Il palazzo d'amore

Lodovico Paterno

XVI secolo Indice:Poemetti italiani, vol. III.djvu Poemi Il palazzo d'amore Intestazione 12 gennaio 2022 75% Da definire

Questo testo fa parte della raccolta Poemetti italiani, vol. III


[p. 1 modifica]

IL PALAZZO D’AMORE


DI M.


LODOVICO PATERNO



     Al bel vago gentil vostro occidente
D’amor l’altero volo, e’l gran desio
Canto, e ’l palazzo suo ricco e lucente,
Dov’un tempo abitar piacque al gran Dio,
Se pur colei, che ’n viva fiamma ardente
Tien dura, come selce, il petto mio,
Non sdegnerà, che con sua grazia io possa
Finir pria, che mi chiuda in poca fossa.

     Altri di lui con più purgati inchiostri
Le varie scriva, ed ostinate imprese.
Altri, come domò tiranni e mostri,
Cui far non valse alfin schermi e difese,
Altri com’entro i sotterranei chiostri,
In mezzo’l foco, il gran Plutone accese.
Ed altri come in strane forme e nove
Cangiar fè gli Dei tutti, e ’l padre Giove.

[p. 2 modifica]


     Sovra’l più vago ed odorato mome,
Ch’abbiano i campi Eoi, stavasi Amore:
Quand’al buon Dio, che con la chiara fronte
Rende a tutte le cose il suo colore,
Disse, o tu, ch’ogni terra, ogni orizzonte
Empi, o sol, di sovrano almo splendore
Dimmi per cortesia, trovasti al mondo
Luogo più bel di questo, o più giocondo?

     È lucente e gentil, Febo rispose,
Questo ed assai leggiadro, ed assai bello.
Ma pur in altri meraviglie ascose
Veder potresti in questo clima e ’n quello:
E sappi pur ch’ove a Sebeto impose
Natura entrare in tempestoso avello,
Giace una dilettosa ampia campagna,
Ch’ei con la felice urna impingua e bagna,

     Questa non teme il variar de l’anno,
Nè del mio grave carro il foco interno:
Nè vienle, com’a l’altre oltraggio e danno
Da la superbia de l’orribil verno,
Qui smeraldi e zaffiri, e rubin’hanno
Vivo in su la verd’erba il pregio eterno,
Qui vaghi uccelli fan di notte e giorno
Gli arboscei dolce risonar d’intorno.

[p. 3 modifica]


     Sua sede ha Dio sovra quest’aria posto,
Ed indi move, e tempra l’universo;
E qui tanto da lui, tanto è riposto,
Quanto non può capir prosa nè verso,
Ed io, quando mai fia, meco ho proposto
Starvi suggendo ogni pensier avverso,
Qui tacque, e de destrieri accolse il freno,
E sparve, come suol larva e baleno.

     Restonne il fanciulletto acceso in modo
Per le parole, che quel Dio gli disse,
Che ritrovar non sa requie nè modo,
Così nel suo desir le voglie ha fisse,
Sì che d’andarvi con acuto chiodo
Entro ’l suo petto, il tempo e ’l di prefisse
Che già venuto, e da la madre tolta
Licenza, a l’ale sue tosto si volta.

     E quattro, e cinque volte in aria spinta
Lieve da terra, i vanni stende al dritto
Di meraviglia e tenta assai dipinto
Su per la negra arena de l’Egitto.
Ove di Menfi il prisco onore estinto
Vide, e ’l miracol suo dal tempo afflitto.
Poi lasciò la città, che ’l nome tolse
Dal magno Greco, e gli occhi a Rodi volse.

[p. 4 modifica]


     E quella pur lasciata affrettò ’l corso
In ver l’isola altera, ove’l gran figlio
Nacque del buon Saturno, e non fu morso
Dal dente, ed uscì fuor d’ogni periglio.
E poi per l’altra in un momento scorso
Che de l’Italia ha solitario esiglio,
L’ale rivolse da la man finestra
E giunse nel Tirren per la via destra.

     Così di capre intorno va mirando
L’alta irsuta montagna, e ’l lito ameno,
Dolce recesso di Tiberio, quando
Avea posto a nemici il duro freno,
E Sarno vede ancor non molto errando
Gelido entrar de le quet’onde in seno,
E con grande umiltà render il muto
Sebeto, a la fals’onda il suo tributo.

     Qui far Vesevo a le sue chiome calde
Pargli corona di fumoso vento:
E quinci e quindi per le ricche falde
Mover Sileno a passo infermo e lento.
Alfin le dritte sue veloci e falde
Penne, piegando ad alte cose intento
Cader si lascia in sen del bel paese,
Di cui vedere alto desio l’accese.

[p. 5 modifica]


     E con molt’agio il mira, e rivagheggia,
E sempre il ten più lieto e più gentile,
E fra se dice: qui sarà mia reggia,
Che l’oriente è troppo inculto, e vile.
Così mentre godendo il pargoleggia,
Mira florido errar tra l’erbe aprile,
Che celeste piacer da gli occhi sui
Prima porge a se stesso, e poscia altrui.

     Qui, come Dio, che con un cenno aduna
Quant’ei vuole, e comanda immantinente.
Un palagio real, che vinca ognuna
Opra, non mai più vista in fra la gente
Fè sorger pria, che l’aria cieca e bruna
Uscisse fuor de’ liti d’occidente:
A lato a cui sarian, qual rame ad oro,
L’alte case di Xerse, o Dario o Poro.

     De le più ricche gemme, ch’a noi scopra
L’Arabo, o l’Etiopo, o l’Indo errante,
La porta era vestita, e ferma sopra
Quattro, e quattro colonne di diamante.
Ne le cui sponde ergeasi con bell’opra
Bronzo, ed avea di donna alto sembiante,
Al cui primo apparir ne gli occhi accolto,
Dimostrava spirar, mover il volto.

[p. 6 modifica]


     Gli archi di bel musaico, e le sue logge
Superbe, e i palchi affisi a Parii marmi,
Difendean da l’arsura e da le pioggie
Quei, ch’in mano d’amor rese avean l’armi.
E perch’alto e superbo il loco pogge
Crescea, che degno di miracol parmi,
Una sala, cui sopra era un bel cielo,
Qual e ’l vero, v’appar senz’ombra o velo.

     Dentro e di fuor tutto fregiato e carco
Avea d’or fino il muro, e di giacinti.
Nel mezzo un Ercol poi tenea l’incarco
Sugli omeri non mai stanchi nè vinti
E da l’un lato a l’altro il celeste arco
Mille e mille color s’avea dipinti,
Col frate di Giunon, da la cui mano
Saetta uscir parea giù di Vulcano.

     Nel cerchio obliquo, ove del dì la luce
Rota, vedeasi, insculto il gran Centauro,
Col discreto animal, che seco adduce
Dolce amata stagione, e tempo d’auro.
Nè Castor vi mancava, nè Polluce
Congiunti, nè chi ’nfiamma il popol Mauro,
Quando col fiero cane, innanzi a libra,
I più cocenti fuochi in terra vibra.

[p. 7 modifica]


     La ben capace, e ricca sala, intorno
Di statue d’or perfettamente belle,
Piena era tutta, che vergogna e scorno
Facean al torchio de l’ardenti stelle.
Le quai sovr’altre, che più vago e adorno
Rendean quel luogo, avean nel lembo quelle
Lode intagliate, che si sparser fuori
Per l’onorate penne de’ migliori.

     D’alto sangue real di somma altezza
(Qui Maria d’Aragona, e d’onestate
Sorgea la prima e di maggior bellezza
Fra quante mai ne furo in altra etate.
De’ duo, che di tenerla ebber vaghezza
Sovra le spalle a tanto incarco nate.
I nomi eran descritti in larga nota,
Pria Ferrante Carafa, e poscia il Rota.

     Gioanna d’Aragona era dappresso,
Tempio d’ogni virtù sacro ed intero.
A questa rari doni ha ’l ciel concesso
Donna immortal, dignissima d’impero;
A costei un Maron fu già promesso
Dal primo dì, che nacque, ed un Omero.
De’ quai potean vedersi i nomi belli
Angelo di Costanzo, e ’l suo Ruscelli.

[p. 8 modifica]


     Gironima Colonna era la terza,
Figlia del grande Ascanio, e dopo questa
Quella seguia, che da mattino a terza
A nona, a vespro i chiari ingegni desta
D’Aragona Isabella, e seco scherza
Amor nè grazia alcuna a dietro resta
Minturno, e Tasso eran de l’una carchi
E de l’altra il Tansillo e ’l dotto Varchi.

      Ecco Leonora poi Sanseverina,
O chi verrà, che que’ begli occhi appieno
Possa lodare, ove suoi strali affina
Amor, per impiagarne a mille il seno.
Di costei canta Laura Terracina,
E pon cantando a l’aura a l’onda il freno:
E un Caracciol con lei, spirto divino
Giulio Cesar, cui tanto onoro, e ’nchino.

     Non men chiara, e leggiadra un’altra appare,
Mostra lo scritto fuor, Giulia Gonzaga,
Che de la notte a voglia sua può fare
Il chiaro giorno, od ella bianca e vaga,
I duo, che dottamente a lui cantare
Volser del lume, ch’ogni sdegno appaga
Si leggeano in un verso a paro a paro
Francesco Maria Molza, Annibal caro.

[p. 9 modifica]


     Nata da quel medesmo sangue ancora,
E d’onesta vaghezza non minore
Ippolita apparea, ch’i campi infiora
Il verno, e ne’ begli occhi ha sempre amore,
Nè degli omeri d’uno, o duo s’onora;
Ma da molti s’alzava il suo valore,
Da molti dico, a l’età nostra antichi,
Amalthei, Capilupi, e Gradenichi.

     Ne l’altra, o perch’i’ tanto ardisco, e voglio
Stringer chiara bellezza in fosche rime?
Con men dura fatica, in duro scoglio
Gnidia, con debil piombo ancor s’imprime
Vedeasi scritto. È Martia Bentivoglio
Che per un, che ne scrisse è tra le prime,
Per un, che tanto il secol nostro onora,
Adriano Guglielmo Spatafora.

     Di quelle due vittorie, che si stanno
Così propinque, d’or l’intaglio dice,
È Vittoria Colonna, ch’alto inganno
A la morte farà sola Fenice.
È Vittoria Capana, a cui far danno
Grave non potrà mai tempo infelice.
Ed è ben dritto poich’han guance e chiome
Di beltà pari, abbian di pari il nome.

[p. 10 modifica]


     I primi duo, che con sì caldi petti
Portan la sua da l’uno a l’altro polo;
Termini di cognome ambi son detti,
Berardino, ed Antonio, ch’io ben colo.
I duo secondi, ch’i medesmi effetti
Speran de l’altra (o glorioso volo)
Duo Gianvincenzi son, l’uno Belprato
L’altro Vigliera, anch’ei da Febo amato.

     Di sembiante real seguia la santa,
Cangiato il proprio nome in Amarilli,
Vince costei quante aver mai si vanta
Il bosco, si leggeva, e Nisa e Filli.
Con la fronte costei lega, ed incanta,
Più che non fan di sera accolti villi.
Così di chi l’ergea di terra in alto
Dicea l’intaglio: È Don Gaspar Toralto.

     Ecco qui le tre grazie, ecco le belle
Di Marcellon Caracciolo alme figlie,
Che ’l mondo insomma aggiunge a lato a quelle
Ricche, e famose sue gran meraviglie.
Ma con le due, qual Hespro infra le stelle
Parea Vittoria; o madri di famiglie
Alte, i gran vostri appoggi, è ben ragione
Che Sansovino sien Franco e Serone.

[p. 11 modifica]


     L’ultima avea sul risplendente lembo
Invece del suo nome, così scritto:
Questa era degna, che di lei sol Bembo
Avesse, o d’altra men cantato e ditto,
Il nome ancor di chi piegato il grembo
Avea, per porla sovra ’l lato dritto
Era occulto; nè so per qual rispetto
Restasse il bel lavor manco e imperfetto.

     Dentro al ricco palazzo amor si vide
Starsi gran tempo assai pago e sicuro.
Finchè di Soliman le genti infide
Poser il giogo ai Sorrentin sì duro.
Allor chi noi da noi spesso divide,
Timido sen fuggì per l’acre oscuro.
E lui drizzato a la sua prima culla,
Repente il tutto si risolse in nulla.