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atto primo 97


Malfatto. Ben. Patrone, io non voglio venire se non me date le scarpe.

Prudenzio. Vieni; ch’io t’imprometto de dartele come noi toniamo.

Malfatto. Si! come tornamo! Voi me ci volete cogliere come le altre volte. Non avete un quatrino.

Prudenzio. Tira alle forche, temerario poltrone! Che sai tu se io ho nummi o no? Fa’ che stii cheto e non amplius loqui. E basta.

SCENA V

Ceca serva.

Io, per me, farò ogni cosa pur che lo trovi. Va bene. Vuole ch’io vada sino a casa d’una certa Filippa che abita in Treio e ch’io veggia di parlar al servo di misser Curzio el quale è innamorato della figliuola. E hami imposto ch’io gli dica ch’ella è contenta e che, stanotte, ne venga su le tre ore, pur che del prezzo che molte fiate li ha mandato a offerire non gli venghi meno. Io mi maraviglio e noi posso credere, se noi vego, ch’ella si lassi in tanto errore trascorrere. E quella giovane, che molte fiate gli è venut’a parlare, credo che sia una cattiva pratica, la sua; e son certa che lei è quella che la conduce a scavezzarsi el collo. Ma starai a vedere che questa mi sará una tale occasione ch’io potrò piú scopertamente accommodarmi a qualche mio piacere. E sai che molte fiate me ne ha parlato quel suo servitore di questa cosa, cioè de l’onor mio, con promissione de volermi sposare se io gli fo qualche piacere. Ma, alla fede, ch’io voglio che prima mi sposi; ch’io ne ho cotta la bocca e me delibero che non me ci coglia piú persona, s’io posso. I’ vi son stata còlta dell’altre fiate su queste promesse; e si vuol dire che chi viene dal morto sa che cosa è piangere. El bello è che poi se ne vanno avantando come se gli fosse un grande onore. Alla fé, che i gatti ci averanno aperti gli occhi, a questo tratto. Ma sera forsi meglio ch’io volti giú per questa strada qui che mi par piú corta assai.