei. Ora si ricomincia peggio di prima. Lei non s’immagina che cos’è capace di fare, quando s’impunta, quel benedett’uomo.

La guerra era già ricominciata, infatti. Il sindaco girava già dalla sera innanzi per le case, a istigare i parenti a non mandar più le bimbe dalla Falbrizio, e andava dicendo ai restii: — Sono sindaco, avrete bisogno di me un giorno o l’altro, e se mandate ancora le figliuole da quella merciaia.... la vedremo. — La maestra aveva già risaputo anche questo. Credeva anzi che portasse attorno una protesta da firmare contro di lei. — E questo non è tutto — concluse. — Siccome il consigliere Cavezzi, quello che doveva sposar la maestrina Vetti (e poi non l’ha più sposata, senza che si sappia il perchè) deve andare a Roma, dice che il sindaco lo ha incaricato di riferire al Ministero. Una povera donna come me portata al Ministero, mi dica un po’ se ne val la pena! Basta, il signor ispettore deciderà. Io ho fiducia nei miei superiori.... senza augurar dispiaceri a nessuno. E poi verrà la maestra nuova, che sarà un diversivo, spero in Dio.