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il re della montagna 119

— No; ma vedo lassù un punto luminoso, e ciò indica che il vecchio Mirza veglia ancora. Affrettiamoci, Fathima: fa freddo sul Demavend, ma lassù troveremo un buon fuoco.

I cavalli, facendo un ultimo sforzo, si rimisero in cammino. Le povere bestie non ne potevano più di quella salita estremamente faticosa, e tremavano pel freddo, essendo abituati al clima caldo della pianura.

Eccitati dai cavalieri, superarono le ultime vette, e alla mezzanotte giungevano dinanzi al vecchio castello, le cui torri semidiroccate s’alzavano maestosamente, come giganteschi fantasmi. Nadir balzò lestamente a terra e levò di sella la giovanetta.

— Vieni, Fathima — le disse. — Ormai più nulla hai da temere.

Poi volgendosi verso Harum:

— Conduci i cavalli nella scuderia, poi vieni co’ tuoi compagni a raggiungerci.

— Non abbiamo bisogno nè di fuoco, nè di cibo — rispose il montanaro. — Il freddo vento della montagna è nostro amico, e ci accontenteremo della scuderia per letto. Tu sai che noi siamo abituati a tutto.

— Ma avrete fame.

— Abbiamo le nostre bisacce piene di viveri. Va’, Nadir, e dormi tranquillamente, chè noi veglieremo.

— Grazie, amici: a domani.

I montanari si levarono cortesemente i turbanti, salutando la giovane persiana, e s’allontanarono coi cavalli, seguendo le muraglie massicce del vecchio castello.

— Vieni, diletta Fathima — disse Nadir, prendendola per una mano.

— E Mirza? — chiese ella.

— Veglia ancora: vedo lassù un lume.

— Che cosa dirà, vedendomi?

— Sarà felice di vedere il suo Nadir raggiante di gioia e ti riceverà come la regina della montagna.

— Sono tua, Nadir — mormorò ella.

Il giovane montanaro s’accostò a’ piedi di un’alta torre e spinse la pietra che chiudeva l’entrata. Tenendo sempre la giovinetta per mano salì le scale, percorse il lungo corridoio, le cui finestre prive di vetri e di imposte servivano di rifugio ai falchi della montagna,