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Cap. XI.

Sulla montagna.


Gli otto cavalli, spronati a sangue, ripartirono colla velocità d’un fulmine. Superata l’altura, scesero il versante opposto senza rallentare la corsa, abbandonando il sentiero che conduceva al piccolo villaggio di Demavend, di cui scorgevano già la moschea e la sua alta torre, che serve di minareto ai mollah per invitare i fedeli alle preghiere del mattino e del tramonto.

Era necessario mantenere la distanza fra loro ed i cavalieri del re, i quali potevano ricevere notizie sulla direzione dei fuggiaschi, dagli Illiati accampati nella pianura sabbiosa. Se giungevano ai piedi della gigantesca montagna prima di venire scoperti, potevano considerarsi salvi; poichè fra quei boschi e fra quelle rupi, che hanno pochi passaggi e solamente noti ai banditi ed ai cacciatori di montagna, quegli inseguitori si sarebbero facilmente smarriti.

Lassù, fra le balze nevose di quel grandioso picco, fra le torri del vecchio castello, non avevano più da temere e potevano sfidare la collera del potente monarca.

Harum si era messo alla testa del drappello ed eccitava senza posa il suo cavallo morello, lanciandolo fra strette vallette deserte e ombreggiate da fitti boschi di enormi platani, i cui tronchi misuravano sovente una grossezza di sessanta piedi, di quercie e di cedri. Nadir e Fathima lo seguivano da vicino, e dietro di loro galoppavano gli altri cinque montanari, i quali avevano già staccato dall’arcione gli archibugi, per essere pronti a servirsene.