Il romanzo d'un maestro (De Amicis)/Altarana/IV
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IL MAESTRO CALVI.
Le prime settimane gli passarono tranquille, anche nella scuola, nella quale era ritornato; con sua soddisfazione, a quel metodo di riserbo e di fermezza, ch’egli aveva smesso con effetti così deplorevoli nell’ultimo mese del suo soggiorno a Piazzena. Contro la sua aspettazione, perchè il tempo prescritto era già passato, fu inflitta qualche ammenda ai parenti: uno di questi venne un giorno davanti all’uscio della scuola a vomitare un sacco di villanie contro tutti i poteri dello Stato, ma condusse il ragazzo; altri cinque o sei renitenti comparvero. Il sindaco era risoluto, dunque. Il maestro cominciò a prenderlo in simpatia. E pareva che anche al sindaco il maestro andava a garbo, perchè diede incarico a lui di far la scuola serale. Venne apposta alla scuola una mattina a parlargli della cosa.
— Il maestro Calvi — gli disse — è un ottimo insegnante e un uomo di talento; ma ha altre occupazioni.... E poi per le cose nuove ci vogliono maestri giovani. È la mia idea. Avanti dunque. Domani si pubblica l’invito all’iscrizione, la settimana che viene si darà principio. Vedrà, rifaremo il paese.
Una settimana dopo, infatti, il maestro faceva la prima lezione a una ventina di scolari, tra giovanetti e uomini fatti: un garzone falegname, due fabbri, dei pastori, il campanaro e un vecchio che faceva insieme il barbiere e il pescator di trote nel torrente; alcuni dei quali sapevan già un po’ di lettura e d’abbaco, e venivano soltanto a perfezionarsi. Quella nuova scolaresca, che non gli costava alcun pensiero per la disciplina, e che dal lato didattico gli presentava difficoltà nuove, come la necessità d’usar modi più pronti, e di dar quasi un insegnamento a scorciatoie, più sostanziale e più nudo di quello che si dà ai ragazzi, lo ricreò da principio, e gli porse agio a far molte osservazioni proficue. Il male era che, dovendo servire per tutti una sola lampada a petrolio appesa nel mezzo del soffitto, i suoi scolari eran costretti, per veder nei libri e nei quaderni, a star tutti raggruppati sotto il lume, gli uni addosso agli altri, e i più lontani, quando incontravan nello stampato dei caratteri piccoli, dovevano accendere un fiammifero per illuminare la difficoltà. Ma tutti avevan buon volere, e questo essendo riscaldato dalla stufa, che per molti era una benedizione di Dio, l’ufficio del maestro riusciva di assai agevolato. Gli rimaneva un solo timore, che il collega Calvi si fosse potuto aver per male della preferenza data a lui; ma, avendo avuto occasione in quei giorni d’andar varie volte a casa sua, e di conoscerlo meglio, si rassicurò interamente.
Il maestro Calvi era un pensatore progressista, un cervello un po’ balzano, a cui non mancava che qualche cosa, piccolissima, ma indispensabile, per essere un uomo d’ingegno. Egli passava la vita a ricercar nuovi metodi, dei quali esperimentava uno al mese, con la speranza sempre rinascente di ottener miracoli; ma con quel profitto degli alunni che ogni maestro può immaginare: metodo di lettura, di scrittura, di numerazione, di educazione, di mnemonica, di tutto. Per un pezzo aveva insegnato l’alfabeto facendo ogni lettera iniziale del nome d’una bestia: Asino, Bue, Coccodrillo, Elefante; ma era stato costretto a smettere dalla rumorosa e irresistibile ilarità provocata da certi equivoci a cui dava luogo quella nomenclatura. Poi aveva fatto scrivere gli alunni, per i primi due mesi, con matite nere, rosse e turchine, per certi buoni effetti ottici e intellettuali ch’ei credeva che facesse quell’alternativa di colori. Aveva anche escogitato un modo d’insegnar a scrivere, cominciando dalla destra. Quanto alla disciphna era andato innanzi per un certo tempo applicando ai colpevoli la legge del taglione: un ragazzo feriva un altro con un chiodo, egli si faceva dare il chiodo, e pungeva il feritore. Aveva avuto anche dei dispiaceri con un padre, perchè, informandosi troppo rigorosamente al precetto pedagogico che bisogna attuare le minacce, dopo aver minacciato gli alunni di far ingoiare gli scarabei a chi ne avesse ancor portati nella scuola, ne aveva fatto ingoiar uno a un disgraziato, ch’era andato a rigettarlo a casa, urlando come un ossesso. Del rimanente era con la scolaresca buono e tollerante fin troppo: non faceva quelle piccole sevizie che per tentar di schiudere nuove vie alla scienza dell’educazione. Corrispondente indefesso di vari fogli scolastici, ai quali mandava progetti e articoli di ogni specie, egli scriveva nella scuola le sue lettere e le sue dissertazioni, leggeva giornali, tracciava disegni, meditava: sul suo tavolo di maestro c’era un arruffio di libri, di scartabelli e di foglietti, mescolati a boccette d’inchiostro di vario colore, a pezzi di sigaro, a fazzoletti, a piccoli oggetti di museo pedagogico, fabbricati da lui; e i ragazzi, per naturale tendenza all’imitazione, facevan dei banchi tante bottegucce, in cui portavano un po’ d’ogni cosa. Con tutto questo egli piaceva al sindaco per la continua varietà dello proposte che sottoponeva al suo giudizio, e che quegli approvava tutte senz’attuarne nessuna. Ora era un comitato da istituirsi per la diffusione dell’istruzione popolare; ora una “festa intellettuale„ da celebrare a benefizio della cassa scolastica del comune; un’altra volta un esperimento da tentarsi in pubblico di certi esercizi di corsa vocale, com’egli li chiamava, che consistevano nel far correre gli alunni recitando certe poesie fatte apposta; ciò che avrebbe fornito dei dati eccellenti per studiare gli effetti del movimento accelerato sugli organi della voce e della memoria. Assorto in questi pensieri, ei non parlava mai, come gli altri maestri, delle miserie della sua professione, e forse non le sentiva: era un progettista disinteressato. D’altra parte, stava lavorando da un pezzo intorno a un nuovo sillabario, un’idea affatto nuova che, riuscendo, l’avrebbe fatto celebre e agiato. In quei giorni poi s’occupava in particolar modo d’un’altra idea, ch’era di proporre per libro di lettura unico ed universale nelle scuole primarie del Regno il Codice Penale; e ogni volta che vedeva il maestro Ratti glie ne parlava a lungo, dimostrandogli come quello, opportunamente diviso per le varie classi, illustrato con disegni e commentato, presentasse tutte le qualità richieste da un libro di lettura perfetto per le scuole del popolo. E d’altri progetti parlava al giovine, badando sempre a dirgli con un’occhiata espressiva — È un’idea mia — per fargli intendere che glie la confidava col patto tacito ch’egli rispettasse il diritto di proprietà; e soggiungeva: — Non ne dica nulla a nessuno, per ora. — In questo suo mondo d’idee viveva soddisfatto, misurandosi il boccone per poter comprare francobolli, e non trascinando mai altro che da casa a scuola e da scuola a casa la sua lunga palandrana piena di frittelle, e sempre sbottonata. Nel paese alcuni lo tenevano per mezzo matto, altri ne parlavano con grande considerazione. Avrebbe forse fatto miglior riuscita se fosse vissuto fin da giovine in una città grande, dove, nella compagnia d’insegnanti colti e d’ingegno, la facoltà che in lui eccedeva e lo traviava, sarebbe stata compressa dall’urto con le facoltà consimili, ma più forti, degli altri; ma vivendo sempre nei villaggi, dove non c’era chi lo potesse curare coi suoi stessi strumenti, egli non faceva che andar sempre più innanzi sulla strada dell’utopia e della stravaganza. Sua moglie, di professione levatrice, lo teneva in conto d’un uomo superiore, e n’era gelosa.
Tra quest’originale e il segretario passava il giovine Ratti il breve tempo libero che gli lasciavan la scuola e il lavoro di casa; il quale non era poco, poichè, tra l’altre cose, l’istruzione obbligatoria aveva accresciuto il numero già considerevole dei registri ch’egli doveva tenere in ordine fin da prima. Con altri non aveva occasione di trovarsi. La maestra Pezza, malaticcia, si tappava in casa appena uscita dalla scuola; e del resto, avendo domandato per ragione di salute il suo congedo per la fin dell’anno, si considerava già come estranea al paese. Una volta sola, dopo un mese dalla sua visita, egli incontrò il parroco, di cui l’occhio azzurro morto e il saluto freddo non lo invogliarono a fermarlo: era anche lui un solitario che fuggiva tutti. E vide anche un’unica volta, in quaranta giorni, la maestrina Vetti, che veniva ogni tanto a far qualche compera dalla maestra Falbrizio, la quale teneva una botteguccia di merciaia, grande quanto un guscio di noce. La forma stessa del villaggio, lunghissimo, faceva ch’egli s’imbattesse assai raramente nelle poche persone con cui avrebbe potuto scambiar qualche parola. Alle otto della sera, pareva che Altarana fosse sprofondata nel fianco della montagna, e appena qualche lumicino qua e là diceva che c’erano in quello spazio nero delle creature viventi. Solo una sera della settimana, verso le dieci di notte, quando non c’era la neve alta un metro, egli vedeva dalla finestra passare qualche ombra sul bianco della strada, e udiva qualche frammento di conversazione che cessava subito: erano i pochi signori del paese che uscivan dalla veglia del medico condotto, la cui signora, giovane e bellina, sonava il pianoforte: la moglie d’un assessore liquorista, l’impiegato della posta col fratello speziale, il giovane pretore con sua madre, e la cugina del sindaco, moglie dell’esattore: un selvaticone barbuto, costui, che batteva tutto l’anno la valle col fucile a tracolla, come un cacciatore di mestiere. Passati costoro, non si sentiva altro per tutta la notte che il brontolio del torrente.