Il re della montagna/11. Sulla montagna

11. Sulla montagna

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Cap. XI.

Sulla montagna.


Gli otto cavalli, spronati a sangue, ripartirono colla velocità d’un fulmine. Superata l’altura, scesero il versante opposto senza rallentare la corsa, abbandonando il sentiero che conduceva al piccolo villaggio di Demavend, di cui scorgevano già la moschea e la sua alta torre, che serve di minareto ai mollah per invitare i fedeli alle preghiere del mattino e del tramonto.

Era necessario mantenere la distanza fra loro ed i cavalieri del re, i quali potevano ricevere notizie sulla direzione dei fuggiaschi, dagli Illiati accampati nella pianura sabbiosa. Se giungevano ai piedi della gigantesca montagna prima di venire scoperti, potevano considerarsi salvi; poichè fra quei boschi e fra quelle rupi, che hanno pochi passaggi e solamente noti ai banditi ed ai cacciatori di montagna, quegli inseguitori si sarebbero facilmente smarriti.

Lassù, fra le balze nevose di quel grandioso picco, fra le torri del vecchio castello, non avevano più da temere e potevano sfidare la collera del potente monarca.

Harum si era messo alla testa del drappello ed eccitava senza posa il suo cavallo morello, lanciandolo fra strette vallette deserte e ombreggiate da fitti boschi di enormi platani, i cui tronchi misuravano sovente una grossezza di sessanta piedi, di quercie e di cedri. Nadir e Fathima lo seguivano da vicino, e dietro di loro galoppavano gli altri cinque montanari, i quali avevano già staccato dall’arcione gli archibugi, per essere pronti a servirsene. [p. 116 modifica]

Dopo d’aver attraversato parecchie vallette e pianure incolte, malsane, quasi prive di vegetazione, i cavalieri salivano di galoppo la prima catena di alture, sulle cui cime sorge il villaggio di Demavend.

Giunti sulle colline, s’arrestarono per dare un po’ di riposo ai cavalli, che trottavano da tre ore senza un istante di tregua, e per vedere se erano inseguiti.

La vasta pianura si estendeva dinanzi ai loro occhi fino alla capitale, che ormai era appena visibile, essendo lontana oltre trentacinque miglia.

Lo sguardo acuto di Nadir distinse subito un drappello di venti o trenta cavalieri che galoppava verso il villaggio di Demavend, mentre altri, ma assai più lontani, percorrevano la pianura in varie direzioni.

— Ci inseguono, Harum — disse.

— Lo vedo, — rispose il montanaro, — e sono contento di aver evitato il villaggio. Saremmo stati segnalati e più tardi inseguiti.

— Che ci abbiano scorti?

— No, poichè vedo che non si dirigono verso di noi.

— Dov’è Ask?

— Laggiù — rispose il montanaro, indicando un gruppetto di casucce annidate in fondo ad una valle.

— Bisogna evitarlo.

— Passeremo lontani, Nadir.

— Che le guardie si siano accorte, quando uscivamo dalla città, che Fathima era con noi?

— Non lo credo.

— Ma perchè c’inseguono adunque?

— Per sapere chi siamo.

— Inseguiranno adunque tutte le persone uscite da Teheran?

— È cosa certa, Nadir.

— Quale vantaggio abbiamo su quei cavalieri?

— Almeno dodici miglia.

— Non ci raggiungeranno più.

— Lo spero.

— Hai paura, Fathima?

— Presso di te non temo nessuno, Nadir — rispose la giovanetta. [p. 117 modifica]

— Guarda, Fathima: lassù, fra le balze della montagna nevosa, vi è un vecchio castello; laggiù vi è Teheran, la capitale della Persia tutta. Lassù non udrai che i fischi del vento, i gridi delle aquile, e non vedrai che me, il vecchio Mirza e i banditi della montagna; laggiù vi è la grandezza, lo splendore, la potenza, il fasto di una Corte, che non ha l’eguale in tutta l’Asia. Scegli!...

— Scelgo l’amor tuo, Nadir, e la tua montagna — rispose la giovanetta.

— Non rivedrai più mai Teheran, Fathima.

— Non importa.

— La montagna è bella, ma lassù non vi è fasto.

— Mi basta il tuo castello.

— È fredda la montagna, Fathima.

— Voglio vivere con te, mio leale e prode Nadir.

— Vieni adunque, e ti farò la più felice delle donne.

— Partiamo — disse Harum.

I cavalli si riposero in marcia, ascendendo le colline che, succedendosi le une alle altre, coperte di boschi, formano i primi contrafforti della catena degli Albours.

Lasciarono sulla loro sinistra Ask e proseguirono verso il Demavend, che ormai era a poche miglia e che speravano di raggiungere fra qualche ora.

Harum, pratico dei luoghi, sceglieva i sentieri meno battuti, procurando di mantenersi nascosto fra i boschi di querce, di faggi, di pioppi, di betulle e di ginepri, per non farsi scorgere dai pastori che potevano tenersi in quei dintorni e recare ai villaggi la notizia del passaggio di quel drappello.

Calavano le tenebre, quando giunsero ai piedi dell’enorme montagna, le cui vette erano indorate dagli ultimi raggi del sole morente.

Senza dar riposo ai cavalli, volendo raggiungere il diroccato castello quell’istessa notte, salirono intrepidamente i dirupati fianchi della montagna, lambendo abissi e burroni scoscesi, in fondo ai quali muggivano furiosi torrenti.

Dalle alte regioni della grande montagna scendeva un vento rigido, che s’ingolfava nelle gole ululando lamentosamente e facendo stormire le fronde dei boschi e degli smisurati pioppi.

Nadir si era levata di dosso la giubba e l’aveva gettata sulle spalle alla giovinetta, che tremava pel freddo, non essendo abituata [p. 118 modifica]al rigido clima della montagna nevosa, e la incoraggiava con sorrisi e dolci parole.

I cavalli, affranti per la lunga corsa, si erano messi al passo e s’arrampicavano faticosamente su per gli erti sentieri, battendo fortemente gli zoccoli ferrati sulle rocce.

L’oscurità cresceva di minuto in minuto. I cupi boschi proiettavano un’ombra fitta sul drappello, ed Harum era costretto a fermarsi di quando in quando, per non smarrirsi in mezzo a quelle gole selvagge ed a quei burroni, che pareva non dovessero finire mai.

Ai sentieri succedevano altri sentieri, sempre più ripidi, sempre più sassosi, sparsi di frammenti di lava nera, densa, pesante, mescolata a pezzi di trap azzurrognolo; alle gole succedevano altre gole, sempre più profonde, più cupe e selvagge, ed ai boschi altri boschi, sempre più fitti e più oscuri.

Di tratto in tratto agli orecchi dei cavalieri giungeva il muggito dei torrenti scroscianti sui fianchi della montagna o un raglio sonoro emesso da qualche onagro sospettoso, ed i loro sguardi vedevano passare, rapido come il lampo, l’animale spaventato, una specie d’asino, ma d’aspetto feroce, col pelo d’un grigio argenteo attraversato da una striscia nera che segue la spina dorsale, scendendo verso le spalle. Questi asini sono numerosi sulla grande catena degli Albours, ma abitano anche i deserti, le pianure del Shuristan, del Faristan, del Segestan e di Kerman, dove vivono in bande numerose. Sono selvatici e impossibili a domarsi, ma i persiani ne mangiano volentieri la carne, che si dice sia eccellente, migliore anzi di quella di bue.

Alle undici di sera il drappello giungeva sui piani superiori della montagna, nel momento che l’astro notturno sorgeva all’orizzonte, spargendo su quell’immenso agglomeramento di picchi, di rocce, di abissi e di selve, i suoi raggi azzurrini, di una infinita dolcezza.

Nadir stese la mano in alto, additando alla giovanetta un gruppo di torri, che parevano appoggiate sulla vetta d’una erta montagna.

— Lo vedi? — chiese egli.

— Un castello? — chiese Fathima.

— Il mio.

— Giungeremo tardi?

— Fra un’ora, amor mio.

— Ci aspetterà Mirza? [p. 119 modifica]

— No; ma vedo lassù un punto luminoso, e ciò indica che il vecchio Mirza veglia ancora. Affrettiamoci, Fathima: fa freddo sul Demavend, ma lassù troveremo un buon fuoco.

I cavalli, facendo un ultimo sforzo, si rimisero in cammino. Le povere bestie non ne potevano più di quella salita estremamente faticosa, e tremavano pel freddo, essendo abituati al clima caldo della pianura.

Eccitati dai cavalieri, superarono le ultime vette, e alla mezzanotte giungevano dinanzi al vecchio castello, le cui torri semidiroccate s’alzavano maestosamente, come giganteschi fantasmi. Nadir balzò lestamente a terra e levò di sella la giovanetta.

— Vieni, Fathima — le disse. — Ormai più nulla hai da temere.

Poi volgendosi verso Harum:

— Conduci i cavalli nella scuderia, poi vieni co’ tuoi compagni a raggiungerci.

— Non abbiamo bisogno nè di fuoco, nè di cibo — rispose il montanaro. — Il freddo vento della montagna è nostro amico, e ci accontenteremo della scuderia per letto. Tu sai che noi siamo abituati a tutto.

— Ma avrete fame.

— Abbiamo le nostre bisacce piene di viveri. Va’, Nadir, e dormi tranquillamente, chè noi veglieremo.

— Grazie, amici: a domani.

I montanari si levarono cortesemente i turbanti, salutando la giovane persiana, e s’allontanarono coi cavalli, seguendo le muraglie massicce del vecchio castello.

— Vieni, diletta Fathima — disse Nadir, prendendola per una mano.

— E Mirza? — chiese ella.

— Veglia ancora: vedo lassù un lume.

— Che cosa dirà, vedendomi?

— Sarà felice di vedere il suo Nadir raggiante di gioia e ti riceverà come la regina della montagna.

— Sono tua, Nadir — mormorò ella.

Il giovane montanaro s’accostò a’ piedi di un’alta torre e spinse la pietra che chiudeva l’entrata. Tenendo sempre la giovinetta per mano salì le scale, percorse il lungo corridoio, le cui finestre prive di vetri e di imposte servivano di rifugio ai falchi della montagna, [p. 120 modifica]e s'arrestò dinanzi ad una porta massiccia, coperta di grosse lamine di ferro, dalle cui fessure passavano pochi fili di luce.

Estrasse il kandjar e bussò replicatamente coll’impugnatura.

— Chi è che chiede asilo a così tarda ora? — chiese una voce dall’interno.

— Io, il Re della Montagna — rispose Nadir. — Apri, Mirza.

Il vecchio emise un grido acuto, un grido di gioia inesprimibile, e poco dopo la porta s’apriva con fracasso e un’onda di luce illuminava l’oscuro corridoio.

— Tu, Nadir! — esclamò il vecchio. — Sogno io?

— Sono io, buon Mirza — rispose il giovanotto, ridendo.

Il vecchio se lo prese e se lo strinse al cuore, singhiozzando e ridendo ad un tempo. Gli sembrava ancora impossibile di rivedere il suo Nadir, che tanto amava.

— Tu!... Tu!... — ripetè, traendolo nella magnifica sala scintillante di luce, mentre i falchi, rivedendo il loro padrone, squittivano e agitavano le ali, facendo tintinnare le catenelle d’argento.

— Sì, io, mio buon Mirza — rispose Nadir.

— Ma chi è quel giovane Curdo? — chiese il vecchio, scorgendo Fathima che si era arrestata presso una colonna.

— Lo saprai fra breve — rispose Nadir, sorridendo ed arrossendo ad un tempo.

— Conduci quel giovanetto accanto al fuoco, chè deve aver freddo.

La fanciulla, che teneva il viso celato sotto il turbante, s’appressò al grande camino, sul quale ardeva un intero tronco d’albero spandendo all’intorno un benefico calore, e si assise silenziosamente su di un cuscino di seta.

Il vecchio Mirza, che contemplava il suo Nadir tenendoselo sempre stretto al petto come se temesse che glielo strappassero e accarezzandolo come una madre accarezza il suo bambino, continuò con voce rotta dalla gioia:

— Ti ho pianto tanto sai, mio Nadir.

— E perchè, mio buon Mirza?

— Perchè Teheran è una città fatale per te.

— Eppure sono ritornato e vivo ancora.

— Ma quando ho veduto giungere quassù i montanari senza di te, ho creduto di morire dall’angoscia. Ah! Non lasciarmi più, Nadir, se vuoi che io viva! Disgraziato, perchè non sei tornato con loro? Non pensavi al tuo vecchio amico, rimasto solo in queste torri?

[p. 113 modifica] — Tu, Nadir! — esclamò il vecchio. — Sogno io? (Pag. 120.)

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— Se fossi stato libero sarei volato quassù, Mirza; ma quando le truppe dello sciàh ci diedero addosso respingendoci, fui diviso da’ miei compagni e costretto a salvarmi nella casa d’un principe.

— E non ti hanno ferito? — chiese Mirza con angoscia.

— No, quantunque mi abbiano sparato dietro parecchi colpi di fucile.

— A quanti pericoli ti sei esposto, Nadir!

— Era tempo che il Re della Montagna facesse conoscenza col fuoco.

— Ma se ti uccidevano? Credi tu che io sarei sopravvissuto alla tua morte?

— Sono tornato vivo, Mirza.

— Ma non ti lascerò più mai scendere a Teheran.

— Non ne avrò più bisogno.

— Ah!... Finalmente!... È vero che è più bella la nostra montagna?

— Ora sì — disse Nadir. — Più bella di Teheran, del palazzo dello sciàh, della Persia intera, e...

S’arrestò guardando fisso fisso il vecchio Mirza, che era raggiante di gioia, e posandogli le mani sulle robuste spalle, che gli anni non avevano ancora curvate, gli chiese:

— Mirza, credi tu che a vent’anni la sola montagna basti?

— Perchè questa domanda, Nadir? — chiese il vecchio con inquietudine.

— È bella la montagna, Mirza, orridi gli abissi, superbi i boschi, dolce il fragore delle cascate e il mormorìo dei torrenti, delizioso il vento che rugge sulle vette nevose; ma ad un giovane di vent’anni tutto ciò non basta.

— Me l’hai detto ancora, Nadir.

— Quando il venticello della sera mormorava dolcemente fra i boschi, quando l’aria era imbalsamata dal profumo dei fiori, quando il sole tramontava dolcemente fra l’orizzonte infuocato, io provava dentro di me una sensazione sconosciuta, strana, il cuore mi batteva forte forte ed una voce interna mi sussurrava: «Va’, Nadir, chè la montagna più non ti basta».

— Me lo hai detto.

— Sai che cos’era quella strana sensazione, Mirza?

Il vecchio non rispose, ed i suoi occhi fissavano Nadir con crescente inquietudine. [p. 124 modifica]

— Io prima la ignorava, ma ora che sono disceso a Teheran, so che cos’è.

— Che vuoi dire, figliuol mio? — chiese Mirza.

Il giovanotto gli si appressò ancor più e gli chiese a bruciapelo:

— Mirza, hai mai amato tu?...

— Perchè questa domanda, Nadir?

— Perchè quella sensazione sconosciuta che io provava, era sete d’amore!...

— Nadir!... Che cosa sai tu?... Che hai fatto a Teheran?

— Ho sentito il mio cuore a palpitare.

— Per chi?

— Per una donna, bella come un raggio di sole, come una dea scesa dal cielo.

— Tu!...

— Io, Mirza.

— Ma sai tu chi sei?

— Un figlio del nevoso Demavend.

— No, Nadir.

— Chi sono io dunque?

— Un uomo che potrebbe un giorno diventare potente come il re che domina la Persia tutta.

— Un principe?

— Più d’un principe.

— Che cosa dici, Mirza!

— Tu sei un figlio di sciàh!

— Io!... Figlio di re!... — esclamò Nadir, guardando il vecchio con una certa espressione che voleva significare: ma tu sei pazzo.

— Nadir, — disse Mirza con voce grave, — ti ricordi di quel guerriero coperto di gemme e d’armi scintillanti, che veniva a contemplarti nella tua culla?

— Sì — mormorò il giovanotto, diventando meditabondo.

— Quell’uomo era tuo padre.

— Me lo hai detto.

— Quell’uomo era potente come il re che comanda sulla Persia intera, perchè era sciàh anche lui.

— Ma perchè io sono qui, mentre dovrei essere nel palazzo reale di Teheran?... Che cosa è accaduto a mio padre?

— L’hanno ucciso. [p. 125 modifica]

— Chi? — chiese Nadir, mentre un lampo di collera gli balenava negli occhi. — Parla una volta, Mirza!...

— Non lo posso, Nadir.

— Per quale motivo?... Chi sono io?... Non sono un uomo forse?... Ho vent’anni e sento che nelle vene mi scorre sangue di guerrieri.

— Non lo posso, ti ripeto. Se tu lo sapessi, ti ucciderebbero.

— Uccidermi! — esclamò Nadir, rizzando l’alta statura. — Non temo nessuno e li sfido tutti!... Parla, Mirza, lo voglio!...

— Te lo dirò, ma quando mi avrai detto chi è la donna che tu ami. Essa non potrebbe essere degna di te, d’un figlio di sciàh.

— Essa è degna di sedere sui gradini d’un trono, poichè fra giorni doveva andare sposa allo sciàh attuale.

— Disgraziato!... Che hai fatto!...

— Mi ama, io l’amo e l’ho rapita al re.

— Ti farai uccidere.

— Non si uccide così presto il Re della Montagna, Mirza. Questo è il mio castello, e qui affronterò i furori del mio rivale.

— Ma lo sciàh è potente, Nadir.

— Lo so.

— Ti scaglierà contro un esercito.

— Non lo temo.

— Sa che tu sei qui?

— Non mi ha mai veduto.

— Non sa chi tu sei?

— No, e ignora perfino che la fanciulla che amo è quassù.

— Ma dov’è essa?

Nadir s’avvicinò a Fathima, che aveva ascoltato tutto senza pronunciare sillaba, e, levandole il grande turbante e rialzandola, disse:

— Guardala!... È degna di me?