Il pedante/Atto II
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ATTO II
SCENA I
Curzio amante, Malfatto servo, Trappolino regazzo.
Curzio. Da ch’io mi levai per insino a quest’ora sono stato ad aspettar el patrone del banco ove mi sogliono venire i dinari da casa; né, possendo piú aspettarlo, punto dalla cieca passione, in qua ne son venuto. Ho lasciato Rufino che gli parli e che poi se ne vada sino a casa de Filippa. E, se la sorte mia buona vorrá ch’io giunga, si come spero, a perfetto fine di questo mio amore, non che felice, ma con la istessa felicitá non cangiarci el stato e ’l grado mio. Solo un pensiero è quello che m’afiíige: ch’ho inteso, aimè! che quel porco, poltrone, ignorantaccio di quel pedante suo vicino la vole per moglie e senza dote. Io l’ho incontrato poco è; e dogliomi de non gli aver parlato e fattogli intendere ch’ad altro attenda. Pur, s’el me si rintoppa innanzi, vo’ sturargli gli orecchi di buona maniera. Ma, se io bene raffiguro, costui che viene di qua giú, alle fattezze e al vestire, l’è il servo suo. E’ non può essere che costui non ne sappia qualche cosa di questo parentado. Me delibero de demandargnene.
Malfatto. Vedi ch’io non ci voglio venire e che piú presto me ne voglio andare a spasso per farte despetto.
Curzio. Oh quel giovane!
Malfatto. Vederemo chi sará piú poltrone, o lui o esso.
Curzio. Olá! Non odi?
Malfatto. Me chiamate io, voi?
Curzio. Si, chiamo. Vien qua, che ti voglio parlare.
Malfatto. O venite qua voi, che te aspettarò.
Curzio. Ascolta solamente doi parole.
Malfatto. Voglio andare in Campo de fiore.
Curzio. Con chi stai tu?
Malfatto. Mò, mò; vedete: volete forsi niente?
Curzio. Oh! Tu me respondi a proposito!
Malfatto. Orsú! Basta. Son vostro serviziale.
Curzio. Costui deve esser matto. E’ non sará quello che dico io. Anzi, l’è pur esso. Olá!
Malfatto. Missere, che vói?
Curzio. Fatti un po’ qui, di grazia. Con chi stai tu? chi è el tuo patrone?
Malfatto. L’è un mastro. Lo conoscete bene voi, si. Ed è innamorato, che possa crepare!
Curzio. Si, l’uno e l’altro.
Malfatto. Propriamente, esso e voi.
Curzio. Io dico lui e tu, bestia!
Malfatto. Dico bene cosí io ancora.
Curzio. Che diavolo di nova foggia de abito e di uomo è questa di costui?
Malfatto. Sapete come me chiamo io? oh quello! Me chiamo... Oh! oh! non te lo voglio dire.
Curzio. Se noi vói dire, statti.
Malfatto. Che non te lo indovini de un quatrino. Me chiamo Malfatto, vch!
Curzio. So che non ti mentisce el nome. Ma dimmi un po’:
de chi è innamorato el tuo maestro?
Malfatto. D’una moglie.
Curzio. Che halla presa per moglie, forsi?
Malfatto. No, madonna, no. È che lui la vorria pigliar esso per moglie e vorria ch’essa stessi con lui e io con esso.
Curzio. Che diavolo parli? che hai? che dici?
Malfatto. Dico ch’ogni sempre lui vorria far... sapete?
Curzio. Che cosa vorria far? Che guardi? che tocchi?
Malfatto. Tocco che voi avete certe belle scarpe, pelose, nere. Volete cangiare con le mie?
Curzio. Son contento. Sta’ fitto. Che farai?
Malfatto. Ve Ile volevo cacciare e metterve queste mie che sono piú sane.
Curzio. Un’altra volta, poi; non adesso.
Malfatto. Ed io me ne voglio andare.
Curzio. Odi; ascolta. Non ti partire.
Malfatto. Si; ma prestame tre quatrini.
Curzio. Son contento. Vieni con me, ch’io te Ili voglio dare.
Malfatto. E dove volete ch’io venga?
Curzio. A casa mia.
Malfatto. Fit! mahu! cagna! Non me cci coglierete, no.
Curzio. E perché? di chi hai paura?
Malfatto. E che? Me voresti fare le male cose come fa lo mastro alli scolari, ch?
Curzio. So ch’el confessa senza tratto di corda.
Malfatto. Che non me li date qua, se volete?
Curzio. Non ho dinari appresso. Vieni, su la fede mia.
Malfatto. Andiamo, su! Volete che venga dinanzi o drieto?
Curzio. Vieni come vói tu. Oh che dolce spasso è questo di costui! Ma starai a vedere che, pian piano, gli cavarò di bocca ogni cosa.
Malfatto. Son stracco. Io non posso piú caminare.
Curzio. Camina, camina, che giá semo arrivati.
Malfatto. Si! arrivati! E dove è la casa, che non la veggo?
Curzio. Eccola qui. Bussa un poco.
Malfatto. Tic, toc. Non ci è nessuno?
Trappolino. Chi è lá?
Malfatto: È questo compagno.
Trappolino. Che compagno? che compagno? gaglioffo che tu sei!
Malfatto. Olá! Parla con voi, vedete.
Curzio. Che non vieni aprire, sciagurato?
Trappolino. Oh patrone! Perdonateme; adesso vengo.
Malfatto. Sta con voi quello che dite?
Curzio. Si che sta con meco. Perché?
Malfatto. E con chi dorme? con voi?
Curzio. Non. Dorme con un altro compagno.
Malfatto. Io dormo molto ben con lo mastro.
Curzio. Nel letto suo proprio?
Malfatto. Misser no. In camera; in un altro letto; in terra.
Trappolino. Entrate.
Curzio. Vieni dentro, Malfatto.
SCENA II
Fulvia donna, Iulia donna, Rita serva.
Fulvia. Non venite piú innanzi. Di grazia, tornatevi dentro.
Iulia. Orsú! Andate in pace. Voi me avete intesa.
Fulvia. Madonna si.
Iulia. Me avete ben fatto despiacere a non vi restare a desinare con esso meco.
Fulvia. Sempre desino con esso voi. Di grazia, tornatevi di sopra.
Iulia. Orsú! Buon giorno.
Fulvia. Buon giorno e buon anno. Che dici tu, Rita, adesso?
Molto stai si cheta.
Rita. Che volete ch’io dica?
Fulvia. Che ne credi tu di questo mio pensiero?
Rita. Io penso che Iddio ve adiutará; e che, quando egli saprá che voi l’abbiate seguito d’allora in qua che, senza legitima causa, vi lasciò, penso che se umiliare e che vi abbracciare e faravi carezze. E sonne certa, per ciò che cosí farei ancor io.
Fulvia. Iddio, secondo el nostro bisogno, ci adiuti e ci consoli.
Rita. Buono è di sperare in lui. È meglio che nel favore delli uomini, che sonno fallaci e buggiardi.
Fulvia. Hai tu veduto quanto si è fatta pregare questa buona donna prima che si sia contentata?
Rita. Be’, madonna, non è da maravigliarsene: che voi vedete ch’ella è povera; e ogni poco di bisbiglio che si levassi contro di lei sarebbe sufficiente a tórgli ogni ventura.
Fulvia. Tu dici el vero. Ma che te ne pare di Curzio?
Rita. Circa a che cosa?
Fulvia. Circa l’essersi innamorato.
Rita. Io ve dirò el vero. Me par ch’abbi fatto bene.
Fulvia. Bene, ch? Non ti cuoce a te: però parli a questo modo.
Rita. Eh! madonna, vorrei che voi mi potessevo vedere el cuore; che forsi mi terrestivo piú cara che non mi tenete.
Fulvia. El veggio, pur troppo, quando tu dici ch’egli ha fatto bene.
Rita. Io vi ho risposto a quel modo per ciò ch’ella è una galante giovane e degna d’essere amata (perdonateme voi) da maggior uomo che lui. Ed io, per me, se, come son donna, fossi un uomo e potesse, faria le pazzie.
Fulvia. Tu sei molto furiosa da poco tempo in qua.
Rita. Madonna, pregamo pur Iddio che la Ceca...
Fulvia. Chi Ceca?
Rita. ...la serva sua, facci qualche cosa di buono.
Fulvia. Oh! Ben fará, si: ch’ella è savia e lui ne ha voglia. Ma cominciamo, ch’eli’ è tardo. E leviamoci di questa strada presto, acciò non c’intopassimo in lui: ch’io non vo’ che sappia ch’io sia in Roma insino a tanto ch’io non l’ho in luogo ove che non mi possa fuggire.
Rita. Voltate di qua, se vi piace, che l’è piú corta.
SCENA III
Malfatto servo, Ceca serva.
Malfatto. Per santo Niente-benedetto, per la croce de Dio, che voglio andar adesso adesso, mò mò, a trovar l’oste che fa la taverna e darli questi quatrini e fare che me dia un quinto de vino e un pezzo de trippa prima che torni lo mastro: che so che gridará, ma ch’adesso che me ne ricordo, non ce voglio piú stare con lui; che me voglio conciare con questo bono uomo che me ha dati li quatrini, che dice che vole ch’io li sia compagno. Ed holli raccusato lo patrone che fa l’innamorato con una qua a basso. Cancaro! Ecco, alla fé, quella che dice che me vole per marito. Alla fé, la voglio aspettare.
Ceca. Io ho trovato a punto el servo di Curzio e hogli fatto l’imbasciata. M’ha ditto ch’in casa di Filippa mi renderá la risposta.
Malfatto. Io voglio andare a trovarla, a fé. Bona sera.
Ceca. Oh! addio. Bona sera e ’l buon anno. Dove vai?
Malfatto. Venivo a ti. Come sto io?
Ceca. E che vói tu ch’i’ ne sappia come stai? Guarda ch’adimande da sciocco!
Malfatto. Io volevo dire come stai tu.
Ceca. Tieni le mani a te. Che farai?
Malfatto. Volevo toccare un po’ qua dentro.
Ceca. Non se tocca qua dentro, se non se piange.
Malfatto. O aspetta un poco. Non te so’ moglie io a te?
Ceca. Sta’ da lunga, quando tu parli. Non ti accostar tanto, che tu m’amorbi. Che non te lavi, che puti com’una carogna?
Malfatto. Non ho la rogna, no. Vedi? Son bianco. Guarda un po’. Te voglio bene io a te, vch!
Ceca. Ed io a te. Siamo d’accordo.
Malfatto. O lássamete, adunque, montare adosso.
Ceca. Come adosso, bestia?
Malfatto. Si, a cavallo; a questo modo.
Ceca. Fatt’in lá, poltrone!
Malfatto. Oh! Ceca mia, quando me vói far far un figliolo?
Ceca. Taci, balordo! E dove trovi tu che gli omini faccino figlioli?
Malfatto. O fallo tu, adunque; e io te cci voglio aiutare.
Ceca. Ne arei ben voglia.
Malfatto. Che dici? Non sei contenta, Ceca mia bella?
Ceca. Si, si. Dimme un po’ : el tuo patrone compone piú versi?
Malfatto. Si. È andato verso qua giú. Poco stará a tornare.
Eh! non ti partire cosí presto, che io ti darò questi quatrini.
Ceca. Damile, su!
Malfatto. Eccoli. Vedi quanti sono!
Ceca. Gran mercé a te. Addio.
Malfatto. No, no. Cagna! Non ce voglio fare. Rendemeli.
Ceca. Come! Non me Ili hai tu dati?
Malfatto. Si; ma non voglio che tu te nne vada.
Ceca. Che vói tu ch’io faccia qui fuori? Non hai tu vergogna de star nella strada a parlare con le femine?
Malfatto. Be’; rendime li mei quatrini, adunque.
Ceca. Non te Ili voglio rendere. Non me Ili hai dati?
Malfatto. Misser no, che non te Hi ho dati. Rendime li mei quatrini; rendime li mei quatrini.
Ceca. Vedi come piange el gaglioffo!
Malfatto. Rendime li mei quatrini, dico.
Ceca. To’, vatti con Dio.
Malfatto. E dove vói tu ch’io vada?
Ceca. Va’ dove vói.
Malfatto. Odi. Andiamo insiemi a bevere un’ostaria alla foglietta de greco.
Ceca. Non posso, adesso. Recomandame al tuo mastro, sai?
Malfatto. Vói ch’io li dica altro?
Ceca. Digli che se ne perda el seme d’un si tristo corpo.
Malfatto. Basta. Gli dirò che tu voresti che te mettesse el seme in corpo.
Ceca. El malanno che Dio ti dia, bestia!
Malfatto. Te nne vai, ch? Voglio venire ancora io.
Ceca. E vatti con diavolo! Tu vorrai che te vega madonna e che gridi molto bene.
Malfatto. Orsú! Bona sera. Io me ne voglio andare in casa.
Ceca. Va’ con diavolo!
SCENA IV
Rufino solo.
Io ho incontrata, poco è, la serva de Livia e hame ditto che la cosa è in ordine, pur che vi sieno i danari della dote che se gli è promessa, e ch’ella tornerá a riparlarmi in casa di Filippa. Io, per me, non so dove se gli caverá costui questi denari: che non ha un quatrino né meno è per averne per qualche giorno; ch’il banco non ha avuto ancora aviso da casa.
Certo deve essere ritornato, poi che la porta è aperta. Lásciamegli rendere la risposta d’ogni cosa speditamente acciò proveda a’ casi sua.
SCENA V
Prudenzio pedante, Malfatto servo.
Prudenzio. Non me sono accorto di questo giottonciculo del famulo ch’inel mezzo del fòro, in nel conspetto di molti egregi ed eccellentissimi uomini, me ha derelicto mentre eravamo in circulo a discutere alcuni dubi delle peculiali virtú nostre. Ma testor Deum ch’io li voglio dare ad minus cento verberature. Certum est ch’io non fo bene a tenerlo, che quanti báiuli, quanti inepti villichi sono in questa inclita e alma cittá tutti lo cognoscono, se li congratulano; e non si accon viene a me esser veduto con esso lui perché non si dica, appresso delli insipidi ideoti garuli e rinoceronti, che lo eximio maestro Prudenzio, eletto e approbato da Sua Santitá censore e maestro regionario con stipendio congruo e condecente ad un paro nostro, meni apud se un tal famulo. Sed «necessitas non habet legem», la necessitá, l’uopo non ha lege, quia multum interest a noi el suo magisterio circa le cose veneree, stimulandone molto la concupiscenzia carnale. Et ipse è molto cognosciuto apresso della genitrice della mia unica, lepida, blandula, melliflua e morigerosa Livia, vero speculo di pulcritudine e di exemplare vertú: che, totiens quotiens me immemoro quei membricoli e’ flavi capegli e li ocelli glauci co’ supercilii leni biforcati, col pettusculo niveo, vera cassula et arcula ove ch’el nostro còrculo si latita e lo anellito de quella boccula roscicula che fiata un’aura, una fragranzia, uno odore manneo che tutto me letifica, e che io contemplo quella fenestrula, statim divengo un metamorfoseo.
E, per quanto posso comprendere, gli piace molto ch’un par nostro l’ami. E «certum est quod natura dat»: non si può negare ch’essendo la maestá sua di sottile, acuto e peregrino ingegno, per consequenti è amica de’ periti, savi e dotti uomini, quia melius est nomen bonum che non sono le richezze. Ma ecco el nostro insipido famulo ch’esce del ludo litterario.
Malfatto. Diavolo! Non passare mai piú nessuno delle ciambelle? che vorria spendere questi quatrini.
Prudenzio. Ah scelesto! Non curare: te castigarò bene, si.
Malfatto. Oh mastro! Bon di e bon anno. Ve sono venuto aspettare a casa e me sono stati donati questi.
Prudenzio. E chi te Ili ha dati? Che non parli? Quis est ille che...
Malfatto. Che nascio sino pelle di te quello mastro.
Prudenzio. Io dico questi. Chi te Ili ha dati?
Malfatto. Uno che m’ha ditto che voi site un poltrone e che lo fuoco ve possa abrusciare.
Prudenzio. E chi è questo?
Malfatto. E che voi séti un certo che fa alli scolari...
Prudenzio. Taci, famulo, carnifice.
Malfatto. E dove è la carne? Ve sognate, nch vero?
Prudenzio. Quid latras?
Malfatto. Misser no, che non son latro. Non li ho robbati, alla fé.
Prudenzio. Non curar, giotto, uso al lupanaro. T’imparerò de avermi derelicto mentre ero con quelli uomini eruditi nel fòro.
Malfatto. Oh! adesso adesso sono uscito fuori.
Prudenzio. Non respondes ad propositum.
Malfatto. Prosopito des los bondi.
Prudenzio. Taci, temerario, poltrone, inepto! Dimi un po’: perché te nne sei tornato a casa?
Malfatto. Perché me è piaciuto.
Prudenzio. Cosí me rispondi? Adunque, io te devo dare da resarcire el ventre e farte le calighe e i diploidi e i pilei, e devi fare a tuo modo? Ma guarda pur ch’io non ti dia qualche alapa che non ti metti quattro denti nel gutture!
Malfatto. Per Dio! Patrone, missere, odite, per questa croce.
Prudenzio. Che vói ch’io oda? Vederai ch’io farò che, quando tu verrai meco, non te panerai dal latere nostro. Dimmi un po’: chi te ha dato quelli quadranti?
Malfatto. Che quadranti?
Prudenzio. Questi; questi nummi.
Malfatto. Son quatrini, son quatrini. Voi non ci vedete lume. Che me Ili ha dati esso quello.
Prudenzio. Quale?
Malfatto. Quello che dice che voi site un poltrone.
Prudenzio. E cognoscelo tu?
Malfatto. Misser si, che ve cognosce.
Prudenzio. Io dico se tu lo cognosci; intendi bene.
Malfatto. Vedete se me cognosce, che m’ha dati li quatrini.
Prudenzio. È questo possibile, che tu non mi respondi a quello ch’io te interrogo? Io te ho detto se tu lo saperai ricognoscere, si o no. Che dici tu?
Malfatto. Si e no.
Prudenzio. Iuro per deum Herculem che...
Malfatto. Non se chiamava Ercole, messer no.
Prudenzio. Se io fosse cerciorato vendundarme la toga, voglio cognoscerlo e fargli dar molte vulnere da questi sicari famuli di questi magnifici eccellentissimi signori principi mei patroni sempre observantissimi e fargli cavar el cuor del corpore.
Malfatto. Oh! Mastro, ha ditto ancora che voi site un somaro.
Prudenzio. Un asino, ch?
Malfatto. Misser no: un somaro.
Prudenzio. E quo casu lui?
Malfatto. Non ho comparato caso, messer no. Avete fame, nch vero?
Prudenzio. Io arei per manco de darte un equo, se tu non taci, che disputare. Gran cosa che questa inclita cittá magnanima sia cosí sterile del consorzio de’ viri probi e sia fertile delli invidiosi inimici delle sacrosante, buone e megliori e optime vertú! E sono come l’ortiche che pultano a chiunque le tagne; e sono inepti a tutte le cose.
Malfatto. O misser, sapete? Ho trovata a quella... Oh!
non me se recorda. Ah! ah! si; la patrona de madonna Iulia.
Prudenzio. Che patrona hai trovata? Che non lo dici?
Malfatto. Quella che va fuori, che parla sempre con io.
Prudenzio. E che ti ha detto?
Malfatto. Me ssi arico manda e me ha ditto che me voi bene.
Prudenzio. Andiamo all’ospizio, idest in domo; ch’io voglio che tu ci vadia per ogni modo quando averemo epulato. Camina.
Malfatto. Ecco, io vengo.