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162 Altarana

neve alta un metro, egli vedeva dalla finestra passare qualche ombra sul bianco della strada, e udiva qualche frammento di conversazione che cessava subito: erano i pochi signori del paese che uscivan dalla veglia del medico condotto, la cui signora, giovane e bellina, sonava il pianoforte: la moglie d’un assessore liquorista, l’impiegato della posta col fratello speziale, il giovane pretore con sua madre, e la cugina del sindaco, moglie dell’esattore: un selvaticone barbuto, costui, che batteva tutto l’anno la valle col fucile a tracolla, come un cacciatore di mestiere. Passati costoro, non si sentiva altro per tutta la notte che il brontolio del torrente.


LA MAESTRA FALBRIZIO.


Aveva passato tre mesi così, credendo d’aver trovato finalmente l’asilo della pace, quando da una conversazione fortuita che ebbe con la maestra Falbrizio, scoprì che c’era del torbido anche in Altarana. La Falbrizio aveva la scuola in una casa solitaria, posta a monte del villaggio, in un campo molto più basso della strada maestra, che lo fiancheggiava. La sua classe occupava una stanza a terreno, e in una stanzina accanto teneva abusivamente una piccola scuola privata di maschi un tal Canigallo, antico amanuense, che era stato sei mesi al manicomio; un misantropo lunghicrinito, a cui nessuno aveva mai visto biancheggiar la camicia. Il piano di sopra, non finito, serviva da magazzino di legnami al proprietario, consigliere comunale.

Il maestro vide una mattina la Falbrizio sull’uscio della sua botteguccia di mercerie, col solito fazzoletto in capo, e lo scaldino in mano. Essa lo chiamò e lo fece entrare. Dietro al piccolo banco c’era un bambino in culla che dormiva.

— Non sa la novità? — gli domandò la donna.

Il maestro non sapeva nulla.

— Son licenziata.

Il giovane non voleva credere.

— È così, — continuò la maestra con aria pietosa.