Atto I

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Prologo Atto II

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ATTO I

SCENA I

Curzio amante, Rufino servo.

Curzio. Ell’è pur vero el proverbio che i despiaceri e i piaceri non sogliono mai venir soli. E, che ciò sia, in me misero e infelice veder si puote: ch’allevatomi al servizio del mio signore, dal quale giustamente gran premio delle mie lunghe fatighe aspettavo in guidardone di mei mal spesi anni, mi ha contra mia voglia dato moglie. Che sia maledetta tanta ingratitudine che oggidí si vede in questi nostri signori regnare! che, non sí tosto dai miseri servitori el servizio han ricevuto, che l’han posto in oblio. Tristo a chiunque si fida di loro! ché, insino ch’elli hanno necessitá del fatto tuo, t’empromettono, ti giurano, vogliano teco partire el Stato e darti le migliaia de scudi d’intrata e fannoti mille scritture, mille patenti, mille oblighi, ch’in ogni altra persona ch’ad onorato vivere attende vituperevole cosa sarebbe; per ciò che, come non hanno piú di bisogno di te, ti stracciono quanti contratti, quante scritture te hanno fatte e quello che giá fu tuo donano ad un altro e, se tu ti lamenti, cercono di farti uccidere e pensono che ’l mancar di fede sia loro molto onorevole e, se pur voglino mostrare de favorirti, ti danno moglie sí come a me el mio signore ha fatto. Che tal contentezze veggia in lui qual egli ave data a me che, contra mia voglia, me l’ha fatta sposare! E sonno oggimai passati dui anni che, da che seco celebrai le nozze, me partii e vagando per il mondo a guisa di un desperato, ramaricandomi di me stesso che troppo alle lusinghevole sue parole ho creduto, ne sono andato: non perché io non mi aveggia ch’ella non sia nobile, savia e da bene; ma per ciò ch’io [p. 90 modifica]cognosco che questi signori, come ti hanno dato moglie, par loro di averti ristorato d’ogni tua fatica e, il piú delle fiate, te lla danno a pruova. Oltr’a ciò, non fui si tosto giunto qui in Roma ch’io arsi e ardo nell’amore di una belissima giovane e si fattamente ch’altro che l’amata vista di suoi begli occhi sereni, che ’l sole di splendore avanzano, veder non desidero. E giá mi trovo tanto innanzi nel sfrenato appetito trascorso e seco venuto a tale (per esser povera) che spero in breve venir a capo di qualche mio buon disegno. Voglio andar, prima che sia piú tardi, sino in Banchi. Parte vederò se mi fossino ancor venuti danari da casa. O Rufino!

Rufino. Signore, che volete?

Curzio. Vien fuori e piglia la cappa; e spacciati. Che cosa fai?

Rufino. Andiamo. Io sono in ordine.

Curzio. Dimmi un poco, or che me ricordo: parlasti tu mai con la serva di Iulia?

Rufino. Io vel dissi pur iersera; ma voi non me ci desti orecchie.

Curzio. Io avevo altro in capo, a dirti el vero. Ma pur, che ti disse?

Rufino. Ella è mezza contenta; e spero... Basta.

Curzio. Come mezza contenta? Fa’ ch’io te intenda.

Rufino. Volete altro, che si contentará di fare quanto vorrete voi?

Curzio. Dio lo voglia, ch’io, per me, non lo credo.

Rufino. Sará cosí certo. Ma...

Curzio. Ma che? Che non parli? Che vói dire?

Rufino. Voglio dire che ci è peggio, se Dio non vi aiuta.

Curzio. Come peggio?

Rufino. Peggio, signor si: ch’ella ha un altro innamorato.

Curzio. Un altro innamorato? Va’, ch’io non tei credo.

Rufino. Non è articolo di fede; ma ve ricordo ch ’a tal otta lo potrestivo credere, che vi rincresceria.

Curzio. Come che me rincresceria? Parlarne chiaro.

Rufino. La chiarezza è questa: che ci è chi la vole per moglie.

Curzio. E chi è questo prosuntuoso? [p. 91 modifica]

Rufino. È un pedante poltrone.

Curzio. Io so chi vói dire, adesso. I’ non ne ho paura di costui. Ma che certezze ne hai tu di questo?

Rufino. Hamelo detto Filippa ch’io vel dica. E io dubito che non vi sturbi.

Curzio. Sturbar lui mene?

Rufino. Signor si. È perché non sapete che le donne sempre se attacano al peggio.

Curzio. Guardise pur ch’io non gí’impari a far le concordanzie a suo mal grado. Lui non mi deve cognoscere anco, ah?

Rufino. Voi avete el torto, che le cose belle piacciono a ognuno.

Curzio. Tel concedo, questo. Ma non cognosce lui che quella non è farina da’ suoi denti?

Rufino. Anzi, lui si pensa che, per aver quattro letteruzze affamate, che tutte le donne di questa cittá siano obligate a volergli bene.

Curzio. Non ne parliam piú. Caminamo: ch’io voglio che tu vadi poi insino a casa di Filippa e che concludi el tutto. E promettegli ciò ch’ella vuole.

Rufino. Se io gli prometto ciò ch’ella vole, noi stiam conci!

Curzio. E perché?

Rufino. Per ciò che non gli basteria un papato.

Curzio. Se intende ch’ella abbi a chiedere cose possibili e non quelle che non si ponno. Si sa bene ch’io non sono bastante a dargli delle stelle del cielo.

SCENA II

Luzio e Minio scolari, Ceca serva.


Luzio. Lassarne caminare, che ’l mastro non me dia un cavallo; che me par sia troppo tardi e sai che sempre me fa sdelacciare le calze e me alza la camisa e me dá, qualche volta, con una scuriata cosí grossa cotta nell’aceto. Io ho robbato un pezzo de legno in casa per scaldarme, adesso che fa freddo. E sai che lo mastro vole che oggi incominci li latini per li [p. 92 modifica]passivi e poi me vole leggere la Boccolica. Ma, alla fé, poi ch’io sono qua, voglio chiamare Minio e vedere se vole venire con esso meco alla scola: ben che lui non impara se non la santa croce. Tic, toc.

Ceca. Chi è lá?

Luzio. Ècci Minio, in casa?

Ceca. Sí, è. Che ne vòi fare?

Luzio. Ditegli se voi venir alla scola.

Ceca. Sí, sí. Aspetta.

Luzio. Cosí farò. Oh! cagna! come l’è fresco, stamattina! Alla fé, ch’io mi sono levato troppo a buon’ora. E me sono scordato de fare collazione, ch’è peggio: benché madonna me ha dato un quatrino ché me ne cómpari una ciambella.

Minio. Oh! bon dí, Luzio.

Luzio. Buon dí e buon anno. Vòi venire?

Minio. Sí, voglio. Andiamo.

Luzio. E dove è lo legno che tu porti?

Minio. Eccolo, e è piú grosso che non è lo tuo.

Luzio. Non è vero. Attenta un po’ come pesa lo mio.

Minio. Gran mercé, ché lo tuo è piú bagnato! Per ciò...

Luzio. E lo mio è piú meglio. Ma dimme un po’: chi era quella ch’era alla finestra?

Minio. Era la fantesca.

Luzio. Me credevo che fussi tua madre.

Minio. No. È piú bella madonna mia. Ma non sai, Luzio, ch’io ho una sorella che lo mastro li vole bene? E per ciò non me dá delli cavalli come fa a te.

Luzio. Ed essa vuole bene a lui?

Minio. Credo de sí, io. E lo mastro me ha promesso delli quatrini, veh!

Luzio. Io non lo sapevo, questo.

Minio. Manco lo sa madonna.

Luzio. Alla fé, ch’io gli voglio dire se se vole innamorare de sòrema ancora ma che non voglio mi dia delli cavalli.

Minio. Caminamo, che non ci veda fermati: ché non dicessi che facemo le tristizie. [p. 93 modifica]

SCENA III

Fulvia donna, Rita serva, Ceca serva.

Fulvia. Non bisogna, Rita mia, ch'al primo né al secondo assalto della Fortuna ci sbigottiamo: ch’ancor che questa buona donna, madre de questa giovane della quale sí sconciamente el mio consorte, sí come saputo avemo, è invaghito, mostri non contentarsi ch’io, misera! in cambio della figliuola con esso lui mi giaccia (sí come saria el dovere, ch’elli è pur mio marito, del quale ora la mia sciagura e la mia disgrazia, senza colpa o cagione, privata me ne hanno), spero che la ragione che mi assecura a chiedergli le cose giuste e oneste la fará condiscendere ai voti mei.

Rita. Grande errore fue, per certo, a farvi sposare, se ei non se ne contentava; e voi, perdonatemi, poco savia fosti a prenderlo.

Fulvia. E che ci potevo fare io? Homelo forsi tolto da me? Certo che non; e tu lo sai.

Rita. Orsú! Poi che avete questa fantasia, quanto piú presto possete cacciatevela; ché le cose che indugiano pigliano vizio.

Fulvia. Io ho caro, Rita, che tu sia sempre stata meco in compagnia: ché della vita e fede mia verso di lui ne potrai far buona testimonianza; ch’io so ch’elli avea gran fede in te.

Rita. Madonna, el luogo ove che noi ci troviamo e la buona e onorevole pratica delle sante donne ove voi state saranno cagione di rendervi chiara senz’altri testimoni apresso di lui.

Fulvia. Ecco la casa. Idio ci aiuti, ché costei ci dia buona risposta.

Rita. La dará bene, sí. Aspettate, ch’io pichiarò. Tic, toc.

Ceca. Chi è lá? che adimandate voi?

Rita. Ècci la vostra patrona?

Ceca. Sí, è. Perché?

Rita. Per bene. Madonna Fulvia mia patrona gli vorria parlare.

Ceca. Aspettate, che or ora li farò l’imbasciata. [p. 94 modifica]

Rita. Tornate presto, di grazia.

Fulvia. Accòstate in qua, Rita, acciò che non paia ch’io stia sola; che tu sai ch’alle male lingue non mancaria che dire.

Rita. Costei si sará forsi rotto el collo, ché bada tanto a darci la risposta.

Fulvia. Qualche cosa deve aver a far, lei. Lassala pur stare.

Rita. Volete ch’io ripichi?

Fulvia. No, no; che non dicessino pur cosí che noi avemo del fastidioso.

Ceca. Oh! Madonna, perdonateme se io sono stata troppo a ritornare, ché sono corsa drieto alla carne che si portava la gatta... volsi dire, la gatta si portava la carne.

Fulvia. Ben, che dice la tua patrona?

Ceca. Che, madonna sí, che venghiate di sopra.

SCENA IV

Prudenzio mastro, Malfatto servo.


Prudenzio.

Omnia vincit amor et nos cedamus amori.

Certamente pare, al giudizio dei periti, che totiens quotiens un uomo esce delli anni adolescentuli, verbi gratia un par nostro, non deceat sibi l’amare queste puellule tenere; benché dicitur che a fele, senio confetto, se lli convenga un mure tenero. Oh terque quaterque infelice Prudenzio! a cui poco le virtú e le lunghe lucubrazioni e i quotidiani studi prosunt. E ciò solo avviene chí li uomini sono inimicissimi delle virtú e delle Muse del castalio e pegaseo fonte; e, come li arieti o li irconi, con li corii aurati viveno, chí «sine doctrina vita est quasi mortis imago»; ed hanno sí la virtú conculcata che solo alle crapule attendono e incumbunt a rubare, a soppeditare el prossimo con mille versuzie e doli. Benché, noi non li stimiamo; quia, «cum recte vivis, non cures verba malorum». E cosí i miseri non se accorgeno che sono tanquam boves et oves et super pecora campi. E, se alcuno vole captare benevolenzia appresso di [p. 95 modifica]loro, bisogna che sia un testis iniquus, un garulo inquieto, un furcifer, un capestrunculo, un cinedulo calamistrato, un tonditore di monete, un lenone, uno inrumatore, un caupone tabernario inimico del politico vivere; e di quanti maggiori vizi è decorato tanto magis è accetto, quia «omne simile appetit sui simile». Ma solamente mihi tedet de non essere in grazia di questa radiante stella alla quale la famosa dea della pulcritudine non gli sarebbe ottima pedissequa et est lascivior hedo. E saria plus quam contentus s’io potessi coniugnerla nosco in coppula e vinculo matrimoniale. Né curarei di fargli fondo dotale di una nostra domo laterizia quale avemo empta in questa cittá, nella quale avemo consumpte molte pecunie in resarcirla. Ho decreto de mandargli un’apocha, una pagina, un epistolio in laude sua. Voglio andare al fòro per emere alcuna cosetta per prendere la corporale refezione e resarcire, cibando, el ieiuno ventre. O Malfatto!

Malfatto. Che volete?

Prudenzio. Vieni fuora. Non odi? a chi dico io?

Malfatto. Che ve piace, ehu?

Prudenzio. Non hai verecundia a responder al precettore cosí temerariamente? Guarda pur, ch’io non ti dia un cavallo.

Malfatto. Si! Sempre me volete dare li cavali, voi; e sempre me fate andare a piedi con le scarpe mezze rotte e mezze straziate.

Prudenzio. Non piú parole; e fa’ che tu stii cheto; e fa’ che sempre non te abbiamo a fare uno epilogo sopra el vivere tuo. Háime inteso? perché non respondi? che guardi? a chi dico io?

Malfatto. Uhu! uhu! uhu!

Prudenzio. Che parlar, che gesticoli de asino son questi?

Malfatto. Uhu! uhu! uhu!

Prudenzio. Che si ch’io ti farò parlare!

Malfatto. Perché volete che parli, se prima me dite ch’io stia cheto?

Prudenzio. Io te ho detto che tu lassi parlare prima al mastro e che poi respondi. Dove sei andato, Malfatto? non odi?

Malfatto. Missere! missere! [p. 96 modifica]

Prudenzio. Malanno che Dio te dia! Dico che venghi nosco.

Malfatto. E quando?

Prudenzio. Extemplo; illico; che venghi statini.

Malfatto. Messer non. Non sono stato in nessun loco.

Prudenzio. Malan che Dio ti dia! Certe tu es insanus.

Malfatto. Misser si che son sano. Sonno le scarpe che sonno rotte. Ecole: vedete.

Prudenzio. Che si che, s’io torno in scola, te darò una spogliatura!

Malfatto. Ed io me ne andarò a letto, se me spogliarete.

Prudenzio. Fa’ ch’io non te l’abbia a ripilogare un’altra volta. Vieni meco.

Malfatto. E dove volete ch’io venga, adesso che vuol piovere?

Prudenzio. E tu lassa piovere.

Malfatto. Be’, si, voi lo dite perché avete le scarpe sane: ma che non me prestate le vostre, voi, a me e pigliateve le mie?

Prudenzio. Tu vai optando ch’io non comperi l’altre nove.

Malfatto. Io non ne voglio se non doi, e non nove; che non ho tanti piedi, io. Ma quando me le comparerete?

Prudenzio. Domani omnino, idest per ogni modo.

Malfatto. O dateme le vostre oggi a me e pigliateve per voi quelle che me volete comparare domane.

Prudenzio. Ego te supplico, per Deum immortalem.

Malfatto. Misser, volete lo pistello ancora?

Prudenzio. Dove ambuli? dove vai?

Malfatto. Per lo mortale che me avete detto.

Prudenzio. Odi qui ciò ch’io ti voglio dire.

Malfatto. Dite pur.

Prudenzio. Ch’io, totis viribus...

Malfatto. Misser si.

Prudenzio. ... farò cosa che tu sarai sodisfatto.

Malfatto. E lui ancora?

Prudenzio. Quisnam? Chi lui?

Malfatto. Che ne so io?

Prudenzio. Me par bene che non sai che te parli. [p. 97 modifica]

Malfatto. Ben. Patrone, io non voglio venire se non me date le scarpe.

Prudenzio. Vieni; ch’io t’imprometto de dartele come noi toniamo.

Malfatto. Si! come tornamo! Voi me ci volete cogliere come le altre volte. Non avete un quatrino.

Prudenzio. Tira alle forche, temerario poltrone! Che sai tu se io ho nummi o no? Fa’ che stii cheto e non amplius loqui. E basta.

SCENA V

Ceca serva.

Io, per me, farò ogni cosa pur che lo trovi. Va bene. Vuole ch’io vada sino a casa d’una certa Filippa che abita in Treio e ch’io veggia di parlar al servo di misser Curzio el quale è innamorato della figliuola. E hami imposto ch’io gli dica ch’ella è contenta e che, stanotte, ne venga su le tre ore, pur che del prezzo che molte fiate li ha mandato a offerire non gli venghi meno. Io mi maraviglio e noi posso credere, se noi vego, ch’ella si lassi in tanto errore trascorrere. E quella giovane, che molte fiate gli è venut’a parlare, credo che sia una cattiva pratica, la sua; e son certa che lei è quella che la conduce a scavezzarsi el collo. Ma starai a vedere che questa mi sará una tale occasione ch’io potrò piú scopertamente accommodarmi a qualche mio piacere. E sai che molte fiate me ne ha parlato quel suo servitore di questa cosa, cioè de l’onor mio, con promissione de volermi sposare se io gli fo qualche piacere. Ma, alla fede, ch’io voglio che prima mi sposi; ch’io ne ho cotta la bocca e me delibero che non me ci coglia piú persona, s’io posso. I’ vi son stata còlta dell’altre fiate su queste promesse; e si vuol dire che chi viene dal morto sa che cosa è piangere. El bello è che poi se ne vanno avantando come se gli fosse un grande onore. Alla fé, che i gatti ci averanno aperti gli occhi, a questo tratto. Ma sera forsi meglio ch’io volti giú per questa strada qui che mi par piú corta assai.